III. Wände

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N E B E L

III.

Wände



Sonne li liberò della sua presenza in una fredda mattinata di fine settembre.

Li aveva avvisati della partenza imminente soltanto la sera prima. «Domani vado a Dresda. Torno tra tre giorni.» Chiaro e conciso come sempre. Aveva fatto loro alcune rapide raccomandazioni sul gas e sulla posta, e poi nient'altro.

Richard, sveglio nel suo letto sfatto, lo sentì richiudersi la porta di casa alle spalle con un tonfo che spezzò il silenzio, verso le sei del mattino. Si rigirò tra le coperte per l'ennesima volta, immaginandolo scendere le scale e inoltrarsi nelle strade deserte di Brema con il bavero del cappotto alzato per ripararsi dal vento. Conoscendolo, avrebbe camminato a piedi fino in stazione, con quel suo passo calmo ma incessante, sferzando l'aria con la sua mole, tra gli sguardi di qualche passante sospettoso. Come la cattedrale, avrebbe resistito al vento e agli sguardi.

Era la prima volta che abbandonava quell'appartamento per più di qualche ora con loro due all'interno.

Richard si crogiolò nel pensiero di poter fumare in casa senza dover trovare escamotage fantasiosi. Quei tre giorni sarebbero stati giorni di tregua. Cercò di addormentarsi con quell'idea a cullarlo, ma fu, ancora una volta, inutile. Detestava essere costretto a dormire ogni santo giorno. Il sonno non gli era amico: sarebbe stato molto meglio non essere mai stanco e non dover mai precipitare nell'incoscienza per ricaricare le energie. Sentiva di averne a sufficienza per tutto il resto della vita – era difficile da spiegare, quell'elettricità che sfrigolava dentro di lui.

Si alzò con un accenno di mal di testa, ciondolando via dalla propria stanza a piedi nudi. Si diede una rinfrescata in bagno e pettinò tutti i capelli all'indietro.

Andò in cucina. C'era silenzio, c'era sempre stato. Eppure Richard si sentì improvvisamente schiacciato da tutta quella assenza. Comprese soltanto allora, con un moto d'ansia nel petto, che Sonne non era lì. Che era stato un'entità risonante tra le mura fino a quel momento, anche se non si faceva vedere spesso. Che per la prima volta lui e Verena avrebbero avuto libero arbitrio. Fu disorientante.

Pensò di andare a svegliarla, ma si trattenne. In compenso, prese il latte dal frigo e ne bevve un lungo sorso dal collo della bottiglia. Da quando aveva cenato con Verena la settimana prima, per colpa sua, beveva molto più latte. Come se gli avesse lanciato una qualche strana maledizione. Adesso lo trovava di un gusto infinitamente più gradevole, sul dorso della lingua, più buono di mille altri alimenti. Non gli importavano conservazione e scrematura. Dolce o acidulo che fosse, sapeva di tranquillità, di casa.

Dannata Verena..., si disse, ma con un sorriso. Ora che siamo rimasti soli, quali altri incantesimi mi lancerai?




Lei si svegliò un paio d'ore dopo, e uscì dalla stanza con i capelli arruffati e l'espressione un po' intontita, mentre Richard se ne stava seduto scompostamente sul divano a guardare la televisione.

«Ciao» gli disse, sedendosi accanto a lui. Come pigiama aveva una felpa blu grande il doppio di lei e dei pantaloni di flanella a quadri che le arrivavano ben oltre la caviglia, nonostante le sue gambe snelle e lunghe. Era possibile che l'avesse rubato a uno dei suoi fratelli. Di certo non aveva un grande senso estetico, Richard l'aveva notato subito. Non l'aveva mai vista truccata o con degli abiti che valorizzassero il suo corpo. Eppure la trovava attraente, molto più delle ultime persone che aveva frequentato. Gli piaceva la sua disinvoltura. E proprio perché si copriva così tanto Richard desiderava vedere come fosse sotto, se la sua pelle nascosta fosse pallida come il volto, magari coperta da nei ed efelidi e marchi custoditi gelosamente. In questo le ricordava Sonne: si celava agli occhi altrui.

«Dormito bene?»

Verena scrollò le spalle. Poi rimase immobile per qualche secondo, come se stesse provando a captare suoni lontani. «È già andato via?»

Richard si picchiettò le dita sul ginocchio della gamba che lasciava sporgere e dondolare oltre il bracciolo. «Sì, non l'hai sentito prima?»

«No» sospirò, prima che le sue labbra carnose si piegassero verso l'alto. «Allora devo sbrigarmi. Non c'è tempo da perdere.» Si alzò di scatto, ritrovando improvvisamente tutte le energie, che le riverberarono fin sulle guance.

«Tempo per cosa?»

«Oh, vedrai» rispose lei, prima di sparire in bagno.

Intanto, MTV trasmetteva Would? degli Alice in Chains. Richard alzò il volume della televisione e si accese una sigaretta, canticchiando tra un tiro e l'altro. C'era un che di inebriante nella disobbedienza. Doveva averlo capito anche Verena, senza dubbio.




Verena uscì, con il suo solito zaino logoro in spalla, e tornò dopo un'ora. Non tornò sola.

Richard stava leggendo alcuni annunci di lavoro sul giornale del giorno prima, quando la vide rientrare con degli scatoloni in bilico tra le braccia e un fattorino al seguito, giovane e con un berretto rosso. Avvertì una strana voglia di bloccarlo sull'uscio di casa, come se fosse stato posseduto dallo spirito di Sonne. Rise tra sé al solo pensiero, e li lasciò fare senza commenti.

«Metta pure tutto qui» disse intanto lei al fattorino, poggiando il proprio carico a terra. «È stato gentilissimo, davvero.»

Lui sistemò gli scatoli vicino a quelli di Verena e poi si asciugò con una mano il velo di sudore che gli si era formato sulla fronte per aver salito tre piani a piedi. «Si figuri.»

«Ecco» fece Verena, allungandogli una banconota da cento marchi. «Alla prossima!»

Il ragazzo guardò la mancia meravigliato, ringraziò e poi se ne andò tutto contento.

Richard abbandonò il giornale e le si avvicinò. «Cento marchi, davvero? Se li avessi dati a me ti avrei aiutato il triplo. E poi ti avrei ringraziato come minimo con un bacio con la lingua.»

«Beh, quello te lo do io se mi aiuti a montare 'sta roba.»

Lui osservò meglio gli acquisti, notando in particolare un secchio di vernice bianca e un paio di rotoli di carta da parati. «Di che si tratta?»

«Voglio rimodernare la mia stanza» spiegò. «In questa settimana ho comprato un po' di cose... ma aspettavo che Sonne non ci fosse per portarle qui, le ho fatte tenere tutte in deposito.»

Richard non aveva mai sentito parlare di una regola che impedisse loro di cambiare l'aspetto delle stanze, eppure fu colto, come poco prima, dall'istinto di fermarla.

Porca puttana, Stefan. Lasciami in pace almeno nella mia testa. Voglio disobbedirti finché non torni.

«Sai che lui non ne sarà... entusiasta, vero?» le disse comunque, grattandosi la nuca.

«Probabile, ma non ha mai menzionato nulla del genere. A opera compiuta non sarà un problema. Perché dovrebbe esserlo?»

Richard liquidò la questione con un noncurante cenno d'assenso. Verena aveva ragione. Anche se, in verità, riconoscerlo non fece scomparire quel ronzio nel suo cervello che gli suggeriva di desistere.

«Sono curioso di vedere le tue abilità, allora.»

«Ottimo. Ora vado a coprire i mobili e il pavimento. Dopo mi aiuti?» gli chiese, con le mani giunte a mo' di preghiera.

«Solo per il bacio.»

«Affare fatto.»




Il primo giorno rimossero la vecchia carta da parati dopo averla bagnata con un composto preparato da Verena a base di acqua e ammorbidente. Si divertirono a passare la spugna su tutte le pareti e poi a strappare la tappezzeria pezzo per pezzo.

«Non facevamo prima a mettere la carta da parati nuova su quella vecchia?» chiese Richard a un certo punto, sudato nella sua maglietta dei Metallica.

«Il risultato non sarebbe lo stesso» rispose Verena. «In alcuni punti si raggrinzirebbe.»

Lui alzò le mani in segno di resa e proseguì nella sua opera. C'erano istanti in cui gli sembrava di star strappando la pelle a qualcuno. Altri in cui strappava con più foga del necessario, come per prendersi gioco della sacralità di cui era stata rivestita quella stanza per tanto tempo.

Alla fine sui muri rimasero alcuni residui di carta da parati e vennero rivelate anche delle crepe che qualcuno aveva già provato a risanare. Verena le osservò con un'espressione quasi intenerita, che le ammorbidì i tratti del volto. Richard osservava lei. Verena posò gentilmente i polpastrelli su di esse, percependole forse simili a ferite aperte su un corpo antico, da rispettare: «Quanta vita da raccontare c'è qui dentro...»

«Tutta quella del ramo materno di Sonne, credo.»

«Questa è la casa dei suoi nonni materni?» domandò subito lei. Era evidente che morisse dalla voglia di ottenere informazioni, dopo una settimana di permanenza.

«Così ho capito. Suo padre è di Dresda, infatti Sonne deve essere cresciuto lì... in piena DDR (1).»

«Oh. Quindi è andato da suo padre, adesso?»

Richard fece spallucce. «Secondo te me l'ha detto?»

«Pensavo...» cominciò Verena, prima di riformulare la frase. «Con te almeno un minimo interagisce. Vi conoscete da un po', giusto?»

«Tramite l'università. Ma eravamo solo conoscenti. L'ho incontrato di nuovo qui a Brema per puro caso.»

Lei si alzò di nuovo in piedi e lo guardò per qualche momento come se sapesse che non le stava dicendo tutta la verità e volesse farlo sentire in colpa per questo. «E di lui cos'altro sai?» chiese, decisa.

«Quasi un cazzo. Solo che ha vissuto con i suoi nonni dopo la morte della madre e dei casini legali col padre. Tranne nel periodo universitario, studiava ad Amburgo come me. Letteratura. Se non sbaglio aveva vinto la borsa di studio per un posto in residenza... Poi è tornato qui dopo la laurea, in questa casa, e ha pubblicato un paio di libri.»

«Sai che in realtà... non l'ho mai sentito nominare, come scrittore?»

«Beh, non ha avuto grande successo finora.»

Verena sembrò dispiacersene nonostante quella sorta di astio che già provava per lui. «Sarei curiosa di leggere qualcosa di suo. Potrebbe aiutarmi a capirlo meglio.»

Richard guardò altrove, verso una delle pareti nude. «Auguri, allora.»

«Ha delle copie dei suoi libri in casa?»

«Solo nella sua stanza, mi sa.»

Verena rimuginò mentre prendeva la carta vetrata e iniziava a grattare su una parete per limare i punti malridotti. Solo a lavoro inoltrato gli chiese come ultima domanda, in mezzo alla polvere che stava svolazzando davanti ai loro occhi: «Ma... Sonne è il suo vero nome?»

«L'ha cambiato ufficialmente all'anagrafe. Prima era solo il suo nome d'arte o qualcosa del genere. Io l'ho conosciuto quando si faceva già chiamare Sonne, ma il suo nome era ancora Stefan Radnitz.»

O almeno così diceva la sua cartella in ospedale.

Verena continuò a grattare sul muro. «Perché Sonne? È un po' da megalomani, no? E poi lo assocerei più a una donna (2). Capirei se gliel'avessero dato i suoi... invece l'ha proprio scelto

Richard non seppe come rispondere. La sua conoscenza su Sonne finiva lì, e la cosa turbava anche lui. Escludendo l'incidente all'università, naturalmente. Ma credeva che Verena non dovesse appropriarsi di quel loro ricordo. Era tutto ciò che li rendeva ciò che erano ora, tutto ciò su cui si basava il loro legame.

In quel momento stava giocando con lei ad Adamo ed Eva che disobbediscono nel giardino dell'Eden, eppure non si sentiva disposto a tradire la fiducia di Sonne a tal punto. Una fiducia labile e solidissima al tempo stesso, qualcosa che non era in grado di spiegare. Da questo punto di vista, sarebbe sempre stato in vantaggio rispetto a Verena. Il primo venuto.

Lei accantonò solo allora la sua curiosità così aggressiva. Quello di ricacciarla nelle viscere da cui proveniva fu uno sforzo quasi visibile, perché era davvero troppa, e Richard la capiva. Era una sorta di fame ancestrale, gestibile a malapena, che a volte provava anche lui.

«Mi passi lo stucco, per favore? Forse si può fare qualcosa per queste crepe.»




Il secondo giorno, Richard entrò in camera di Verena di buon mattino e la trovò lì in bilico su una scala pieghevole di metallo a verniciare una parete di bianco con un rullo. La porta era socchiusa e allora lui era potuto penetrare in quel luogo ancora sacro per godersi la visione che gli si presentò davanti agli occhi.

Lei se ne stava con una gamba allungata nel vuoto, mentre si tendeva verso il punto più alto del muro, con delle ciocche di capelli che si erano arricciate sulla fronte e sul collo, sfuggite dalla crocchia disordinata in cui se li era legati. Aveva la bocca socchiusa e le sopracciglia leggermente aggrottate. Non l'aveva nemmeno sentito avvicinarsi, tanto era immersa nella sua opera. Le mani erano coperte da guanti di gomma e il suo busto avvolto da una maglietta larghissima e scolorita, su cui erano piovuti schizzi di vernice. Ce n'erano un paio anche sulle sue guance, come lacrime bianche che avevano interrotto la propria caduta. Poi non indossava nient'altro. Richard, dal basso, intravide la curva delle sue natiche e fu costretto a deglutire. Per la prima volta desiderò andare a letto con lei. Era un pensiero che l'aveva sfiorato già nei giorni precedenti, ma in quel momento cambiò forma e si concretizzò in qualcosa di più intenso. Quell'immagine l'aveva completamente rapito: per il modo in cui la luce aveva illuminato ogni dettaglio, fino all'ultima goccia di sudore.

Quando lei lo vide gli sorrise, luminosa quanto il resto. Richard pensava che sarebbe stata in imbarazzo a farsi vedere mezza svestita, invece si comportò come se niente fosse, continuando a lavorare più disinvolta che mai, a proprio agio in quell'ambiente che ora le apparteneva un po' di più, perché lo stava plasmando con le proprie mani.

«Serve una mano anche oggi?» le chiese.

«Ho un solo rullo, ma se proprio insisti dopo puoi darmi il cambio.»

Le diede il cambio volentieri, poco dopo. Pur di stare in sua compagnia, di poterla osservare nel suo habitat, nell'insieme o nelle sue parti, quando lei distoglieva lo sguardo. Le gambe su tutto, bellissime e fiere, da amazzone. Anche dall'alto della scala la visione lo soddisfaceva. Era magnetica da ogni prospettiva, e da tutte le prospettive meritava di essere ammirata.

Perché ti nascondevi?

Vieni qui. Fatti guardare.

Non si aspettava di poter pensare a lei così. Iniziava a credere che l'avesse stregato davvero.

Richard aveva intinto il rullo nel secchio di vernice ai piedi della scala, ma prima che potesse cominciare a passarlo sulla parete, Verena lo redarguì. «Perché non ti metti qualcosa di vecchio o che non usi più? Rischi di sporcarti.»

Lui, per tutta risposta, senza nemmeno rifletterci, si levò la maglietta, la appallottolò e la scagliò sul letto, che Verena aveva spostato al centro della stanza. Comodino e armadio erano stati invece ricoperti di fogli di giornale per non farli sporcare, e così il pavimento. Una stanza piena di parole ed enunciati, per compensare i silenzi. Gorbačëv lo fissava da una foto in bianco e nero, da terra. Poco lontano da lui, il nuovo acquisto del Werder Bremen, Andreas Herzog, e tante altre figure contemporanee della politica o dell'intrattenimento.

«Detto fatto.»

Anche Verena lo guardò in modo strano. Gli passò i guanti e restò a fissarlo attentamente mentre iniziava a verniciare il muro, osservando i muscoli della sua schiena contrarsi.

Richard si chiese se anche a lei fosse balenata in mente la sua stessa idea e si compiacque al solo pensiero. Gli piaceva essere guardato da Verena. Così come gli piaceva guardarla. Quel giorno aveva un atteggiamento piuttosto lascivo, che stava cambiando completamente le carte in tavola.

Le pareti erano le uniche testimoni. Volevano proteggerli, se non incitarli. In quel rettangolo di spazio potevano fare ciò che volevano, essere chi volevano. Lì dentro, un'altra parte di Verena si stava rivelando.

«Sto andando bene?» domandò lui, lanciandole uno sguardo beffardo.

«Te la cavi» gli concesse. «Però dopo fai anche una passata in orizzontale e un'altra in verticale, per sicurezza.»

«Non mi aspettavo fossi così... precisa.»

«Le cose o si fanno bene o non si fanno.»

Per dare una dimostrazione a quelle parole, Verena prese a ridefinire i bordi della parete con un pennello spesso. E lo faceva con cura maniacale, nonostante il nastro adesivo che aveva predisposto per non fuoriuscire dal perimetro. Sebbene avesse un aspetto caotico, dava l'impressione di una persona che riusciva a tenere tutto sotto controllo nella propria vita, ma non in modo rigido, come Sonne. La sua era naturalezza, sinergia con ciò che la circondava. Era questo a renderla così brava.

Quando ebbero finito di verniciare le due pareti prescelte, fecero una pausa. Adesso metà stanza era di un bianco luminoso e metà ancora in via di trasformazione, un po' come lo yin e lo yang.

«Sulle altre due ci metto la carta da parati che ho comprato» gli disse Verena, con le mani sui fianchi, guardandosi intorno. «Dovrebbe bastare. E domani monto i mobili.»

«Quindi cosa dirai a Sonne quando tornerà?»

«Non so ancora. Ma spero che sia ragionevole.» Tornò a rivolgergli lo sguardo. «A meno che tu non decida di mettermi in cattiva luce.»

Richard si posò solennemente una mano ad altezza del cuore. «Non potrei mai.»

«Ah no? Ti ci vedo proprio. Secondo me è tutto un tuo piano malvagio per farmi cacciare di casa e prenderti la mia stanza ora che è in buone condizioni.»

Lui fece un finto sospiro afflitto. «Cazzo, mi hai beccato.»

Verena rise. «Lo sapevo, che bastardo!» Con il pennello ancora in una mano, gli schizzò il petto di vernice.

Lui abbassò gli occhi sulle gocce che gli colarono lungo l'addome, poi li rialzò su di lei. «Questo è un affronto imperdonabile. Devo vendicarmi.»

Verena fece cadere il pennello a terra, sui fogli di giornale, e indietreggiò scherzosamente con le mani alzate, fino al bordo del letto.

Richard recuperò il pennello, ancora un po' sporco di vernice, e si avvicinò finché a separarli non ci furono soltanto pochi centimetri. Delicatamente, le dipinse una striscia bianca sul naso. «Questo è quello che ti meriti.»

Entrambi mezzi nudi, entrambi macchiati di pittura come nei film americani che tanto andavano di moda in quel periodo. Mancava solo un passo ben preciso.

Verena si lasciò ricadere all'indietro sul letto, sostenendosi sul materasso spoglio con i gomiti, in una posizione accogliente – che voleva accoglierlo. Lanciò a Richard un'occhiata esplicita. Divaricò leggermente, impercettibilmente, le gambe. Lo stava invitando a stendersi lì con lei, a farle mille altre cose. Era lei ora a dirgli: vieni qui. Con la vernice sul volto e le pupille dilatate. Non era nemmeno sicuro che sotto quella maglietta informe indossasse l'intimo.

Gli sarebbe bastato un solo secondo per abbassarsi su di lei, ancor meno per iniziare a baciarla e toccarla. Ma in quell'esatto momento squillò il telefono.

Con il presentimento che fosse Sonne, Richard si ritrasse.






(1) DDR sta per Deutsche Demokratische Republik, Repubblica Democratica Tedesca, ossia la Germania dell'Est prima della riunificazione (avvenuta nel 1990).

(2) Die Sonne, che significa "sole", in tedesco è un sostantivo di genere femminile. 






Note d'autrice:

Salve! Da come avrete notato, tra Richard e Verena sembra essere scoccata una scintilla di qualche sorta. A cosa pensate che porterà? E, tra gli altri interrogativi: vi siete già fatti un'idea su cosa possa essere successo tra Sonne e Richard in passato, o sul perché Sonne abbia cambiato nome? Perché proprio questo nome così particolare, poi? As usual, ditemi tutto, sono super curiosa!

Il titolo di questo capitolo, Wände, significa pareti

Non ho altro da aggiungere per stavolta, per cui... a giovedì prossimo ♥

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