V. Falle aus Glas

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N E B E L

V.

Falle aus Glas



I fogli sulla scrivania erano ancora immacolati. Le dita della mano destra stringevano la penna con una forza tale da poterla spezzare. Con quella forza, Sonne sperava di incanalare le proprie idee sulla carta.

Ma anche quella mattina non si materializzò nessuna idea. Sonne fissava i fogli e poi la finestra sopra la scrivania. Ciò che c'era oltre il vetro nemmeno gli importava. Coglieva il proprio riflesso e poi tornava ad abbassare lo sguardo, nervoso.

Era come avere una voragine aperta davanti a sé. I fogli bianchi e la città fuori. Non sapeva dove precipitare, perché entrambe le opzioni erano insopportabili.

Desiderava, piuttosto, creare una realtà che gli andasse a genio e che rispecchiasse il cumulo di immagini e intuizioni nella sua testa, ma costruire sul vuoto alle volte era impossibile. Ex nihilo nihil: dal nulla non nasce nulla. Sonne in quel momento della sua vita aveva i significati senza i significanti, il pensiero senza forma, che da solo non bastava a costruire. Serviva la parola materiale, il cemento.

Da mesi faticava a trovare le parole. Il mondo dentro di lui era ancora chiuso a chiave, inaccessibile persino al suo creatore.

Verso le undici, quel giorno, Sonne abbandonò la penna con un gesto di stizza.

Si passò una mano sul volto. Pensò – di nuovo – che fosse il caso di abbandonare il progetto di quel romanzo. Troppo audace, troppo lungo, soprattutto per uno scrittore di racconti. Gli appunti che aveva preso erano confusionari e le scalette che aveva stilato non lo soddisfacevano affatto.

L'idea di tornare ai racconti era confortante, ma la trama che aveva pensato per il romanzo lo ossessionava e pretendeva di venire alla luce. Non lo faceva dormire la notte. Occupava sempre, sempre la sua mente.

E non riusciva a scriverla.

Guardò ancora una volta fuori dalla finestra. Brema era buia ad ogni ora, in quegli ultimi giorni di settembre. In strada c'erano poche persone. Poteva essere un buon momento per prendere un po' d'aria e andare a correre. Di solito ci andava di primo mattino, per incontrare meno gente possibile, ma quando si era svegliato aveva sentito sulle spalle tutta la stanchezza del viaggio di ritorno da Dresda e perciò aveva desistito.

Gli tornò in mente la faccia di suo padre. Uno squarcio sempre aperto nel suo cervello, a intervalli, risputava il suo volto da pazzo, contratto in espressioni ridicole accentuate dalle rughe e da sorrisi pieni di bava.

Due giorni prima, nel vederlo, Gregor Radnitz aveva avuto la stessa reazione di tutte le volte in cui il figlio andava a trovarlo: era corso verso di lui nel bel mezzo del refettorio, pieno di gioia, battendo le mani e strillando «Stefan! Stefan!». Aveva ancora il vizio di sputacchiare le S e chiamarlo con il suo vecchio nome. Un infermiere aveva dovuto bloccarlo perché aveva fatto agitare gli altri pazienti. Uno in particolare, sulla sedia a rotelle e più anziano di lui, si era messo a urlare cose incomprensibili.

Che lì dentro fosse infelice Sonne l'aveva sempre saputo. Lo sapeva a dieci anni quando l'avevano rinchiuso e lo sapeva adesso. Tuttavia, non aveva mai alzato un dito per migliorare la sua condizione o prendersi cura di lui in prima persona.

Era la terza volta che tornava a Dresda dopo la riunificazione. Una volta all'anno, si era imposto, solo per risolvere le questioni burocratiche e accertarsi che stesse bene, come avrebbe voluto sua madre, e solo perché non c'erano più confini da valicare. La prima volta che l'aveva rivisto, dopo quattordici anni di lontananza, gli aveva fatto un'impressione terribile. Era diventato un vecchio, eppure la sua faccia nascondeva sempre i tratti di un bambino. Un eterno infante tutto capricci e suoni gutturali, incapace di badare a se stesso. Quando vedeva Sonne gli si illuminavano gli occhi. Gregor l'aveva riconosciuto subito anche dopo quattordici anni, anche se il suo corpo era cambiato drasticamente ed era diventato quello di uomo, molto più alto e molto più in forze di lui.

Anche quella volta aveva tentato di toccarlo e abbracciarlo, ma Sonne si era tirato indietro bruscamente. Si faceva ancora accompagnare da un infermiere, come quando era piccolo e non permettevano che Gregor si avvicinasse a lui e a sua madre. Non voleva restare da solo con lui.

Era tornato a Brema sollevato, partendo in anticipo con un treno che non era il suo. Aveva viaggiato di sera tardi, tra le luci gialle di un vagone vuoto, e si era ritrovato a pensare che non riusciva più a scrivere da quando aveva rivisto suo padre. In cuor suo sapeva che non era una coincidenza, anche perché la necessità di scrivere era arrivata per la prima volta proprio quando si erano separati.

Doveva trovare il coraggio di smettere definitivamente di vederlo. Fino alla sua morte, almeno. Quando sarebbe arrivato il giorno gli avrebbe organizzato un funerale, l'avrebbe seppellito vicino a sua madre e poi gli avrebbe... o forse se ne sarebbero occupati quelli della clinica, con una più che dignitosa cremazione.

Il pensiero del corpo di suo padre arso dalle fiamme gli fece venire una repentina sensazione di nausea. Si precipitò nel bagno della sua stanza, si inginocchiò ai piedi del water e provò a vomitare.

Nonostante i conati non ci riuscì, così si infilò due dita in gola, ma rigettò più liquidi che cibo. Si alzò reggendosi al lavandino e si rinfrescò la bocca bevendo lunghi sorsi dal rubinetto. Poi incontrò il proprio sguardo nello specchio e si ricordò di quanto, in effetti, i suoi lineamenti fossero simili a quelli di Gregor. Se anche il padre fosse morto, la sua faccia non l'avrebbe mai abbandonato, perché era la sua. Se avesse provato a fare le sue stesse smorfie da ritardato mentale sarebbero stati due gocce d'acqua. Neanche gli occhi di sua madre o quella ragnatela di cicatrice l'avrebbero salvato.

Anni e anni prima, a Dresda, la gente mormorava che Gregor non potesse essere suo padre. Non concepivano che la bella e combattiva Petra potesse essersi consapevolmente accoppiata con un individuo del genere. Sonne era dello stesso avviso. Avrebbe preferito mille volte essere frutto di una relazione extraconiugale e non essere legato a lui con il sangue. Ma ogni giorno ne aveva la conferma: era suo figlio.

Uscì dal bagno e si accorse che era cominciato a piovere. Non avrebbe scritto né sarebbe andato a correre, dunque.

Si prospettava una giornata interminabile.

Prese una pillola per l'acidità di stomaco, ripose i fogli ancora intatti nello stesso cassetto che conteneva i suoi numerosi quaderni di appunti e decise di andare in salotto a leggere. Era l'unico modo che ancora gli restava per evadere dalla realtà.

Richiuse a chiave la porta della propria stanza, il mondo che più voleva preservare in assoluto, e si avvicinò al divano. Lì, sul tavolino basso, aveva lasciato la sua copia di Das dreißigste Jahr di Ingeborg Bachmann (1). La afferrò e si sedette. Attraverso l'arco aperto sulla cucina intravide Richard, in piedi accanto al frigorifero. Si era appena riempito un bicchiere di latte.

Ancora?, pensò Sonne.

Richard non notò subito la sua presenza. Bevve il latte tutto d'un fiato e poi sciacquò il bicchiere nel lavello, ma quando fece per posarlo gli scivolò dalle mani e s'infranse sul pavimento.

«Cazzo!» Sonne lo sentì picchiare un pugno sul tavolo e poi lo vide spuntare in salotto con la sua solita camminata irrequieta, caratterizzata da un atteggiamento scoliotico. «Oh, sei qui» gli disse, quando si accorse di lui. «Senti... ho rotto un bicchiere. Ora pulisco.»

Si diresse verso il bagno per prendere scopa e paletta, e poi tornò a raccogliere i cocci di vetro in cucina. Sonne lo osservò di sottecchi mentre sfogliava le pagine del libro. Richard intanto biascicava altre imprecazioni tra i denti. Sembrava molto più irritabile dopo la sera precedente, e teso, perché sapeva di essere osservato.

Di Verena, invece, non c'era traccia. Apparentemente faceva l'offesa nella sua stanza.

Sonne aveva accantonato la questione soltanto perché stava ancora rimuginando sull'ultima visita al padre. Aver scoperto che Verena aveva ribaltato la camera dei suoi nonni era stata la ciliegina sulla torta di una pessima giornata. A pensarci, però, gli ritornava la rabbia.

Non avrebbe mai più visto quella stanza per com'era prima, per com'era sempre appartenuta a lui, e a Walter e Luciane. Uno spazio familiare si era trasformato nella tana di una serpe, in un battito di ciglia. E tutto per un capriccio di una sconosciuta.

Sarebbe stato meglio per lei non azzardarsi a toccare altro e rimanere dietro quella porta, lontana dalla sua vista. Perché per Sonne Verena era proprio quello: la polvere da nascondere sotto il tappeto, un regalo sgradito da dimenticare e chiudere da qualche parte.

Lo disturbava. Lo disturbava il suo sguardo animalesco, lo stesso del primo giorno, che era emerso anche quella notte. Richard pareva non essersi minimamente accorto della bestia selvaggia che viveva dentro di lei e che con grande probabilità intendeva divorarli, entrambi. Si capiva dalla fame che aveva negli occhi.

Sonne non aveva mai visto una tale fame esistenziale in nessun altro. In parte, Verena la stava trasferendo su di Richard e in Richard. Ma era evidente che non sarebbe mai stata sazia e che lui si stava solo facendo irretire. Il modo in cui le aveva parlato quella notte, il modo in cui avevano scherzato e riso prima di accorgersi di lui gli dava da pensare. Anzi, conduceva la sua immaginazione verso insinuazioni ben precise. Si era già figurato cosa sarebbe successo se lui non fosse stato lì: il letto, le coperte sbalzate via, le gambe di Verena allacciate alla vita stretta di Richard. E la frenesia di lui tutta riversata in spinte e ansiti, donata devotamente a lei.

In quel momento Sonne si alzò dal divano e raggiunse Richard in cucina. Si piazzò davanti a lui e alla scopa. «Da' a me.»

L'altro sbatté le palpebre, perplesso. «L'ho rotto io, fammi rimediare.»

Ma lui gliela sfilò senza aggiungere altro e prese a spazzare al suo posto. Raggruppò tutti i cocci in un mucchio sul parquet e poi controllò che non ce ne fossero di più piccoli sotto il tavolo o vicino le pareti.

«Sonne... mi dispiace.»

«È solo un bicchiere, Richard.»

Richard sospirò e si appoggiò al tavolo di schiena. «È che... a volte non riesco a capire cosa sia importante per te e cosa no.»

Sonne ci mise qualche secondo per assorbire la risposta, che era chiaramente un'allusione agli eventi di quella notte. Fece scivolare i cocci di vetro sulla paletta e poi li gettò nella pattumiera, dove avrebbero fatto compagnia ai resti delle candele di Verena. «Credo che la differenza tra un'intera stanza di casa mia e un bicchiere sia lampante.»

L'altro si mordicchiò le labbra. «Certo, ma non è così scontato con te, se anche delle candele profumate ti infastidiscono.»

Lui si fermò per un attimo e lo guardò dritto negli occhi. «Eppure tu dovresti capire.»

«Io?» Gli ci volle qualche istante per realizzare. Appena comprese a cosa si stava riferendo, un lampo gli attraversò il viso. «Aspetta, è per...?»

Nemmeno tu hai il coraggio di dirlo chiaro e tondo ad alta voce.

Lo apprezzo.

Il silenzio fu di sicuro la replica più significativa. Sonne era fatto di silenzi, e anche se gli altri potevano trovarlo frustrante, lui così riusciva a comunicare molto meglio. Era un controsenso, per qualcuno che viveva di parole scritte.

A dire il vero erano molteplici i paradossi con cui doveva fare i conti. Era uno scrittore che scriveva della vita e che al contempo la odiava, che si rintanava il più possibile nei suoi spazi chiusi per non incontrarla fuori, nei corpi pulsanti degli altri.

Una volta, quando aveva diciott'anni e una terribile smania di pubblicare, un editore gli aveva detto: bisogna viverla la vita, prima di scriverla. Buona fortuna. Era stato il suo terzo o quarto rifiuto. Il manoscritto in questione era la sua prima delirante e acerba raccolta di racconti.

Quel consiglio l'aveva perseguitato per un bel po'. Ci aveva provato, all'inizio. Si era iscritto all'università, ad Amburgo, lontano da casa, ed era venuto in contatto con persone d'ogni tipo. Aveva praticato sport, frequentato salotti letterari, conosciuto delle donne. Aveva vissuto la vita per come la intendevano gli altri, per qualche anno. Ma non era nella sua natura, e questo a un certo punto era stato dolorosamente evidente.

Richard sapeva benissimo cosa avesse fatto degenerare tutto.

«Diamine, Sonne... non so come ho fatto a non arrivarci prima.»

Era la prima volta che accennavano all'accaduto. Pur essendo ben impresso nella loro memoria, entrambi avevano preferito tacere – anche Richard si era adeguato al silenzio, perché tra loro due c'era in ballo una sensazione scomoda, onnipresente, che oscillava tra obbligo, gratitudine e vergogna. Sonne non era nemmeno sicuro che Richard stesse dicendo la verità, che non ci avesse mai riflettuto.

«Ti prego di non chiedermi nulla in merito» disse, con un tono più duro. «Mi interessa solo che tu abbia capito.»

Richard annuì, distogliendo lo sguardo. «D'accordo.» Si grattò la mandibola e si lasciò involontariamente un segno rossastro con le unghie sulla pelle. Era ancora teso. L'energia che vibrava nel suo corpo premeva per fuoriuscire in tutti i modi possibili. Dalle occhiaie si poteva desumere che anche quella notte non avesse dormito. Sembrò cercare le parole giuste per cambiare argomento. «Comunque per quanto riguarda la stanza... hai ragione. Avrei dovuto fermarla.»

«Verena?»

«Sì. Invece l'ho aiutata. Pensava di fare qualcosa di bello, ma sempre un po' in malafede. Adesso fa anche l'ingrata.»

Sonne incrociò le braccia. «In che senso?»

Anche il tono di Richard si inasprì. «Non mi parla da ieri sera. Ti sembra normale?»

L'altro dovette ammettere tra sé che quell'informazione lo lasciava basito. Il comportamento di Verena era estremamente contraddittorio. Sonne pensava che se la sarebbe presa solo con lui, invece stava riversando l'ostilità su entrambi, senza motivo. Forse era meglio così per Richard, era meglio che non si fidasse più di lei e che se ne distaccasse. Verena nascondeva qualcosa di terrificante, e Sonne l'aveva intuito fin dal primo momento.

Lasciala perdere, avrebbe voluto suggerirgli, ma proprio allora, come evocata da una strega, lei comparve in cucina.

Richard si raddrizzò con la schiena per richiamare la sua attenzione, ma Verena non gliela concesse. Camminò fino al frigo determinata a ignorare entrambi. Passò in mezzo a loro senza alzare lo sguardo né sull'uno né sull'altro. Quello di Richard, invece, cadde sulle sue gambe. Indossava solo una camicia dal taglio maschile, che era larga abbastanza da coprirla fino a metà coscia, ed era a piedi nudi. Forse era una provocazione, un subdolo e blando esercizio di potere – finora aveva girato per casa coperta da strati e strati di vestiti di seconda mano, e per cosa se non per occultare la pelle?

Adesso, inspiegabilmente, svelava una parte di sé.

Sonne notò anche che i suoi capelli erano più lisci del solito. Se la immaginò pettinarli appena sveglia, davanti allo specchio, mentre sulle labbra appariva un broncio per ogni nodo incontrato.

Si era preparata, in qualche modo, e solo per farsi vedere da loro.

Sonne era curioso di scoprire cosa avrebbe fatto, come avrebbe agito. Intendeva tener conto anche del più piccolo passo falso.

Verena prese delle verdure dallo scaffale del frigo che si era ritagliata per sé, insieme a una busta di Maultaschen (2) da supermercato, poi appoggiò tutto sul bancone accanto ai fornelli, afferrò un coltello dallo scolaposate e si mise a tagliare sedano, carote e pomodori in grossi pezzi per il brodo vegetale, dopo averli sciacquati. Richard la fissava con un cipiglio sempre più esterrefatto, incredulo per la sua indifferenza.

L'unico suono che riempiva la cucina era quello ritmico del coltello che cozzava con il ripiano.

«Si può sapere che cazzo ti succede?»

Non poteva che essere Richard a spezzare il silenzio. Tra i tre era di sicuro quello che lo sopportava di meno. Aveva bisogno degli stridori tanto delle chitarre quanto delle persone, lui, dei rumori che danno vita agli spazi.

Verena si fermò per un secondo, un solo secondo. Ma non rispose né si voltò, e riprese subito a tagliuzzare le verdure per il suo pranzo. L'esasperazione di lui raggiunse il culmine. Le si accostò e sbattè una mano sul bancone, accanto alla sua che stringeva il coltello. «Mi vuoi rispondere?»

Verena lo guardò solo allora, glaciale. «Stai calmo, Richard.»

«No che non sto calmo se qualcuno mi tratta così senza motivo.»

«Voglio solo essere lasciata in pace.»

Richard si arrese con un'alzata di mani, scuotendo la testa. «Come ti pare.» Fece per allontanarsi, ma poi ci ripensò. «Onestamente non so che problemi hai, ma si capiva che non ci stavi con la testa dal primo giorno che sei arrivata.»

Sonne vide le conseguenze di quelle parole in maniera molto chiara. Le percepì su di sé, anche. Aveva ricevuto insulti simili in passato, tutti che insinuavano chissà se il figlio del pazzo non è pazzo anche lui. L'impatto su Verena fu altrettanto forte. Gli occhi le si riempirono di lacrime che non versò, e che eppure raccontavano mille cose di lei.

Fece un passo indietro, come le belve prima di attaccare per darsi lo slancio. Poi un altro. Ma sobbalzò e gemette, nel calpestare qualcosa di appuntito.

Alzò il piede per esaminarlo. Una scheggia di vetro le si era conficcata sotto la pianta. Da lì, in un punto così vulnerabile del corpo, sgorgò un rivolo di sangue che finì con il precipitare in goccioline vermiglie sul pavimento. Verena barcollò fino al tavolo e tirò a sé una sedia per sedersi.

Fu costretta a mettere da parte l'orgoglio e, finalmente, si rivolse a Sonne. «Hai qualcosa con cui posso toglierla? Una pinzetta?» gli chiese, tenendosi il piede ferito in grembo con entrambe le mani. Adesso il suo sguardo era del tutto indifeso. Sempre fiero, perché la fierezza era propria dei carnivori come lei, ma in cerca di un atto di misericordia. Lui e Richard erano i cacciatori che le avevano teso la trappola, inconsapevolmente, una trappola di parole e di vetro, per averla alla loro mercé.

Richard si mosse sul posto a disagio. Sonne osservò Verena ancora per un altro istante. Quella scena gli ricordava qualcosa. Lei fasciata da un solo indumento, un po' piegata su se stessa per proteggersi dagli osservatori-cacciatori – il corpo che punta in un'altra direzione, ma gli occhi soltanto per loro –, un dettaglio di sangue e i capelli di miele.

Avanzò rapidamente. Si sedette sui talloni accanto a lei e, senza avvisarla, scavò con le dita nella sua pelle per estrarle quel minuscolo pezzo di vetro, tenendole ferma la caviglia con l'altra mano. Verena si morse le labbra e contrasse tutti i muscoli del viso, pur di non emettere nessun lamento. Gli strinse un braccio con una forza inaspettata, per aggrapparsi a qualcosa. Sonne sentì le unghie di lei affondare nella carne nonostante la stoffa della maglietta, così come lei stava sentendo le sue che rovistavano nella ferita. Era diventata una questione di artigli. Se osava farle del male, lei ne avrebbe fatto a lui, e viceversa. Era la prima volta che si toccavano.

Verena emise un respiro tremante quando Sonne riuscì a prelevare la scheggia. Un frammento triangolare e aguzzo, ora ricoperto di sangue, così come le dita che lo reggevano.

A opera compiuta, Sonne si alzò e si distanziò immediatamente da lei. Starle così vicino gli faceva uno strano effetto, di ebbrezza e di intorpidimento. Forse perché il suo sangue era come vino.

«Ti prendo dell'ovatta» le disse. Nel voltarsi, scoprì che Richard era tornato nella sua stanza.

Andò in bagno a recuperare l'occorrente per una medicazione dall'armadietto dei medicinali, poi tornò subito da lei. La trovò come l'aveva lasciata, con una gamba appoggiata all'altra sul ginocchio e un piede rigato di rosso scuro. Posò tutto sul tavolo: disinfettante, ovatta e cerotti.

«Grazie» mormorò lei. «Cosa si è rotto?»

«Un bicchiere.»

«Oh, ecco cos'è stato quel rumore.» Prese a disinfettarsi la ferita, sovrappensiero. Aveva una certa familiarità con quegli oggetti, sapeva esattamente come preparare una buona medicazione. «Spero non servano dei punti. Nel caso, l'ospedale è lontano?»

«Non molto. Basta prendere il 4 e scendere alla fermata del St. Joseph-Stift.»

«Va bene.»

Rimasero in silenzio per qualche secondo, mentre lei si attaccava un cerotto alla pianta del piede. Dopodiché si alzò e, stando attenta a non gravare con il peso sulla ferita, si rimise a cucinare. Solo allora Sonne se ne andò.

«Se la cacci, beh, devi cacciare anche me, perché ho lavorato con lei.» Era questo che gli aveva detto Richard.

Per Sonne era stata una sorta di minaccia. Non poteva perdere l'unica persona di cui stava iniziando a fidarsi, e pertanto non poteva perdere neanche Verena. Si domandò soltanto se dopo quel litigio il ragionamento fosse ancora valido.

Sperò che Richard si fosse pentito di averlo detto. Di averla salvata.

Anche se, in fin dei conti, a salvarla adesso era stato lui.

Ma sarebbe arrivato un giorno in cui Verena non avrebbe più avuto bisogno di alcuna salvezza.






(1) Romanzo del 1962, "Il trentesimo anno", portato in Italia nel 1985.

(2) I Maultaschen, piatto tipico tedesco, sono una sorta di grandi ravioli ripieni di carne macinata, spinaci, mollica di pane e cipolle. Si cucinano bolliti o fritti.






Note d'autrice:

Non so perché, ma sono molto affezionata a questo capitolo. C'è molta più roba di quel che sembra. Per quanto riguarda il titolo, Falle aus Glas significa trappola di vetro

Finalmente si parla del padre di Sonne! Ci tengo a precisare, in questo piccolo spazio, che Gregor Radnitz ha a tutti gli effetti una grave disabilità intellettiva (quella che prima veniva chiamata "ritardo mentale"). Per questo motivo Sonne si riferisce a lui con un appellativo come "ritardato", che resta in ogni modo profondamente offensivo. Ma vi sarete accortə che è molto duro e ingiusto con lui in generale. Resta da domandarsi perché...

Grazie mille per aver letto e a giovedì prossimo ♥ 


PS: qualcuno mi ha chiesto come si pronunciassero i nomi dei protagonisti. Per semplificare, Verena si pronuncia esattamente come si scrive, con l'accento sulla seconda /e/. Lo stesso per Sonne (la /e/ finale si legge). Richard non si pronuncia all'inglese, ma con il suono /ch/ aspirato (una cosa simile a "Rishard", come il suono del pronome "ich", "io", se avete presente). That's it ♥

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