Capitolo 2 - Ricominciare da capo

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Jeremy

«Vai! Vai, piccola, così. Sì, sì, cazzo, sì. Oh! Cristo.»

Vengo, liberandomi nel preservativo, mentre lei continua a muoversi finché, a sua volta, non raggiunge l'acme del piacere.

Urla il mio nome, ricordandomi quanto sono capace e, quando si calma, la sposto, facendola scendere dalle mie gambe.

Torna sul sedile passeggero e si sistema la gonna, guardandomi poi con aria soddisfatta e muovendo la lingua sguaiatamente, facendo vorticare il chewing gum che ha in bocca.

Ci siamo appartati dietro l'università, in un posto isolato. Avevamo decisamente bisogno di una sveltina che liberasse le nostre menti e ci mandasse in estasi.

«È sempre una bomba farlo con te, Jeremy» sibila Odessa, ancora leggermente affaticata dall'orgasmo.

«Lo so» confermo, facendole l'occhiolino.

Mi sistemo, sfilando via il profilattico.

Lo avvolgo in una salvietta e apro la portiera dell'auto per gettarlo a terra.

Quando ho fatto, la richiudo e cerco il cellulare nella tasca dei jeans per controllare l'ora.

Non lo trovo, così guardo sotto al cruscotto, sui sedili di dietro, ma niente!

«Cazzo!» impreco.

«Che c'è?» domanda Odessa, dopo essersi scattata uno stupido selfie.

«Ho dimenticato il cellulare a casa, devo andare a prenderlo.

Scendi, ti lascio qui» dico con scortesia, aprendole la portiera.

«Che galante!» ironizza lei, leggermente infastidita, recuperando la sua borsa.

«Ci becchiamo dopo, piccola» sibilo, fingendo dolcezza.

Tiro il suo corpo a me e la bacio con passione.

Quando Odessa si distacca, sorride. Scende dall'auto, richiudendo la portiera con un calcio, mostrandomi tutta la sua agilità da cheerleader, e poi si dirige verso la UCLA,
canticchiando una canzone e sculettando.

Metto in moto e sfreccio via. Devo assolutamente recuperare quel dannato telefono!

Non ricordo nemmeno dove l'ho lasciato, magari sarà sul terrazzo. Non voglio che si frughi tra le mie cose e, conoscendo mia sorella, sarebbe capace di scoprire il mio pin e farsi gli affari miei.

So che stamattina doveva venire alla UCLA per l'iscrizione, ma non so se ha già finito ed è tornata a casa.

Tengo troppo alla mia privacy e anche se nel mio cellulare non c'è nulla di sconvolgente, non voglio che qualcuno si intrometta nella mia vita!

Arrivo in villa con la smania di trovare quel dannato telefono, ma quando apro la porta di casa sento qualcuno che discute.

«Com'è possibile che tu non mi abbia detto una cosa così importante?» grida una voce femminile.

«Tesoro, mi dispiace, ok? Te l'avrei detto, ma non volevi parlarmi. Ho evitato di rivelarlo anche a tuo padre perché volevo essere io a dirtelo.»

È Mona, la compagna di mio padre. Ma con chi sta parlando?

«Oh, grazie, mamma, sei un vero angelo. E io che pensavo di venire qui, vivere con te e recuperare il nostro rapporto!»

Ci sono! È sua figlia, quella che vive col padre in una piccola località della California. Beh, in realtà, a questo punto dovrei dire "viveva", visto ciò che ha detto la ragazza.

Decido di palesarmi, perché sono proprio curioso di conoscerla e interrompere il loro battibecco.

«E invece mi ritrovo a dover vivere sotto lo stesso tetto con...»

«Buongiorno!» esclamo, facendo capolino sulla porta della cucina.

Mona trasalisce e la ragazza accanto a lei, ancora col volto imbronciato, mi guarda.

«Oh, buongiorno, Jeremy» saluta Mona, fingendo sia tutto a posto.

Avanzo, senza staccare gli occhi di dosso alla fanciulla.

«Vieni, ti presento mia figlia.

Edith, questo è Jeremy, il figlio di Lewis. Jeremy, lei è mia figlia Edith.»

Arrivo di fronte a lei, ma non allungo la mia mano per dirle "Piacere".

Nemmeno lei lo fa. Resta ancora sulle sue, con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo imbronciato.

«Però!» esclamo, già sapendo che la farò innervosire. «Molto più carina di quanto mi aspettassi» aggiungo e lei mi fulmina con lo sguardo.

«Jeremy!» mi rimprovera Mona.

«Dai, sto scherzando. Piuttosto... è tutto ok, tra voi?» domando, fingendo. So benissimo che stavano litigando.

Mona cambia volto e mi concede un sorriso forzato.

«Oh, sì, certo» mente. «Tu perché sei qui? Non dovresti essere all'università?» domanda, osservandomi guardinga.

«Ho dimenticato il telefono. Credo di sopra, sul terrazzino.»

«Sicuro che non sia nella casa sulla piscina?» domanda.

Vivo lì, o meglio, ci dormo.

Quando sono qui sto spesso in casa a guardare la TV, giocare alla play o a mangiare schifezze. La casetta sulla piscina è il mio spazio franco, il luogo dove nessuno, a parte la governante, deve mettere piede.

La uso per dormire o quando devo studiare. E poi è un ottimo luogo per portare le ragazze quando ho voglia di scopare.

«Stanotte ho dormito da Andy, quindi non ci sono proprio passato in casetta. Stamattina presto sono salito sul terrazzo perché la TV aveva un problema e volevo controllare l'antenna. Magari l'ho dimenticato lì.
Comunque vado a controllare.»

Squadro di nuovo sua figlia e poi le sorrido.

«È stato un piacere, Edith» dico e mi dileguo.

Esco dalla cucina e raggiungo le scale, sentendo poi Edith bisbigliare.

«Hanno davvero una casa sulla piscina?» domanda alla madre.

Sorrido e salgo le scale per andare di sopra e raggiungere il terrazzo.

Quando arrivo su, per fortuna, trovo il mio cellulare sul tavolino e lo prendo, ficcandomelo in tasca.

Scendo di nuovo di sotto e, affacciandomi alla cucina, la trovo sola, appoggiata al mobile – isola, quello che Mona ama tanto e che usa per cucinare.

«Tua madre? Già fuggita via, eh?» insinuo.

Entro in cucina e avanzo verso di lei, sorridendo con la mia aria sfrontata da stronzetto "so tutto io".

«Però! Sei appena arrivata e già ti lascia sola» continuo, sicuro di farla arrabbiare.

«Ha avuto una telefonata di lavoro» risponde lei brusca.

«Sì, certo. Tu perché sei qui? Insomma... immagino volessi venire a L.A. per ricominciare da capo, per iniziare una nuova vita al fianco di tua madre. E invece ti sei ritrovata in una casa affollata con gente che non conosci.»

Il suo volto cambia. Diventa arrabbiato e incredulo.

«Hai origliato la nostra conversazione?»

«Urlavate. E poi adoro i drammi familiari stile soap opera.»

La prendo in giro, addentando un chicco d'uva che è sul mobile, in un bel cesto rosso.

Edith sbuffa, mette le mani sulla vita e poi fa:

«Senti, tizio, che problemi hai?»

«Tizio?» ripeto, sbalordito per il suo caratterino e la sua insolenza.

«Sì, coso, come cavolo ti chiami.»

«Coso?» ripeto, sempre più incredulo.

«Ascolta. Ho già i miei, di problemi, ok? Quindi perché non te ne vai e mi lasci in pace?»

Scoppio a ridere, piegandomi letteralmente in due.

«Questa è bella! Io me ne dovrei andare? Si dà il caso che questa sia casa mia, ragazzina. Perciò se tra i due c'è uno che deve andare via...»

«Oh, se potessi lo farei volentieri» ribatte, interrompendomi.

«Cosa ti trattiene? Non mi sembra rose e fiori il rapporto che hai con tua madre. Anzi, se proprio lo vuoi sapere, non parla quasi mai di te» mento, per ferirla.

Edith sgrana gli occhi e mi fulmina di nuovo, stavolta più intensamente.

Si para davanti a me, con aria di sfida. Sembra che possa uscire da un momento all'altro del fumo dalle orecchie.

«Senti un poco, pel di carota.»

«Come mi hai chiamato?» grido, arrabbiato.

«Hai sentito bene, pel...» prova a ripetere ma io la afferro per un braccio e la sbatto al frigo.

«Ahi» si lamenta lei.

«Rimangiatelo subito, Monterey» ringhio, ricordandomi in un lampo il nome ridicolo della cittadina in cui viveva e che Mona decanta spesso quando parla di sé e del suo passato.

«Monterey?» ripete.

«Vieni da lì o no?»

«Sì, e allora?»

«È un posto di merda.»

Prova ad alzare un braccio per darmi uno schiaffo ma io la blocco.

Alza l'altro braccio, ma io la fermo ancora, afferrandole il polso.

Ridacchio e la squadro. A pensarci bene è davvero carina e averla così vicina mi fa uno strano effetto.

Quest'aria sfrontata, i capelli scuri che le ricadono sulle spalle in morbide onde, gli occhi nocciola e quella labbra carnose al punto giusto.

«E adesso?» le chiedo, divertito.

«Lasciami andare, troglodita!»

«Il mio nome è Jeremy, Monterey, e farai bene a ricordartelo la prossima volta.

In questa casa ci sono delle regole da rispettare e se non le seguirai giuro che ti renderò la vita impossibile» minaccio.

«Oh, sto tremando dalla paura» replica lei, impavida.

«Prima regola: non fare incazzare Jeremy. E tu sei a tanto così, Monterey.»

«Se vuoi che ti chiami col tuo nome, smettila di chiamarmi Monterey. So che lo dici in senso dispregiativo, quindi smettila!

Ho un nome anch'io ed è Edith.»

Rido ancora, continuando a tenerla bloccata.

«Forse non è chiaro: qui comando io. E se mi va di chiamarti Monterey, ti chiamo Monterey. Chiaro?»

«Che state facendo?»

La voce di Mona ci sorprende e io la lascio subito andare.

«Ehm... niente, solo quattro chiacchiere» dico, leggermente imbarazzato.

Poi mi volto verso Edith, minacciandolo attraverso lo sguardo.

«Sì, infatti» conferma lei, abbassando il suo.

«Io andrei, tanto ho recuperato il cellulare.

Passo per la casetta per una doccia veloce, oggi fa un caldo bestiale» dico, oltrepassando Mona.

Fisso un'ultima volta i miei occhi su Edith e poi riguardo Mona.

«Buona giornata, allora!»

«Buona giornata, Jeremy» risponde Mona, fissando poi sua figlia.

Me ne vado soddisfatto e comincio a fischiettare.

Dio, sento che mi divertirò un sacco a far incazzare questa ragazza!

Povera Monterey. Credeva di venire qui, recuperare con Mona, ricominciare da capo.

Non aveva fatto i conti col sottoscritto, però!

È in casa mia e se non fa come le dico, giuro che la farò pentire di aver messo piede a Los Angeles.


SPAZIO AUTORE:
Ho cambiato il nome della città da Fresno a Monterey perché mi sono accorta solo dopo che per la mia idea la prima era troppo grande, mentre la seconda è una piccola cittadina californiana.
Ho aggiustato, ovviamente, il nome anche sul primo capitolo.
Nel mio piccolo voglio cercare di rendere tutto più veritiero possibile 😍❤️

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