Capitolo 6 - Conoscersi un po'

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Duncan

In auto, mentre rientro da lavoro, ripenso a lei, mio malgrado, e alla dannata situazione in cui mio padre mi ha cacciato.

Mi sembra tutto così strano. Insomma... voglio dire... lei non è niente, per me. Non è né la mia fidanzata, né una parente, un'amica, niente. Ci conosciamo a malapena eppure saremo costretti a convivere sotto lo stesso tempo per non so quanto.

Ieri, dopo che siamo tornati a casa insieme, ho lasciato che si sistemasse e poi l'ho avvisata che sarei uscito. Avevo bisogno di sfogarmi col mio amico Diego, raccontargli ogni cosa parlandoci a quattr'occhi e condividendo con lui tutto il mio nervosismo per questa situazione in cui mi sono ritrovato incastrato.

Spero che la carina non dia problemi, perché non ho proprio voglia di ritirarmi dal lavoro, stanco e spossato, e dovermi sorbire le sue frecciatine o battute sagaci che sono solo capaci di farmi incazzare.

Sembrava aver messo un punto, ieri. Aveva detto di voler ricominciare da capo, eppure non ha perso occasione per tornare sulla storia della discoteca, Dio Santo!

Per fortuna, quando sono tornato dall'uscita col mio migliore amico, ieri sera, non ci siamo incontrati. Lei era chiusa in camera, erano circa le undici e io sono andato a dormire senza bussare alla sua porta.

Per dirle cosa, poi? Chiederle se andava tutto bene? Se si trovava bene? Se aveva provveduto alla cena o aveva bisogno di qualcosa?

Ok, ammetto che tutte queste domande mi sono passate nel cervello per qualche istante, però le ho ignorate e sono filato dritto in camera.

Così, nemmeno stamattina ci siamo incrociati. Io sono sceso molto presto per una corsetta mattutina e quando sono rientrato ho trovato un post-it sul frigo in cui Belle mi informava di essere uscita e che ci saremmo rivisti di sera, per cena.

Spero di ridurre gli incontri al minimo, anche perché con lei ho l'impressione che qualsiasi cosa possa trasformarsi in una piccola miccia che accenderebbe in men che non si dica una pericolosa scintilla. Insomma, mi sembra una di quelle tipe per cui ogni occasione è buona per litigare.

Non voglio dare giudizi affrettati, per carità, però la prima impressione che mi ha dato è quella. È come se attaccasse, ancor prima che accada qualcosa, per la paura di essere attaccata. Mi sembra una ragazza che ha innalzato un grosso muro verso tutto il genere maschile e che questo sia impossibile da valicare.

Insomma, una di quelle moderne femministe che odiano tutti i maschi, a prescindere, senza dare opportunità agli uomini di farsi conoscere.

Magari sbaglio... ma magari no!

Parcheggio l'auto nel parcheggio sotterraneo dell'edificio in cui vivo e scendo, richiudendola con il pulsante sulle chiavi.

Entro nell'ascensore fischiettando e quando arrivo al mio piano esco da lì sbuffando, pregando Dio di trovare Miss Ce l'ho solo io di buon umore.

Apro casa con le chiavi e un odore buonissimo di cucinato mi colpisce.

Osservo la scena che mi si para davanti e richiudo la porta, continuando a fissare lei. Così bella persino in tenuta casalinga e sporca di cibo.

Non mi ha sentito entrare, ha le cuffiette nelle orecchie ed è di tre quarti, rispetto alla mia visuale.

Ha i capelli legati in uno chignon, un grembiule a fiori sporco di qualsiasi cosa, e il viso puntellato di farina.

Si lecca le labbra e poi assaggia qualcosa che gira sul fuoco, annuendo soddisfatta per il suo lavoro.

Si volta ancora, non si è proprio accorta della mia presenza. Stavolta mi dà le spalle e ne approfitto per ammirare il suo fondoschiena sodo e tonico, da una forma letteralmente invitante.

Con una mano in tasca e l'aria di chi vorrebbe solo assaggiare ciò che ha davanti (e non parlo del cibo!), la guardo, mordendomi le labbra e sospirando.

Dura un secondo, però. Mi maledico mentalmente e provo a rischiararmi la voce, cercando di tornare in me.

«Belle, sono tornato!» La chiamo, ma non mi sente.

«Belle!» insisto, avanzando verso di lei, ancora di spalle, ma niente, non si gira.

Così le arrivo esattamente dietro e, delicatamente, le poso una mano su un braccio.

Succede in un istante. Grida, si volta e, con quanta rabbia ha in corpo, mi tira un pugno in faccia che mi fa sentire le stelle.

«Cazzo!» impreco, piegandomi e tenendomi il naso.

«Oh mio Dio, Duncan, scusami. Credevo fossi un malintenzionato» si giustifica, con una mano davanti alla bocca e l'aria mortificata.

«Cristo Santo, Belle, sono io. Avevi le cuffie nelle orecchie e non mi hai sentito entrare» mi lamento, controllando con la mano che non mi esca sangue. «Ho provato a chiamarti ma non mi hai sentito. Dio, ma che hai nel cervello?» mi lamento, asciugandomi un piccolissimo rivolo di sangue.

«Oh Dio, scusa, davvero, sono mortificata. Aspetta, ti aiuto io.»

Si allontana e prende qualcosa dal freezer.

Poi afferra uno scottex e lo avvolge attorno al panetto del ghiaccio, tornando da me in un baleno.

Fa per allungarmelo sul naso ma la blocco, scontroso.

«Lascia, sto bene, non c'è bisogno.»

«Dai, vieni qui, non fare il bambino.»

Sbuffo, mentre la sua mano ha già raggiunto il mio naso. Preme forte su di esso il panetto del ghiaccio, mentre con l'altra mano si aggrappa alla mia spalla e quel contatto non voluto mi fa fremere in un modo strano. In un modo che mi piace e infastidisce insieme. E mi infastidisce perché non vorrei mi piacesse.

I nostri occhi si scontrano, si bloccano uno sulla visuale dell'altro. Le guardo le labbra, mi viene voglia di buttare all'aria ciò che ha in mano e trascinarmela addosso per baciarla.

No, cazzo, che dico? Non posso volere questo!

«Ecco, sei a posto» dice all'improvviso, allontanando il panetto del ghiaccio. Si allontana per gettare la carta e sciacquare il panetto, per poi riporlo in freezer.

«Scusami ancora» dice poi, voltandosi nuovamente nella mia direzione.

«Non fa niente.» Sospiro forte, certo che l'attrazione per questa donna mi fotterà il cervello. «Ti sei messa ai fornelli?» chiedo, e stavolta sono io ad andare verso di lei.

Si volta a guardare il frutto del suo lavoro e sorride, facendomi avvertire qualcosa all'altezza della bocca dello stomaco (e, giuro, non è fame!).

«Sì» conferma, anche se la mia era una domanda retorica.

Guardo tutta la roba sparsa sulla penisola, ce ne è per tutti i gusti. Ci sono tartine, pizzette, qualche piccolo fagottino in cui non so cosa ci sia dentro, dei mini contenitori con dentro delle salsette, e la pasta è sul fuoco, mentre un sugo che dall'odore sembra molto piccante è ancora in pentola, a fiamma bassa.

Si avvicina ad esso lo spegne, dando un ultimo assaggio.

«Spero ti piaccia la roba spicy» dice sorridendo.

«Sono una buona forchetta, quindi mi piace tutto.»

«Bene.»

Continuo a muovermi tra tutte le cose che ha cucinato e le parlo, fingendo indifferenza.

«Ti sei data da fare. Cosa si festeggia?» domando, con una punta di ironia.

«Niente, volevo solo... è il mio modo di farmi perdonare. Per tutto, per il nostro inizio non esattamente piacevole in discoteca, per quanto è successo a casa di tuo padre, per essermi praticamente autoinvitata qui e, in ultimo... per ieri. Non volevo riaccendere una discussione tra noi, davvero» si scusa, lasciandomi interdetto.

«Però!» esclamo, soddisfatto. «Quindi sai fare autocritica» affermo e lei ridacchia, torturandosi le labbra con i denti.

«Beh, da ex paziente in terapia, direi proprio di sì» conferma e io mi chiedo cosa la abbia spinta a fare terapia, quali traumi abbia vissuto e quanto, ancora, non so di lei.

Vorrei dire qualcosa, saperne di più ma senza chiedere in maniera diretta o essere invadente, eppure bypasso la situazione e torno sul nocciolo del discorso.

«Scuse accettate» dico soltanto mentre lei annuisce soddisfatta.

«Bene. Immagino sarai stanco dopo una giornata intera di lavoro. Se vuoi, va' pure in camera a metterti comodo, qui ci penso io. Metto tutto a tavola e pulisco dopo cena, ok?»

«Ho la lavastoviglie» rispondo, riferito all'ultima cosa che ha detto, ma poi mi rendo conto di tutto il suo discorso. «E comunque... chi sei tu e che ne hai fatto della mia insopportabile sorellastra?»

Ride di gusto alla mia battuta, calando di poco il capo all'indietro e mostrandomi il suo bel collo, longilineo e liscio.

Scuoto di nuovo il capo, ad ammonirmi mentalmente, e mi uccido le labbra, in attesa di una sua risposta, magari furba e sagace insieme.

«Quindi siamo diventati fratellastri?» chiede, ridendo ancora.

«Beh, non lo siamo di sangue, ma se ci comportiamo entrambi bene potremmo diventare due ipotetici fratello e sorella che convivono pacificamente come persone civili.»

Lei annuisce, sorridendo ancora. Ma in un modo strano, come non troppo convinto. Anche se non so se non sembra convinta del fatto che potremmo convivere pacificamente o del fatto che io e lei potremmo mai definirci fratello e sorella.

Cazzo, no! Mai nella vita. La mia era solo una battuta. Non credo che se fosse mia sorella le guarderei costantemente il culo, né che avrei tutta questa voglia di baciarla.

«D'accordo, vado a cambiarmi. E... grazie per la cena, Belle. Non c'era bisogno, ma sappi che apprezzo» dico, virando ancora argomento per provare a togliermi dalla testa pensieri che mi danno fastidio. Sono cose a cui non voglio e non posso pensare.

«Figurati.»

La lascio lì e mi allontano, nella speranza che sciacquarmi il viso possa farmi ritornare in me e raffreddare i miei assurdi bollenti spiriti.

***

A tavola, dopo aver mangiato quasi tutto, sono abbastanza contento della piega che ha preso la serata.

Belle è stata gentile, servizievole, ma non in maniera stucchevole. Abbiamo chiacchierato un po' e adesso che siamo quasi al dolce, vorrei che la conversazione continuasse per conoscersi un po'. Per conoscerla, un po'.

«Quindi è stato tuo padre a spingerti in questo campo!» dico, riprendendo il suo ultimo discorso. «Però! È ammirevole. In generi i papà sono gelosi, sconsigliano alle figlie di frequentare certi ambienti.»

«Beh, mio padre lo ha sempre fatto per me. Sapeva quanto amassi la moda ed essere fotografata. Per lui era un mio sogno e basta, come avrebbe potuto esserlo qualsiasi altra cosa. Non mi ha mai giudicato per questo né considerata una ragazza frivola.

Certo, non ti nego che anche lui aveva paura di questo mondo, ma mi è sempre stato vicino. Mi ha accompagnata più spesso che poteva ai provini e mi ha "lasciata andare" quando era il momento di farlo» virgoletta, forse riferendosi a una sua età più matura in cui il padre ha smesso di scorrazzarla dappertutto e l'ha fatta andare da sola ai provini.

«Sembra tanto una bella persona» affermo, provando a immaginarmi quest'uomo che lascia andare una figlia ormai cresciuta in mezzo a quelli che avrebbero potuto rivelarsi degli squali.

«Lo era» conferma lei, con una punta di tristezza.

«E tra un set fotografico e l'altro... quando hai trovato tempo per diventare una MasterChef?»la prendo in giro, cambiando volutamente argomento per toglierle di dosso quella sensazione che le ho provocato chiedendo di suo padre.

Belle ride, scuote il capo, come a minimizzare.

«Non lo so, in realtà... cucinare mi piace. Mi è sempre piaciuto. Soprattutto se devo farlo per qualcuno. Insomma... è bello cucinare per qualcuno.» È solare, quando lo dice. Mostra una bellezza che sembra sia più interiore che esteriore, per quanto fuori sia stupenda. Sorride, mostrandomi una piccola fossetta, quasi impercettibile, che le si forma sulla guancia, e alla quale non avevo mai fatto caso.

«Beh, allora dovresti sul serio partecipare a MasterChef» le ridico, ridacchiando, e lei riprende a ridere.

«Se la mia carriera come modella dovesse fallire ho un piano di riserva, allora.» Lo dice divertita e quando mi fa l'occhiolino, in maniera assolutamente scherzosa e simpatica, quel gesto mi fa accapponare la pelle.

«Nah, impossibile. Una bella come te non potrebbe mai fallire in questo lavoro» mi esce. E, cazzo, come mi esce? Che merda ho nel cervello?

«Credevo che non fossi il tuo tipo» mi rinfaccia, facendomi la linguaccia.

Rido in imbarazzo, e alzo le mani come a volermi scusare.

«D'accordo, lo ammetto, l'ho detto apposta per farti incazzare!»

«Ma dai! Non lo avevo capito!» fa, con tono esagerato e fintamente sorpreso.

Scoppiamo a ridere entrambi e poi è lei a tornare seria.

«Ad ogni modo, scherzi a parte, grazie del complimento, Duncan.»

«Di nulla.»

Restiamo per pochi istanti in silenzio e poi Belle riprende parola.

«Invece tu come sei diventato CEO?» chiede, bevendo un bicchiere d'acqua.

«Ho studiato economia aziendale e management. Ho fatto due master, nel frattempo lavoravo in azienda, con posizioni più umili, certo,» dico ridacchiando e lei sorride. «Così, dopo un po' di gavetta, ho fatto il grande salto.»

Belle annuisce compiaciuta, alzandosi per prendere il dolce.

«Così sei una specie di cervello quadrato. Un uomo serio, con la testa sulle spalle, assennato, molto razionale» ipotizza, posando il dolce sulla tavola.

Sorrido e scuoto il capo, per poi fissarla con intensità.

«Ti sono sembrato così, in discoteca?»

«Ma eri ubriaco.»

«Appunto! Un uomo assennato e molto razionale non perderebbe mai i freni inibitori a causa del alcol. Piuttosto ne berrebbe un sorso o, magari, se regge poco, si rifiuterebbe di bere.»

«Quindi come sei?» domanda, passandomi una fetta di torta.

Giro il piattino e, con la forchetta, ne spezzo una parte, portandomela alla bocca.

Stavolta sono io ad annuire compiaciuto. Il dolce è squisito, anzi, tutta la cena è stata perfetta. Era tutto buonissimo, cucinato con cura e amore.

«Duro fuori e morbido dentro. Come questo dolce. Che, per la cronaca, è spettacolare!» Lo dico senza distogliere gli occhi dai suoi, fissandola con tale intensità che sembra le abbia tolto il fiato.

Belle sospira e sorride, leggermente imbarazzata.

«Grazie» bisbiglia, quasi, riferita al dolce. Poi si schiarisce la voce e va avanti. «Quindi sei come questa crostata. All'apparenza dura, ma dentro... con una dolcezza tutta da scoprire.»

Continuo a mangiare il dolce, cercando di non cogliere questi segnali, questa specie di flirt che stiamo facendo. Ci stiamo addentrando su un terreno pericoloso, e lei lo sa bene.

«Beh, la parte dolce di me non la mostro a tutti, in realtà. Anzi, direi decisamente a pochi. Le donne a cui l'ho donata... o meglio... l'unica donna a cui l'avevo donata, mi ha mollato per un altro» confesso, parlando di Bianca, la mia ex.

Non so perché metto in mezzo lei. Mi ha lasciato dopo una storia di un anno e mezzo, ma in fondo io non mi sono mai sbilanciato con lei, non ero pronto, non capivo fino in fondo i miei sentimenti. Lei voleva le dicessi "ti amo", ma io non sapevo nemmeno cosa significasse quella parola. Così mi ha mollato, e all'inizio ci sono stato male, però... non lo so, magari sono solo stato ferito nell'orgoglio. Oppure, ancora, mi ero abituato a lei e credevo fosse il mio destino. Ad oggi non saprei dire se io l'abbia mai realmente amata.

«Non mi avresti mai dato questa impressione, sai?»

«Quale? Quello di uno che ha sofferto per amore?»

«Ne eri innamorato?» chiede, posando il viso sulle mani, mettendosi ad ascoltarmi come fosse una bambina.

«In realtà non lo so. Non credo, comunque. Non gliel'avevo mai detto. Insomma, le volevo bene, la rispettavo, non l'ho mai tradita o robe del genere, ma... lei voleva che le dicessi "ti amo".»

«E questo "ti amo" non è mai venuto fuori» constata, capendo dove voglio andare a parare.

«Già. Non lo so, forse non ero pronto, o, magari, non l'amavo davvero. Non ho mai detto a nessuna quelle due parole e... onestamente, non so se lei mi abbia mai fatto provare l'amore vero.»

«Beh, allora non è stata una separazione dura, no?»

«Non è stata una tragedia, certo, ma nemmeno indolore. Credevo che fosse quella giusta, anche se non riuscivo a dirle quel maledetto "ti amo". Non so se fosse abitudine o cosa, ma... mi è mancata, all'inizio. È stato strano senza di lei» confesso candidamente, come se stessi parlando con Diego, il mio migliore amico.

E tutto questo mi fa strano, non so perché mi sto aprendo così con lei, perché mi sembra così naturale farlo.

«Capisco. E adesso, invece?»

«Cosa?» domando, fingendo di non capire. So esattamente dove vuole andare a parare.

«C'è qualcuna nella tua vita?»

Rido, senza sosta, e lei mi guarda stranita, però sorride.

«Che c'è, che ho detto?»

«Niente. È che trovo buffo il modo in cui sia cambiato il tuo atteggiamento nei miei confronti dalla sera in discoteca ad oggi.

Prima volevi uccidermi, perché pensavi fossi un maniaco sessuale» dico, cominciando a contare con le mani. «Poi pensavi che fossi una specie di Don Giovanni che si portava ogni sera una donna diversa a letto e adesso... adesso ti domandi se io sia fidanzato.»

«Dai, smettila!» si lamenta, dandomi una piccola spintarella, mentre io continuo a ridere. «Ti ho detto che ti ho giudicato male, ti ho già chiesto scusa.»

«Lo so, lo so, sto scherzando» replico, mentre lei scuote il capo, guardandomi come fossi un bambino che ha fatto una marachella. «Ad ogni modo no, sono single. E sto bene così» aggiungo, prendendo un sorso d'acqua.

«Capito. Beh, non posso darti torto. Come si dice: meglio soli che male accompagnati.»

«Anche tu sei sola?» chiedo, con finta nonchalance, e mi allungo a tagliarmi un'altra fetta di dolce.

Belle nota il mio gesto e sorride.

«Noto che il dolce l'hai gradito.»

«Shì, è ottimo!» incespico con le parole, mentre ne mastico un pezzo.

«Ad ogni modo sì. Sono sola anch'io. Dopo Jacques, un fotografo francese tanto bello quanto fedifrago, ho detto "passo".»

«Capito. Una brutta batosta, eh?»

«Diciamo che da allora odio tutto il genere maschile» dice divertita e io ridacchio.

«Comunque, ehm... mi ha fatto piacere fare quattro chiacchiere con te. Non sei così male come credevo» afferma, guardandomi intensamente e io ricambio.

«Grazie, Belle, neanche tu sei così male.»

Ci fissiamo ancora. Troppo. Troppo a lungo.

Poi è lei ad abbassare lo sguardo. Si alza in piedi e comincia a sparecchiare.

«Ti do una mano.»

«Non c'è bisogno, Duncan, grazie.»

«Ma no, ci tengo, hai cucinato tutto questo e togliere la tavola mi sembra il minimo.»

«Non sei in debito con me, semmai ero io quella ad esserlo.»

«Non sei mai stata in debito» dico serissimo e i nostri sguardi si incendiano ancora. Non voglio, cazzo, mi fa sentire male. Mi fa sentire vivo.

«Come vuoi, allora grazie.»

Annuisco e la seguo. Sparecchiamo in religioso silenzio. Le spiego come si carica la mia lavastoviglie e la facciamo partire.

Poi ci incamminiamo nel corridoio che porta alla zona notte, e io l'accompagno fino alla sua stanza.

«Grazie ancora per la cena, Belle. Era tutto buonissimo.»

«Quindi mi sono sdebitata per il mio comportamento da stronza?» chiede con un sorriso che ricambio.

«Sì, carina, ti sei sdebitata» dico apposta e lei, stavolta, invece di incazzarsi, arrossisce. Perché?

«Bene. Allora buona notte, Duncan.»

«Notte, Belle.»

Mi volto per tornare nella mia camera, mentre lei sta per chiudere la porta della sua stanza. Ma poi ci ripensa e sento la sua voce chiamarmi.

«Duncan...»

«Sì?»

Mi giro di scatto, d'istinto, perché la verità è che vorrei godere ancora della sua compagnia. Ancora per molte ore.

«Per la storia della discoteca...»

«Non c'è bisogno, Belle, dai, è acqua passata.»

«Volevo scusarmi per esserci ritornata su, ieri pomeriggio, quando siamo arrivati qui. È che... ho reagito male perché... diciamo che non mi piace che gli estranei mi tocchino. Io...»

Vedo i suoi occhi diversi. Come persi, persi in qualcosa. Forse in un ricordo.

Sono soli. Spenti.

«Magari un giorno te lo dirò, ti spiegherò il perché di quella reazione esagerata, ma... fino ad allora... ti chiedo solo scusa, ok?»

«Non mi devi spiegare niente e non devi chiedermi scusa. Ma se, ovviamente, un giorno vorrai aprirti con me, sappi che sono qui, ok?»

«Grazie, Duncan.»

Richiude la porta, lasciandomi solo. Vuoto.

Il cuore cede e l'anima vibra.

Mentre dentro sento qualcosa che non ho mai sentito prima.

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