IV. Kerzen

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng


N E B E L

IV.

Kerzen



La camera di Verena fu pronta sul finire del terzo giorno di libertà, l'ultimo prima del ritorno di Sonne.

Lei, a lavoro ultimato, rimase per un po' sotto l'arco della porta a osservarla, con uno sguardo soddisfatto e un calore benigno a percorrerle le ossa.

Era davvero bella, per quanto semplice. Era davvero sua, adesso. Un piccolo sistema solare nella galassia di quella casa, il cui proprietario sembrava voler dividere le stanze di anni luce l'una dall'altra a tutti i costi. Almeno era riuscita a ritagliarsi uno spazio tutto per sé. E l'avrebbe riempito delle proprie leggi, della propria materia oscura. Fino al soffitto, metro per metro.

Le pareti erano diventate lisce e pulite: due verniciate di bianco e due ricoperte da una carta da parati molto simile alla precedente, verde chiaro con disegni di foglie e fiori color crema. Il letto era stato accostato sotto la finestra, con una nuova trapunta rosata che sfiorava il pavimento. Ai piedi vi erano il tappeto di lana che aveva già trovato al suo arrivo e due piccoli pouf che aveva acquistato al negozio d'arredamento per interni nella via accanto. Di fronte al letto, una cassettiera verticale e una scrivania in ottime condizioni prese al mercatino dell'usato, che Richard aveva aiutato a montare. Erano ancora spoglie, per ora, se non si contavano due piantine grasse e una serie di candele profumate che Verena aveva momentaneamente sistemato lì, per decorarne la superficie. Era quel tipo di oggetti che preferiva in assoluto, per questo si era stupita quando aveva notato che in casa di Sonne non c'erano né piante né candele.

Un giorno le sarebbe piaciuto chiedergli: cosa è successo di così triste nella tua vita per diventare così? Era abbastanza sfacciata per una domanda del genere, ma era anche sicura che lui non le avrebbe dato una risposta.

Verena camminò in giro per la stanza, guardandosi intorno. Mancavano mensole e quadri, a cui avrebbe provveduto in un altro momento. Le serviva del tempo per scegliere le decorazioni più adatte. Non vedeva l'ora di girare per i negozi di Brema in cerca di qualcosa che la colpisse – ed era quello l'unico parametro, oltre al denaro, essere colpita. Finora era riuscita a non spendere molto, però doveva rallentare. Se ne rendeva conto. I soldi della sua famiglia non sarebbero durati per sempre.

Richard entrò poco dopo in stanza. Era il tramonto e dalla finestra s'insidiava una luce soffusa. Lui si era fatto una doccia, e Verena sentì che la sua pelle profumava di bagnoschiuma quando si avvicinò, tamponando i capelli bagnati con un asciugamano. Indossava dei pantaloni di pelle e una larga camicia di tessuto traslucido, a fantasia, infilata solo da un lato nella cintura. Girava ancora in ciabatte, ma lei sapeva che avrebbe completato il look con il suo adorato paio di anfibi.

... per andare dove? Mi lasci qui da sola?

«Devo dire che sono un po' invidioso.»

«La prossima volta possiamo rimodernare anche la tua stanza.»

Lui ridacchiò. «Lo faresti gratis?»

«Certo. Tu per me l'hai fatto.»

Richard incrociò le braccia, come per sfidarla. «No che non l'ho fatto gratis. Te l'ho detto che cosa volevo in cambio.»

Verena fece finta di rimuginarci. Giocare con lui era estremamente divertente. Le dava una strana adrenalina, che si sprigionava tutt'intorno. Si domandava quanto avrebbero resistito ancora prima di finire l'uno nelle braccia dell'altra. Ormai credeva che fosse inevitabile... naturale, quasi. E precoce, certo, ma non per questo sbagliato. Non poteva esserci nulla di male nel desiderare così genuinamente qualcuno, nel voler conoscere anche con il corpo. I sensi non erano altro che un secondo intelletto. «Mmh... posso ritrattare? Stavo pensando di offrirti una cena. Sarebbe più equo, no?»

«Di locali sofisticati e compagnia bella non me ne potrebbe fregar di meno.»

«E chi ha parlato di locali sofisticati? Scegli pure tu il posto.»

«Stasera?»

«Sì. Stasera.»

«D'accordo» acconsentì Richard. «Ammetto che mi hai preceduto. Volevo chiederti se ti andava di fare un giro. Potremmo andare al Musikant... È un pub qui vicino.»

«Oh, va benissimo.»

«Volevo provarlo da un po', pare che facciano musica dal vivo. Roba nostra, insomma.»

Verena annuì, scaldata fin nel petto da quella complicità che si stava creando. Era tutto perfetto, senza Sonne. «Dammi un quarto d'ora al massimo e sono pronta.»




Da Violenstraße spuntarono facilmente sulla Marktplatz, nel momento della giornata che Verena preferiva in assoluto: l'inizio della sera, quando il cielo diventa indaco e la città accende i suoi lampioni, metà magica e metà spettrale. I volti delle persone nella piazza, in quella luce, tradivano fattezze sovrannaturali, e lei li osservava bramosa di dettagli, non senza una punta di timore. A stento prestava attenzione al resto, all'imponente Duomo alle proprie spalle, al Municipio con la sua facciata gotica, alla statua di Rolando e ai palazzi circostanti del Rinascimento del Weser.

Le persone. Erano le persone la sua curiosità più grande, il modo in cui esse abitano un luogo e non il luogo in sé.

Lei e Richard erano due estranei, lì. Percorrevano quello spazio grandioso camminando vicini. Vivendo Brema vicini. La loro era una danza confusa: appena si allontanavano l'uno dall'altra di qualche passo, subito si riaccostavano per ritrovare l'equilibrio. Ma uno dei due azzardava sempre un moto di scavalcamento, dopo poco, di distacco, in una sfida che diceva raggiungimi. Una sfida raccolta ogni volta, che li riconduceva alla simmetria iniziale.

Richard aveva una mano in tasca, quella dal polso circondato da braccialetti tintinnanti, e l'altra vicino alle labbra per reggere l'ennesima sigaretta della giornata. Si era messo un cappello nero a tesa larga, leggermente inclinato all'indietro, che gli creava una corona intorno ai capelli biondi. I suoi occhi di ghiaccio tutt'altro che glaciali guizzavano in continuazione su Verena. Nonostante tutta la bellezza che quella piazza avesse da offrire, Verena guardava le persone e Richard guardava lei.

Poi lei accelerava il passo e Richard la raggiungeva.

Scavalcamento, equilibrio.

Era impossibile capire chi stesse fuggendo e chi stesse inseguendo.

Lui rallentava e lei si fermava per aspettarlo e prenderlo sottobraccio.

Ancora, come attendendo il momento giusto per entrare definitivamente in collisione. Ammesso che esistesse, un momento giusto.

Con quell'andatura disordinata imboccarono la stretta Böttcherstraße per arrivare a destinazione, tra palazzi di mattoni rossi e vetrine di botteghe storiche.




Il Musikant, riconoscibile grazie a un'insegna in ferro battuto all'esterno, si trovava alla fine della via e per accedervi bisognava scendere delle scale che portavano alla sala principale, in un seminterrato. Verena fu inizialmente stordita dal rumore in cui si catapultarono. Stridii di chitarre elettriche restituiti da un amplificatore malfunzionante, schiamazzi di gente già ubriaca, camerieri che andavano avanti e indietro per stare al passo con le ordinazioni. Doveva essere una serata piuttosto turbolenta. O forse la norma.

Verena, istintivamente, si strinse di più al braccio di Richard. Non aveva paura dei luoghi affollati, ma doveva... abituarsi. Non entrava in un locale di quel tipo da che ne aveva memoria.

L'odore di alcool, mischiato a quello della carne proveniente dalle cucine, era predominante. Su un lato della sala c'era una serie di botti di legno disposte orizzontalmente una sull'altra, per ricordare ai clienti la produzione di una birra artigianale. Un cameriere li fece accomodare lì vicino sbrigativamente, a un tavolo per due. Si sedettero su degli sgabelli alti e presero a sfogliare il menù rivestito di plastica, mentre la band che si esibiva in quel momento sfornava una versione piuttosto dilettantistica di Highway to Hell.

«Ma che diamine... saprei fare di meglio persino io» commentò Richard, scrocchiando le nocche dopo aver scelto il proprio piatto. «È praticamente un insulto all'originale.»

Verena rise. «Mamma mia, come sei inclemente... Cosa prendi, comunque?»

«Wiener Schnitzel, patate e una Beck's. Un classico.»

«Io sono indecisa.» Se avesse potuto, avrebbe ordinato tutto. Soprattutto la carne. Moriva dalla voglia di assaggiarla e aveva già l'acquolina in bocca al solo pensiero di un arrosto che sgocciolava grasso e sangue. Una volta Christa stava soffocando con un pezzo di carne del genere e lei e Ingeborg avevano dovuto farglielo sputare a forza con metodi poco ortodossi, rivoltandola come un calzino.

Ma nemmeno quel ricordo riusciva a fermare la sua fame o il suo desiderio di carne.

Alla fine ordinò un hamburger di quattrocento grammi al piatto e una pinta di birra artigianale. Il cameriere, lo stesso, li avvisò che avrebbero dovuto aspettare un po'. Così cominciarono a parlare – e da quel momento non si fermarono più.

«Hai visto? Un cartello all'entrata dice che cercano personale. Perché non ti proponi?»

Richard prese a giocare con i braccialetti intorno al polso. Uno di cuoio, un paio di acciaio, uno con dei pendenti a forma di luna e sole. «Non l'avevo notato. Non è una cattiva idea, visto che non mi vuole nessuno.»

«Lo sai, è per via della crisi. Dopo la riunificazione non assumono così facilmente...»

«Certo, la ripresa è lenta. Però non è solo per quello. Anche io sono parte del problema.»

La voce di Verena si addolcì. «Tu? Ma se sei tra le persone più disponibili che abbia mai incontrato!»

«Non mi conosci ancora bene. Sono una testa di cazzo.»

Lei allungò il braccio sul tavolo per stringergli una mano. «Chi ti ha fatto pensare una cosa del genere?»

«Mio padre» sospirò lui. «Da quando ho lasciato l'università non mi parla più. Si aspettava così tanto da me, il suo unico figlio, che quando ha capito come sono fatto veramente... che sono tutto il contrario di ciò che voleva lui, è uscito fuori di testa.»

Verena non lasciò la sua mano. Quell'argomento toccava nel profondo anche lei. A quanto pareva, tutti e tre gli inquilini in casa Rothberger avevano un rapporto problematico con la figura paterna. Questo li avvicinava più di qualsiasi altra cosa. «Sai cosa? Hai fatto bene a ribellarti alle sue aspettative. La vita è tua. Se l'università non faceva per te... nessuno poteva costringerti a continuare.»

«Già. Quei cazzo di esami di medicina... ne avrò fatti due in tre anni. Mi stavano fottendo il cervello.»

«Tuo padre voleva che diventassi un medico?»

Richard annuì. «Chirurgo come lui. Nel frattempo gli ho fatto spendere migliaia di marchi in tasse. Forse ora si è reso conto della propria follia. Io medico, ad aprire in due la gente? Ma ci pensi?»

Verena finse di avere un mancamento e iniziò a sventolarsi una mano davanti alla faccia. «Dottore, mi sento male!»

«Se si trattasse di te, proverei a curarti anche senza aver studiato.»

Rimase spiazzata dalla dolcezza intrinseca di quel commento. Capì dalla sua espressione che non lo stava dicendo solo per scherzare. Lo pensava davvero. «E come?» chiese, appoggiando il mento sul palmo della mano. Il suo intento era quello di flirtare e dare spazio a un nuovo repertorio di doppi sensi, ma Richard sembrò prendere quella domanda seriamente.

«Non lo so. Così come ci sono tanti modi per morire, ce ne sono anche tanti per salvare la vita a qualcuno.» Per un momento distolse lo sguardo. Non lo puntò su nulla in particolare, anzi, si assentò, come se si fosse rintanato nella propria testa. Fu sul punto di aggiungere qualcos'altro in merito, ma poi ci ripensò e tornò a concentrarsi su di lei. «E tu? Quando inizi l'accademia?»

Verena si aspettava che la conversazione avrebbe portato lì. Le dispiaceva dovergli mentire, ma per il momento non aveva scelta. «A ottobre. Settimana prossima devo consegnare la domanda di iscrizione.»

«Ottimo. Almeno tu hai degli obiettivi in mente.»

Falso. Non ho niente. Solo me stessa, proprio come te. «Diciamo di sì. Ma una cosa è sicura: siamo entrambi qui per ricominciare.»

«O cominciare in generale. Anche se non mi è ancora chiaro quale sia il punto di partenza.»

Lei cercò di rassicurarlo con un sorriso. «Chissà, magari è proprio questo.»

Poco dopo il cameriere tornò con le loro birre, che quasi strabordavano dall'orlo dei boccali.

«In effetti sarei proprio figo con quella divisa» disse Richard, squadrandolo mentre si allontanava. «Quei pantaloni fanno un bel culo.»

Verena inarcò le sopracciglia. «Ti preoccupi di questo?»

«Da che pulpito! Ieri mi hai guardato il culo tutto il tempo.»

«Ah, io?»

Richard rise prima di prendere un lungo sorso di birra. Ed ecco che l'aria intorno a loro diventava di nuovo calda e densa. La band attaccò con Sweet Child O' Mine.




Le birre resero tutto più inebriante. Non erano ubriachi, quando uscirono dal locale, ma quel liquido dorato, simile ad ambrosia, aveva amplificato le loro percezioni. Verena sarebbe andata in capo al mondo, se si fosse sentita così, ogni giorno così: maledettamente bene. Piena di vita. Qualcuno doveva averla versata di nascosto dentro di lei, come una botte.

Non sapeva che ore fossero. La città si era svuotata e adesso era tutta per loro. Bastava forse un quarto d'ora per tornare a casa, ma lei e Richard indugiarono in strada fermandosi ad ogni angolo per ridere o continuare brandelli di conversazioni lasciate a metà durante la cena – solo perché se ne presentavano di volta in volta altre più interessanti. La verità è che c'erano troppe cose di cui parlare, e una sola notte non era sufficiente.

Stavano rimandando il momento del rientro da ore, ormai. Era un'attesa che non aveva alcun senso, ma era compresa nel gioco.

Verena, proprio quando faceva più freddo, si tolse il cardigan che aveva portato fedelmente tutta la sera. Rimase con solo la canotta infilata nei jeans, sentendosi abbracciare ancora una volta dallo sguardo di Richard. E poi dal suo braccio, che le avvolse le spalle.

«Che fai? Non senti freddo?»

«Per niente.» Ma non si scostò da lui.

Camminarono così, stretti, fino al Duomo. Nel buio spiccava come una faccia illuminata da una lanterna. Aveva un che di spaventoso, per la sua maestosità schiacciante e i suoi archi vuoti, cavità che forse celavano qualche inquietante personaggio biblico intento a spiare e giudicare chi si avvicinava troppo. Verena si lasciò ipnotizzare per qualche istante dal rosone, l'unico occhio in un volto di pietra.

Chissà se il Dio in cui aveva creduto per tanto tempo la stava guardando.

A quel pensiero, una parte di lei fu carezzata dal terrore. Un'altra tentò di razionalizzare. Finché l'ultraterreno fosse stato contenuto in un luogo chiuso, come una chiesa, poteva dimenticarsene. Bastava non mettervi piede.

Lei lo sapeva, aveva un bagaglio troppo grande di peccati per pensare di poter essere redenta. Sarebbe rimasta fuori per sempre. Anche fuori dal Paradiso.

In quel momento, però, accanto a Richard, non le importava. La vita scorreva incandescente dentro di lei ed era troppo presto per pensare alla morte. Si stancò proprio allora di aspettare. Voleva tornare a casa con lui. Nella sua stanza tutta nuova, sotto le coperte nuove, a reclamare ciò che volevano l'uno dall'altra. Finché non fosse tornato Sonne.

Il pensiero di lui fu l'unica cosa che riuscì davvero a turbarla. Le sembrò improvvisamente che avessero aspettato troppo, che non ci fosse abbastanza tempo per stare un altro po' da soli.

«Da qui facciamo a chi arriva prima?» gli propose con un mezzo sorriso.

«Cosa?»

Invece di rispondere, si staccò da lui e iniziò a correre verso il 124 di Violenstraße. «Corri! Sono già in vantaggio!»

Richard la seguì subito urlandole dietro un'imprecazione divertita.

Corsero a perdifiato, e stavolta non era nemmeno un inseguimento, ma una gara. Trecento metri o poco più. Erano gli unici, nei dintorni, a infrangere il silenzio della notte. Verena arrivò per prima al portone laccato del palazzo e lo aprì maldestramente con le chiavi. Richard la raggiunse e tentò di superarla, ma Verena imboccò le scale con uno slancio. Le percorse velocemente fino al terzo piano, respirando a fatica, con il cuore che bruciava nel petto. Cos'era quella se non altra energia, altra vita? I passi di Richard rimbombarono insieme ai suoi.

Una volta giunti sul pianerottolo si abbandonarono a un'ultima risata spezzata dall'affanno.

«Sono... fuori... allenamento» disse lui tra una boccata d'aria e l'altra, piegandosi con le mani sulle ginocchia. «Cosa diavolo hai in quelle gambe...?»

Verena si appoggiò con la schiena al muro. «Nulla di diverso da te.»

Richard si tolse il cappello e lo usò a mo' di ventaglio. «Questo lo dici tu. Dovrei visitarti per scoprirlo.»

Qualcosa dentro di lei divampò, al pensiero di Richard che le sfiorava le gambe. Diventò la sua fonte principale di desiderio in quel momento. Le mani di lui su di sé. Aveva delle mani incantevoli, un po' ossute e frenetiche, ma pronte ad afferrare il mondo. «Chirurgo ortopedico, quindi?»

«A seconda dei casi.» Le si avvicinò di nuovo e le accarezzò il profilo del collo con le nocche. Verena non poté nascondere la pelle d'oca. «Apri tu o apro io?» le domandò poi, più sottovoce, con una luce diversa nello sguardo. Anche lui non voleva più aspettare.

Lei armeggiò ancora con le chiavi e infine aprì la porta dell'appartamento. Scivolò all'interno con Richard, nel buio. Cercò a tentoni l'interruttore della luce.

«Ancora non hai imparato dov'è?» la provocò lui. Era alle sue spalle e, come se percepisse il suo desiderio di essere toccata, le poggiò le mani sui fianchi. «Ci sei quasi. Un po' più avanti.»

«Adesso sei anche il mio cane guida oltre che il mio medico?»

«Posso essere tante cose.»

La sua voce nell'oscurità era una vibrazione così vicina e così intima che Verena la sentiva provenire come da dentro la propria testa. Fu una sensazione surreale e terribilmente eccitante. Ma voleva ancora ammirare il suo volto. Allungò una mano sul muro alla propria sinistra e trovò l'interruttore, ma non fece in tempo ad attivarlo, perché qualcun altro accese in quello stesso istante la lampada accanto al divano.

Click, e fu luce.

Non erano soli.

Richard trasalì. «Porca puttana, ma sei impazzito?!»

Sonne sorse dalla poltrona su cui era seduto. Un movimento lento, che si concluse con un'occhiata dura e un passo – un solo passo – verso di loro. Li stava aspettando. Al buio.

Le braccia di Verena ricaddero lungo il busto e il suo viso si stese in una smorfia di delusione. Non lui. Non ora. Tutto appassì nell'attimo in cui lo vide.

«Volevi farci venire un infarto?» rincarò Richard, seccato.

«Sono tornato da poco.»

Verena non faticava a credergli. Aveva un aspetto stanco, i capelli un po' unti e gli abiti sgualciti. Ma non era una giustificazione. L'aveva fatto apposta, voleva spaventarli. Probabilmente non sarebbe andato a dormire finché non fossero rientrati.

Ma doveva esserci un motivo più serio se era rimasto sveglio solo per loro. Era tutto troppo strano.

Verena spostò d'istinto lo sguardo sulla porta della propria stanza. Era socchiusa.

Sentì un colpo al cuore.

In quello spiraglio aperto fluirono tutte le sue preoccupazioni.

«Sei entrato in camera mia?» gli domandò, cercando di restare calma.

Sonne la guardò negli occhi. La palpebra lambita dalla cicatrice gli tremò, mentre il resto del corpo rimase perfettamente immobile. Pronto a pronunciare una sentenza. «Da domani non sarà più camera tua.»

Anche Verena si immobilizzò. La delusione divenne subito qualcos'altro. Una rabbia silente, che si propagò sottopelle, e le impedì di dire qualsiasi cosa.

Era fatta così. Più era adirata, più ammutoliva.

In quel momento serrò sia i pugni che le labbra. Richard, accanto a lei, sembrò stupito più dalla sua reazione che da quella di Sonne. Il silenzio, i loro due silenzi che s'incontrano in un duello mortale. E la casa adesso era un campo di battaglia ostile, anche per il suo legittimo proprietario. Verena, però, non aveva armi per vincere.

Fu Richard il primo a intervenire. «Che stai dicendo?»

«Che Verena domani dovrà andarsene. Per stanotte può ancora dormire qui.»

«Ma perché? Cosa ti ha fatto?»

«Non lo so cosa gli ho fatto» disse lei. Non era solo per la stanza. Lo sentiva, che Sonne la odiava, in qualche modo. Non come persona, perché non la conosceva abbastanza, ma la odiava senza dubbio per la sua presenza.

Dovrei essere io a volermene andare, pensò in quel momento. Eppure sento il bisogno di restare.

Fammi restare.

Fammi restare anche se mi odi.

Avrebbe dovuto dirgli proprio così.

Sonne non aveva smesso di guardarla. «Hai commesso un passo falso. Credevi di raggirarmi, l'altro giorno, non è così? Chiedendomi cosa potessi fare nella tua stanza.»

«Pensavo che non sarebbe stato un problema» rispose, anche se era una bugia. Sia lei che Richard avevano immaginato il responso di Sonne fin dal primo momento. E avevano trasgredito comunque. In particolare lei, che non poteva permetterselo e aveva provato lo stesso a compiere quello slancio di libertà.

Ma la verità era che non era libera. Né a casa con i suoi fratelli, né lì. Non si è liberi nel vivere insieme. Convivere con altre persone significa automaticamente legarsi a loro e imparare a svelare una ad una le loro follie. Non sempre è facile separarsi, poi, quando ci si lega l'uno all'altra non con nastri di velluto ma con filo spinato.

Ciò che Sonne stava già tentando di tranciare.

Il suo volto era placido, nonostante la freddezza. Si stava finalmente liberando di lei. Aveva finalmente trovato il pretesto per cacciarla, e lei glielo aveva servito su un piatto d'argento. «Hai pensato male. Questa è casa mia, e qualsiasi decisione che la riguardi spetta a me. Mi sembrava di essere stato chiaro.»

Richard avanzò verso di lui. «D'accordo. È stata un'idea avventata. Ma ormai il danno è fatto. Che ti cambia se in quella stanza ci sta lei o qualcun altro, ora?»

«Ogni azione ha delle conseguenze, Richard.»

«E poi, onestamente», continuò lui, ignorando la sua replica, «ti ha fatto un favore. Voglio dire... lavoro gratis. L'intera casa andrebbe messa a nuovo e lei in due giorni ha trasformato la sua stanza senza sforzo. Pensa a quante altre cose belle potrebbe fare se-»

«Non mi interessa» lo interruppe. «Ho già preso una decisione. Verena, ti restituirò i soldi che mi avevi dato come anticipo. Alla fine sei rimasta solo una settimana o poco più.»

Fece per voltarsi e tornarsene in camera sua senza ascoltare altre repliche, ma Richard lo raggiunse in poche falcate dall'altra parte della stanza. «Senti» gli disse, abbassando la voce di colpo. «Rifletti un secondo... Se la cacci...»

Verena rimase imbambolata vicino la porta. Non riuscì a cogliere bene le loro parole. Stavano parlando in modo che lei non sentisse, e Richard, quello che parlava di più, le dava anche le spalle. A un certo punto poggiò una mano sul braccio di Sonne e a lui quel gesto non sembrò dare fastidio. Abbassò solo per un istante lo sguardo sulle dita di Richard che lo cingevano. Verena avrebbe giurato che quel contatto non sarebbe stato affatto gradito se al posto di Richard ci fosse stato chiunque altro.

Vide per la prima volta un disegno più chiaro in quelle loro interazioni, laddove prima aveva visto solo linee confuse. Non solo Richard stava dalla parte di Sonne, ma Sonne stava dalla parte di Richard. Tra di loro c'era una dimensione privata di segreti e sottintesi che in quel momento le sembrò abissale.

Una dimensione a cui, naturalmente, lei non aveva accesso.

A lei il filo spinato e a Richard i nastri di velluto.

Quella scena si protrasse per qualche minuto e le suscitò emozioni contrastanti. Captò ben poco di ciò che si dissero. Sonne non cambiò mai espressione. La palpebra tremante era l'unica cosa a ribellarsi sulla sua faccia. Quella luce, che coglieva proprio il lato sfregiato del suo volto, gli dava un'aria grottesca. Sembrava più vecchio, e anche più cattivo.

Verena non riusciva a capacitarsi del fatto che un individuo del genere potesse avere l'ultima parola su di lei. Tutto sommato era contenta di avergli fatto un torto, se di un torto poteva trattarsi.

Però sentiva ancora l'impulso di supplicarlo.

Si diede della stupida.

Quando smisero di parlare, Richard si voltò verso di lei, lei che era rimasta lì in piedi a osservare il dispiegarsi del proprio destino, impotente.

Adesso che la guardavano entrambi fece un passo avanti. «Non volevo che accadesse tutto questo. Mi dispiace.»

Si apprestò ad entrare in stanza per preparare il suo unico bagaglio, ma Sonne la bloccò. «Verena» disse, riempiendo di veleno le lettere del suo nome. «Per stavolta puoi restare. Ma non ci sarà una seconda volta.»

Quello fu il verdetto finale. E non era benevolo come potesse sembrare. Verena non seppe come ribattere. Lo fissò e basta, indecisa se ringraziarlo o mandarlo al diavolo. Ma non fece in tempo a fare nessuna delle due cose, perché dopo aver pronunciato quelle parole Sonne sparì subito in camera sua, seguito dal consueto scatto della serratura.

La discussione doveva considerarsi chiusa così.

Richard le sorrise debolmente. Verena avrebbe dovuto ringraziarlo, ma un principio di rancore, immotivato, nacque anche nei suoi confronti. Detestava che fosse il prediletto di Sonne, detestava che venisse ascoltato mentre lei no.

Non lo degnò di un altro sguardo e si precipitò nella stanza per vedere se Sonne le avesse rovinato o distrutto qualcosa. Aveva un presentimento che le ronzava tra le tempie.

Accese la luce con un moto di timore.

E solo allora poté tirare un sospiro di sollievo. Era tutto in ordine, esattamente come l'aveva lasciato. Per scrupolo controllò che i soldi fossero ancora al proprio posto, in un cassetto, nascosti dentro i calzini.

Sonne non li aveva toccati. Però si era infiltrato nel suo mondo, lasciando orme invisibili dappertutto. Ora una parte di lui sarebbe sempre stata lì dentro con lei – perché, lo sentiva, la sua presenza non si esauriva nelle quattro mura in cui si rinchiudeva ogni giorno. Era ovunque. Impregnava l'aria. Scrutava con mille occhi.

Verena intravide il proprio riflesso nello specchio accanto alla cassettiera. Era il riflesso di una persona profondamente turbata, che cercava ancora in giro per la stanza qualcosa che mancava. Il presentimento non era scomparso. Dovette osservare meglio per capire cosa ci fosse di sbagliato.

Richard intanto indugiava sull'uscio della porta. «Tutto bene?» chiese, con un sopracciglio alzato.

Verena guardò con più attenzione e capì.

Erano sparite le candele.

Corrugò la fronte a quella scoperta. Perché proprio le candele? Non le piante, non i mobili nuovi, non i soldi.

Uscì dalla stanza a passo svelto. C'era un solo posto in cui potesse averle messe. Richard la seguì senza capire. «Verena?»

Lei non gli rispose, nemmeno quando entrò in cucina e si avvicinò alla pattumiera. Alzò il coperchio e si rese conto di averci visto giusto: le candele giacevano sul fondo, sbriciolate.






Note d'autrice:

Buon giovedì ♥ Il weekend si avvicina (direi finalmente...), e chi ha letto fin qui potrà sfruttarlo per arrovellarsi sui nuovi quesiti che si stanno delineando in questa storia u.u Fantastico, no?

Vi aspettavate la reazione di Sonne? Come pensate che si evolverà il rapporto tra i tre d'ora in avanti, visto l'astio che continua a diffondersi? Ma soprattutto, Richard e Verena sono destinati a essere interrotti da Sonne per sempre? lol

Come forse avrete immaginato, il titolo di questo capitolo, Kerzen, significa candele.

A giovedì prossimo, vi mando un abbraccio ♥

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro