5. Rottura

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Il tempo guarisce ogni ferita, dicevano

Ancora a terra, presi il telefono dal marsupio appeso diagonalmente al petto e lo tirai fuori; aprii la rubrica in cerca di un numero da chiamare, qualcuno che potesse tirarmi fuori da quel casino, da quel dramma che non avevo mai desiderato; come primo nome tra le ultime chiamate trovai quello di James: lo chiamai, ma che diavolo stavo facendo? Perché proprio lui?

Ero fuori di testa per fare una stupidaggine del genere!

«Che succede?» rispose al cellulare con un fremito quasi impercettibile.

Si ammutolì quando sentì i miei singhiozzi irrefrenabili.

«Dove sei, Liberta?»

«All'angolo con la stradina che porta a casa.» Asserii in lacrime.

«Aspettami, arrivo subito» e così feci; un signore mi passò accanto e vedendomi in quella terribile condizione, mi domandò: 

«Ragazza, hai bisogno d'aiuto?»  l'uomo era preoccupato e con il volto ricoperto di dispiacere, dovevo avere un aspetto orribile...

«No, grazie» risposi incerta.

Era davvero tutto a posto?

Attesi l'arrivo di James, mentre sentivo la vergogna incastrarsi nella gola come una spina di pesce.

Percepii il viso diventare rosso. Appena comparve, lo nascosi tra le mani e mi sentii avvampare, le lacrime, però continuarono a scendere.

Gli occhi bruciavano e con le dita me li stropicciavo e mi asciugavo le gocce di pianto.

Mi prese per mano e mi fece alzare, poi mi porse un fazzoletto con cui pulirmi il viso e asciugarmi.

«Andiamo, facciamo due passi fino al giardino qui vicino, parliamo.»

Prese il mio braccio sotto al suo e ci incamminammo per le strade di Lipsia fino ad arrivare a uno spiazzo verde, ci sedemmo su una panchina di legno l'uno accanto all'altra; mi guardò negli occhi e mi domandò dolcemente:

«Cos'hai?»

«È tutto uno schifo, sto male e tu, tu mi manchi...»

«Liby, è normale, ci siamo lasciati, ma io non ho intenzione di tornare indietro, ho fatto la mia scelta, e sono più convinto che mai, ho bisogno della mia libertà»

«E perché io invece ti amo ancora così tanto?»

«Sei sicura sia amore?»

«Certo! Che altro?»

«Sei sicura non sia dipendenza e ossessione?»

«Ma ti senti quando parli? Accidenti! Ti dico che ti amo ancora e tu mi parli come se fosse un problema di nicotina!»

E proprio quando pensavo di aver messo a tacere il pianto, cominciai di nuovo a lacrimare, non capiva, era inutile.

Mi resi conto solo in quel momento che lo avevo perso, per sempre.

Mi riaccompagnò a casa e ci salutammo con un abbraccio, arrivata in cima alle scale dopo novantotto scalini, avevo il viso rigato e gli occhi rossi come rubini, feci fatica a immettere la chiave nella serratura con gli occhi offuscati.

Tolsi le scarpe e corsi in camera, non c'erano i miei coinquilini in casa, ero sola.

Scalza e disperata raggiunsi lo scaffale nella mia stanza, presi il cd che mi aveva regalato del mio gruppo preferito, i Parcels, e lo gettai a terra, poi frugai nel mio comò e presi la sua maglietta, che con delle forbici cominciai a tagliare e strappare, quando arrivai in cucina per bere un bicchiere d'acqua, vidi la tazza dalla quale era solito bere caffè la mattina, la presi con la mano tremante e la gettai a terra con tutta la forza possibile, ero arrabbiata con me stessa perché dopotutto non ero riuscita a fare la dura, non è nella mia natura.

E a lui ero legata più che a chiunque altro.

L'oggetto si frantumò davanti ai miei piedi.

Schegge colorate si sparsero sul pavimento come petali davanti al cammino della sposa verso l'altare.

Mi diressi al corridoio per prendere la scopa, ma in quel frangente di secondo mi dimenticai di non avere le scarpe ai piedi.

Urlai per il dolore, ma poi continuai a camminare verso il bagno dove era l'acqua ossigenata. Lasciavo dietro di me sul pavimento macchie di sangue. Mi sedetti sulla vasca da bagno e disinfettai accuratamente il taglio, poi ci attaccai sopra un cerotto, sperando il taglio creasse il prima possibile una crosta; comunque non era grave e neanche profondo, niente che il tempo non avrebbe guarito, al contrario del mio cuore.

Non ci vedemmo né sentimmo più per i successivi due mesi, fino a una sera.

Un pomeriggio di fine luglio ero andata con i miei coinquilini in riva al fiume con altri venti o trenta amici, stavamo facendo l'ultimo picnic con un amico, Niko, che se ne sarebbe andato da Lipsia per trasferirsi in Austria per studiare. Era un bell'ambiente, stavo bene, almeno in quel momento, ero spensierata e non pensavo a lui.

Quando si accesero le luci attorno a noi e calò il buio, misero della musica e io mi sedetti con i piedi in acqua, un ragazzo si posizionò accanto a me e cominciammo a chiacchierare del più e del meno. Fu dopo la terza birra che commisi il secondo grande errore: gli scrissi nuovamente.

Ciao, ti va di bere qualcosa insieme?

Liby

Mi rispose subito, troppo velocemente, per i miei gusti:

No, non stasera

Perché no?

Ho da fare

Hai un appuntamento con una ragazza?

Liberta, semplicemente, non voglio!

Piansi anche quella sera, avevo sperato inutilmente di averlo dimenticato.

Ma se si è dipendenti da qualcuno, è difficile uscirne da soli.

Mi scrisse lui il giorno dopo:

Hai programmi? Ti va una partita di scacchi con del vino rosso a casa mia tra un'oretta.

Sono andata a fare il bagno al fiume, ma posso venire direttamente da te,

mi darai il benvenuto anche se puzzerò?

Ti aspetto a casa per le ventidue

Arrivai per l'orario prestabilito senza passare per casa. Suonai al citofono e lui aprì il portone. Un senso di familiarità ritrovata mi solleticò il cuore.

Avevo ancora il costume bagnato addosso, un paio di jeans corti a vita alta e un top grigio bagnato in prossimità del pezzo superiore del bichini.

Appena entrai nell'appartamento, mi accorsi che nella piccola entrata qualcosa era cambiato: un piccolo divano grigio era posizionato nell'angolo accanto alla scarpiera.

Entrammo in cucina e notai che era completamente nuova, era stata cambiata.

Mi sedetti al tavolo da pranzo in metallo e vetro e quasi mi venne da piangere, era reale ciò che stavo vivendo?

Stava veramente succedendo o era solo un sogno a occhi aperti? Lui mi offrì un bicchiere di vino rosso che accettai volentieri, aprimmo la finestra per poter fumare.

Mi accesi la prima sigaretta; aspirai nervosamente: ero agitata, forse troppo, ma come potevo non essere emozionata?

Io ero felice in quel momento, lo ero davvero con tutto il cuore, che scalpitava nel petto.

Iniziammo a giocare a scacchi, anche se non era per quelli che ero andata da lui; James, con un ghigno orgoglioso disse: «scacco», non ebbi il tempo di replicare che lui aggiunse «matto».

In quel momento vivevo realmente come le mie pedine bianche, quello "scacco" era tutto mio, incastrata tra il passato e il presente, stavo deponendo la mia ascia di guerra ricoperta di orgoglio.

Feci scivolare a terra ogni barriera che mi allontanava volontariamente da lui.

Fu poco dopo che mi prese per mano e mi portò in camera sua per farmi vedere la nuova disposizione dei mobili, cosa alquanto interessante se non fosse che poco dopo si sedette sul letto mentre gli ero voltata di spalle e mi tirò a sé, mi toccò il seno da dietro le spalle, che era freddo per non aver avuto il tempo di togliermi il costume, successivamente mentre ero già eccitata, mi baciò il collo con ardore e questo non fece che aumentare il desiderio.

Mi girai verso il suo viso e posizionai le ginocchia accanto ai suoi fianchi, seduta sul suo bacino. Gli aprii il bottone dei jeans per infilare la mano sotto i boxer aderenti. Sfiorai la sua intimità che era già estremamente dura, fu in quel momento che mi prese il labbro inferiore tra i denti tirandolo e affermando con una punta di affanno: «Voglio fare l'amore con te»; lo guardai negli occhi con insicurezza perché non capivo cosa cercasse in realtà da me.

Cosa voleva? Cosa si aspettava? Non lo comprendevo: mi lasciava per un'altra ragazza, ma poi voleva fare di nuovo sesso con me?

A che gioco stava giocando?

Guardai sul punto in cui la sua erezione era visibile dai pantaloni e mi leccai il labbro inferiore. Passai la mano su tutta la sua lunghezza e lui con voce roca mi disse: «Non così in fretta, Liby» pronunciò il mio soprannome in maniera così sensuale da farmi percepire un brivido lungo la schiena.

Non successe niente d'importante quella sera.

Non facemmo sesso.

Me ne andai un'ora dopo con l'amaro in bocca. Passò del tempo senza che me ne rendessi conto.

Una sera andammo addirittura insieme a una festa cittadina: in ogni locale di una delle strade principali della città c'era un concerto; alla fine quando lui volle andare a casa mi accompagnò al mio appartamento e poco prima di sorpassare il grande portone dell'ingresso, mi prese la mano e ci posò le labbra sopra, in seguito mi tirò a sé e disse semplicemente «Vieni con me»; sulla strada verso casa sua mi prese la testa fra le mani e mi spinse verso il muro di un edificio.

Con la testa tra le sue braccia distese, mi fissò e mi baciò, ma non era un bacio passionale, aveva più un sapore di scuse, che io avrei accettato, se me le avesse chieste a parole.

Quella notte ci riunimmo fisicamente e sentimentalmente; le nostre anime danzarono nuovamente sulle vibrazioni dei nostri cuori.

Tornammo a essere una coppia. Grande, grandissimo errore.

Molti di voi penseranno che sia stata una stolta ed è vero.

Lo sono stata eccome.

Il lavoro e lo studio erano stressanti, soprattutto in una lingua che non era quella primaria.

Ero nata e cresciuta in Italia e così andai anche a scuola nel paese della mia nascita.

Tornavo stanca a casa e nella maggior parte dei casi non avevo le energie per andare a fare festa in discoteca o a casa di qualche nostro amico.

E questo non andò molto a genio a James, che invece pensava solo a divertirsi dopo aver superato l'esame finale del primo anno universitario in marketing musicale.

E mentre lui andava a festeggiare, io me ne restavo a casa, sforzandomi a fidarmi di lui.

Non facevamo mai l'amore. Ci sfioravamo raramente, era una relazione, non relazione.

Pensavo di non piacergli più e mentre lui cominciava a ingrassare per l'alcol in eccesso, io dimagrivo, sperando lo aiutasse ad eccitarsi nuovamente per me.

Poi avvenne il disastro per cui non ci fu mai una soluzione, neanche successivamente, mi trascino ancora dietro questa storia come una cicatrice irremovibile.

La prima volta dopo mesi che rifacemmo sesso, rimasi incinta, un segnale che avrei dovuto cogliere; il ciclo non arrivò, quindi feci il test una mattina di fine marzo, con James presente, mi attese in camera.

Mentre io andai al bagno; pregando che non fosse positivo; inutilmente perché comparvero in poco tempo due lineette.

Era successo, il danno era compiuto.

Ricordai quella sera di due mesi e mezzo prima: il preservativo si ruppe e quando gli chiesi se si fosse strappato, lui negò.

«Sei sicuro? Altrimenti andiamo subito all'ospedale per la pillola del giorno dopo. Quindi te lo ripeto ancora una volta, sei sicuro?»

«Stai calma, Liby, è tutto sotto controllo»

Ovviamente non lo era. Nulla era a posto.

Quando lo scoprii, per la paura di cosa sarebbe potuto succedere ero scoppiata a piangere ancor prima di confessare il tutto.

Avevo davvero un presentimento che mi faceva tremare. Non avrei voluto dirglielo, e con il senno di poi sarebbe stato meglio non lo avessi fatto.

Perché dunque rivelargli la verità?

Avrei potuto mentire e tenere il bambino.

Avevo ventotto anni e lui venticinque. Era troppo giovane, diceva, per avere un figlio.

Io lo desideravo ma sarebbe stato difficile crescerlo da sola, studiavo ancora e lavoravo proprio per pagare le rette universitarie e l'affitto. 

Non avevo avuto abbastanza coraggio per tuffarmi in un futuro incerto da sola con un neonato a carico; non ero un'irresponsabile; ecco perché gli raccontai la verità.

Lui mi aveva fatto capire che se non avessi interrotto la gravidanza, mi avrebbe lasciata.

Presi appuntamento da una ginecologa italiana, che mi fece un'ecografia, per essere sicura che tutto fosse reale: vidi per la prima volta quel fagiolino minuscolo e ascoltai il suo polso, quel bum, bum, bum che mi fece scivolare una lacrima lungo la guancia, un suono così pieno di vita, di speranza, così umano, ma allo stesso tempo così triste e struggente, sapendo che avrei dovuto spengerlo.

La dottoressa cercò in tutti i modi di farmi cambiare idea, ma io non potevo.

Jamie mi avrebbe lasciata, e io sola con un neonato con mia madre lontana migliaia di kilometri, come ci sarei riuscita?

Diamine facevo ancora la commessa e non avevo ancora terminato la magistrale in pedagogia!

Avevo ancora troppo del quale occuparmi prima di diventare madre.

Dopo la visita, passeggiando insieme verso casa, James mi fece un discorso che non mi piacque affatto:

«Liby, cosa pensi di fare?» si grattò la fronte nervoso.

«Non lo so! Sono confusa!» gli urlai contro, quasi singhiozzando.

«Devo dirti cosa ne penso, non riesco a ignorarlo» asserì, prendendomi per mano in mezzo al marciapiede e costringendomi a voltarmi per guardarlo negli occhi.

«Ok, dimmi, ti ascolto» affermai seria in volto.

«Pensi di poter essere madre? Non sei ancora in grado, non puoi.»

Lo fulminai con gli occhi, il cuore divenne un macigno; gli rivolsi un cipiglio e un'espressione disgustata. Il mio respiro s'intrappolò nel petto.

«Come pensi di mantenere e accudire un figlio lavorando e studiando?»

«E tu? Dove sarai tu?» la mia voce s'incrinò, mentre lui mi guardava, serio senza battere ciglio.

«Io non ci sarò. Se tieni il bambino, io non lo riconoscerò. Sarai sola e potrai contare solo su te stessa, io non ti aiuterò» le sue parole così crude mi spaccarono in due e mi fecero attorcigliare le budella.

Distolsi immediatamente i miei occhi dai suoi che mi mettevano paura, non lo riconobbi più, quello non era James, aveva solo il suo aspetto che avvolgeva quella crudeltà fatta di carne e ossa.

Stronzo.

Non reagii, non lo affrontai, non espressi disappunto.

Annuii con la testa, guardando per terra il pavimento del marciapiede in porfido.

Mi sentivo male: ero sola, cosa potevo fare? Ero soprattutto sotto shock.

Lui non era l'uomo che avevo sempre creduto che fosse.

In quel momento era un mostro. Mi ritrovai a un bivio terribile: il bambino o lui e in quel momento così triste scelsi la persona che conoscevo meglio, James, o almeno così credevo.

Non ero ancora pronta per un così grande imprevisto da affrontare senza nessuno accanto, d'altronde non avevo neanche poi così tanti amici.

Respinsi l'idea di tenere il bambino e mi feci dare dalla ginecologa il contatto e l'indirizzo di alcune cliniche che si occupavano di aborto.

Il dottore di una di queste mi sconsigliò di prendere la pillola abortiva e soltanto in seguito capii il perché.

Il fatidico giorno non andai all'università e mi avviai con colui che pensavo fosse il ragazzo che amavo al luogo dell'appuntamento prefissato: ero agitatissima, ansiosa.

Appena entrata nella sala d'attesa, ci sedemmo su un divano, ero circondata da donne in una situazione simile alla mia; chissà perché anche loro avessero preso questa decisione.

Venne chiamato il mio nome e subito dopo essere entrata nello studio, il dottore mi fece all'istante una domanda:

«Ne sei proprio sicura? Non si può più tornare indietro» guardai James che mi sorrise debolmente e prese la parola:

«Sì, siamo sicuri» poi il signore di mezza età guardò me, aspettandosi una mia risposta «Sì» dissi in maniera risoluta.

La prima pastiglia, che interruppe il nutrimento al feto, la presi in clinica sotto l'osservazione dei medici.

La seconda, che avrebbe fermato la sua vita, invece a casa con James.

I sanguinamenti erano inimmaginabili e incessanti, tanto da temere di morire dissanguata, e i dolori erano atroci, indescrivibili, seppure avessi preso degli antidolorifici, per un momento avevo desiderato di morire per non subire più quella tortura.

Born to die - Lana del Rey

Feet don't fail me now

Take me to the finish line

Oh, my heart, it breaks

[...] 'Cause you and I we were born to die

Nati per morire - Lana del Rey

Piedi non mi deludete ora

Portatemi al traguardo

Oh, il mio cuore si spezza

[...] Perché io e te siamo nati per morire

Fu come un parto senza epipdurale, credo, gli stessi dolori, ma con un'unica differenza: alla fine non avrei tenuto tra le braccia un neonato, ma solo asciugamani rossi di sangue. James, invece, che avrebbe dovuto sorreggermi, incoraggiarmi e sostenermi, era terrorizzato.

Mi vedeva soffrire e non sapeva come aiutarmi. Si mise la testa fra le mani e pianse. Vederlo in questo stato mi procurò un minimo di consolazione: non ero l'unica a soffrire.

Ero al secondo mese e mezzo di gravidanza, al lavoro non avevo detto nulla, ne era a conoscenza solamente la mia migliore amica e collega Eileen. Ricordo ancora la foto che mi scattò per scherzo mentre tenevo le mani poggiate sull'addome, leggermente gonfio. Mi erano leggermente cresciuti la pancia e il seno, benché potesse sembrare che fossi ingrassata, la gravidanza mi aveva resa più bella. Indossavo una luce diversa, un'aura che mi donava, portavo la bellezza di una dolce attesa, che non sarebbe stata portata a termine.

Dopo l'interruzione, io ero psicologicamente e fisicamente distrutta,

Pensavo di non piacergli più fisicamente. Cercai psicologi di coppia a Lipsia su internet e ne trovai più di uno che mi davano fiducia, ma lui aveva detto esplicitamente che non sarebbe venuto. Non lo interessava, non era una situazione che lo coinvolgeva, aveva fatto capire. Ma il problema era molto più profondo, come le radici di un iceberg:

Non mi amava più.

A inizio maggio partimmo per l'Italia, in visita da mia madre per festeggiare il suo compleanno in ritardo, e in quell'occasione le raccontammo dell'aborto; lei rimase senza parole, era sbigottita, non poteva crederci, quando le raccontai di quanto avessi sofferto, lei replicò: «Se me lo avessi detto, ti avrei aiutata io, vi avrei dato una mano»

Capii in quel momento la sua delusione nel non essere stata informata per tempo. Ma io mi ero vergognata troppo.

Dopo l'aborto, avvenuto due settimane dopo aver scoperto di essere incinta, James non aveva mostrato più desiderio nei miei confronti, non mi toccava più, non mi desiderava più, non facevamo più l'amore.

E io pensavo fosse mia la colpa, del mio corpo imperfetto.

Mi faceva molta rabbia, perché dopo un tale lutto mi sembrava ovvio che un uomo facesse di tutto per far sentire la propria ragazza di nuovo sensuale.

Il non sentirmi desiderata fece diminuire la mia autostima e andai in depressione. Non mi sentivo più una donna attraente, il mio corpo aveva sofferto troppo e con la mente mi sentivo vuota, una donna senza forza ed ero consapevole, in cuor mio, che James mi avrebbe lasciata comunque poco dopo.

E così avvenne infatti.

Provai a fargli cambiare idea in tutti i modi possibili, ma lui non demorse.

James non voleva più combattere per noi, d'altronde non mi amava!

Avevo rinunciato a molto per lui, per questo amore mi ero addirittura trasferita a Lipsia, ma niente servì a qualcosa, lo persi e dovetti accettarlo. Un'ammissione che durò anni.

Subito dopo la separazione cominciai a smettere di mangiare come riflesso di quello che era accaduto, mi vedevo continuamente grassa, ma era il gonfiore della gestazione. Mi osservavo allo specchio e seppure i vestiti mi stessero larghi e ci cadessi dentro, per me ero sovrappeso.

Salivo sulla bilancia tutti i giorni come una routine, prima di fare colazione e dopo aver fatto pipì. E la lancetta era ferma a 45 kili, pensando che ero alta 1.70, non era poi tanto, ero sottopeso, ma non volevo ammetterlo, mi rifiutavo, credevo solo a quello che vedevo, quei fianchi troppo femminili mi mettevano ribrezzo. Mi misuravo la larghezza del braccio tra le dita, lo avevo visto fare già da qualche parte, in un film forse, il giorno in cui fosse rientrato nell'unione tra pollice e dito medio, sarei stata soddisfatta. Ero a un passo dall'anoressia.

Avevo abortito nella speranza di poter rimanere con il mio ex e di continuare una relazione che si stava purtroppo dissolvendo.

A tal punto decisi che dimagrire fosse la soluzione al problema, perché secondo la mia psiche deformata dalla situazione, non mangiare mi avrebbe resa più bella, ero sicura che delle gambe magre ed esili mi avrebbero permesso di tenere stretta a me quel ragazzo troppo preso da se stesso per rendersi conto cosa mi stesse accadendo: mi stavo trasformando.

«Non ti buttare giù, perdere l'autostima è come annullarsi un pochino, sei una donna dalle tante risorse e hai coraggio da vendere. Troverai un altro uomo in men che non si dica» mi aveva detto una volta Eileen di fronte a una tazza di caffè e stringendomi una mano per donarmi forza.

Le volevo tanto bene e lei ne voleva altrettanto a me. Era l'unica amica della quale mi fidassi ciecamente.

Ma io non trovai nessuno, non conobbi alcun ragazzo interessante nei mesi successivi e forse anche dovuto al fatto che passavo la maggior parte del tempo a ballare swing nei numerosi eventi serali.

Mi impegnavo molto in questo hobby, troppo; i muscoli crescevano, mentre il peso diminuiva. Non mangiavo e le uniche calorie che assumevo erano attraverso l'alcol che bevevo. Mia madre era completamente all'oscuro di tutto, non mi vedeva da qualche mese, ma ci sentivamo spesso e a lei raccontavo le solite balle, che era tutto ok. Ero una bugiarda malata e con intenzioni autodistruttive.

A metà giugno ebbe luogo il gay Pride dove andai con Eileen. Tra gente ubriaca, musica, risate e bolle di sapone in aria che danzavano in cielo, lì, dietro un carro che si spostava a passo d'uomo, trovai James che ballava e si divertiva con quelli che un tempo erano anche i miei amici. Quando il mezzo si fermò perché arrivato al capolinea, due di loro ci chiesero gentilmente di sederci al loro cerchio per terra dal momento che il mio ex non era lì. Li raggiungemmo e ci mettemmo comode con le nostre bottiglie di birra, la conversazione trattava dell'andare al fiume a fare il bagno e fummo invitate ad accompagnarli e unirci a loro.

Mentre io e Eileen ci rollavamo due sigarette e ci guardavamo negli occhi, ci capimmo subito al volo: volevamo entrambe andare. Con molto piacere accettammo! Mai avrei pensato a come si sarebbe evoluta la situazione: ci avviammo tutti insieme alla metro, James era scomparso ed era meglio così, non lo volevo tra i piedi; desideravo solamente godermi l'inizio dell'estate con alcuni conoscenti, non li considero più amici da molto tempo, da quel giorno precisamente. Arrivati alla stazione della metro, il migliore amico del mio ex, Jim, si girò improvvisamente verso di me domandandomi:

«Che ci fai tu qui? Cosa vuoi?»

«Ci avete invitate voi!» replicai, sbuffando, ferita nell'orgoglio.

«Non credo proprio...» mi si gelò il sangue quando lui mi freddò con uno sguardo.

«Invece si!» dissi sconvolta, osservando Eileen che era presente e testimone e mi dava ragione, annuendo con la testa.

«Lo abbiamo fatto solo perché ci fai pena! Ti salutiamo anche solo per farti un piacere, per pietà» non ci potevo credere e quindi era così che stavano le cose?

Cosa gli avevo fatto di male per meritare tutto questo astio?

«E per colpa vostra James non vuole venire...» aggiunse sbuffando innervosito.

Cominciai a toccarmi nervosamente una ciocca di capelli. Ero spaventata perché non ero mai stata trattata così.

«Ok.» Dissi senza pronunciarmi oltre, profondamente ferita e delusa.

Nessuno dei presenti, pur sapendo quello che avevo passato, l'aborto, e stavo passando, la separazione dal mio ex, s'intromise in quella scena ridicola e patetica.

Nessuno disse nulla o prese le mie difese, anzi, sembravano tutti d'accordo con lui. E questi erano i miei amici? Stavo per infuriarmi e fare una scenata di cattivo gusto ma mi morsi la lingua e rimasi in silenzio, in disparte con la mia amica, anche lei sbalordita e ammutolita.
Scesero con le scale mobili senza guardarmi e girati di spalle, diretti verso la metro e vidi sparire le loro teste gradualmente, sapendo che i nostri rapporti da quel giorno si sarebbero interrotti. Chi meriterebbe tanto egoismo e cattiveria? Scoppiai in lacrime, Eileen mi prese tra le sue braccia e mi disse di tornare a ballare, ma non ne avevo voglia, sembrava che tutta la felicità fosse sparita dalla mia vita. In piena foga e non riuscendo più a controllarmi scrissi a tutti un messaggio, spiegando loro la mia situazione psicologica e cosa stessi passando e chiedendo loro ragione di questo atteggiamento per me insensato. Risposero quasi tutti, scusandosi, solo il migliore amico di James non lo fece mai, prevedibile. Si dice che non vada mai affermato di odiare qualcuno, non si fa. Ma, credetemi, quando vi dico che invece io lo odiavo quel suo amico: non ero mai stata trattata in quel modo, mai.

Lo rincontrai una sera di fine giugno, inizio luglio  nella piazzetta di Plagwitz, ero nuovamente con la mia migliore amica, stavamo sorseggiando due lattine di birra su una panchina di legno al lato di un'aiuola. Arrivò Jim che, vedendoci non mi guardò neanche in viso, ma, anzi , disse solo, fissando Eileen con un ghigno malizioso:

«Vi raggiungo subito!»

A che gioco sta giocando? Mi domandai con un gusto amaro e acido salirmi lungo la gola, come a infuocarla. Era il gusto della rabbia oppressa.

«Non ti azzardare a sederti con noi! Non sei il benvenuto!» esclamai seria e decisa.

«Ah, questo è il modo di trattare chi ti saluta con gentilezza?» replicò con finta educazione e falsità.

«Tu ne hai avuta due settimane fa?» domandai irritata

Mi fulminò con gli occhi e riprendendo la birra che aveva appoggiato accanto a noi, disse solo: "Ci si vede! Magari con un umore migliore!" e se ne andò con il sorriso stampato sulle labbra, come se non fosse accaduto nulla.

A metà luglio, precisamente il diciotto, accadde ciò che cambiò drasticamente la mia vita: l'incidente.

SPAZIO AUTRICE

Vi sta già antipatico James? Vi siete ricredut*?

È un personaggio con due facciate che ho cercato di mostrarvi , analizzando prima quella utopica, poi quella crudele e disumana.

Cosa ne pensate?

Secondo voi Liberta ha colpa? E se sì in cosa?

E secondo voi l'amico di James aveva diritto di comportarsi così con Liberta?

Fatemelo sapere nei commenti :)

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