IX. Engel

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng


N E B E L

IX.

Engel



«Ipocrita del cazzo.»

Verena fissava il piatto vuoto davanti a sé. Non aveva prestato particolare attenzione a nessuna delle sue imprecazioni, ma l'ultima la colpì. «Perché ipocrita?»

Richard fece un verso di scherno forzato. «Perché lo è davvero.» Ancora seduto a tavola, riprese a muovere le gambe su e giù come un ossesso, l'unico modo che aveva per buttar fuori un po' di rabbia e impedirsi di esplodere.

Si distraeva con il corpo per non stare troppo a riflettere su quello che era appena accaduto, altrimenti si sarebbe accorto di quanto Sonne gli avesse fatto male. All'improvviso si sentiva tornare bambino, pervaso dallo stesso sentimento che si prova quando non s'incontra l'approvazione degli adulti.

Non mi serve la sua fottuta approvazione. Non mi serve!

Però non riuscì neanche a rifugiarsi nel conforto di Verena. Lei tentò di prendergli una mano, ma lui la tirò indietro istintivamente.

«Ehi...»

«Scusa, è che... forse non dovevo dirvelo.»

«Ma cosa dici? Se te la sentivi e Sonne si è comportato da stronzo non è colpa tua. Hai fatto bene. Non è giusto dover tenere segreto ciò che sei.»

Richard annuì debolmente. La rabbia si stava contaminando di pentimento e disagio. Sulla lingua un sapore amaro, che niente aveva a che vedere con il buon cibo appena mangiato. «Cazzo, hai la mente aperta tu che sei cresciuta in un paesino e non uno laureato col massimo dei voti.»

«Non credo che Sonne sia uno stupido... però la sua reazione ha sorpreso anche me. Non me l'aspettavo.»

«Non dirlo a me. Ci sono rimasto di merda, è solo un ipocrita.»

Verena gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Intendi per il fuoco?»

«No.» Si convinse a dirlo. «Intendo che all'università giravano voci anche su di lui. Fino a poco tempo fa avrei giurato che fossero vere.»

«Oh. Sul serio?»

«È stato con qualche ragazza, certo, c'erano delle testimonianze anche nel mio gruppo di amici. Roba da una notte e basta, e dicevano che non si togliesse nemmeno i vestiti di dosso. Ma aveva un rapporto a dir poco... esclusivo con un suo professore. Quello che poi l'ha aiutato a pubblicare i suoi libri. Andava spesso a casa sua.»

Buttar fuori improvvisamente ciò che sapeva su Sonne gli fece uno strano effetto. Era liberatorio, ma al contempo sentiva che non avrebbe dovuto. Si rendeva conto così dell'influenza che aveva avuto su di lui e adesso, adesso che aveva scoperto quanto odio albergasse dentro il suo corpo da gigante, più di quanto credeva, non vedeva l'ora di estirparla. Ma era una pianta velenosa, che aveva affondato le radici in profondità – quando era successo, esattamente, nella breve finestra di tempo della loro convivenza?

Quella stessa influenza gli permise di dire abbastanza, ma non tutto.

A Richard non sarebbe dovuto importare niente di Sonne, eppure si ostinava ancora a mantenere il loro ultimo segreto. Come se rivelarlo avesse potuto scatenare l'apocalisse in quella casa, e non solo. Riusciva ad affermare la propria identità ad alta voce, dopo aver vissuto nell'ombra per anni, ma non riusciva a raccontare la verità sul loro primo incontro. Per proteggerlo, forse, proteggere la persona che ora negava, implacabile, proprio la sua identità. C'era qualcosa di malato in quella loro dinamica: Richard teneva in pugno Sonne e Sonne teneva in pugno Richard.

Richard non sapeva spiegarselo, ma aveva paura che Sonne potesse fargli perdere coraggio. Che il suo odio fosse fatale, che potesse ammutolirlo. (Forse non dovevo dirvelo). Amava così tanto la libertà e aveva così tanta voglia di esprimerla che al solo pensiero di risprofondare nella vergogna gli tremavano le ginocchia. Non poteva farsi strappare la fierezza conquistata, Verena aveva ragione.

Gli sarebbe piaciuto soltanto che le persone, in quel mondo oppressivo, fossero più simili a lei – e non lo erano, non lo erano quasi mai.

Era fortunato ad averla trovata nello stesso nido in cui Sonne covava la propria ostilità.

Verena rimuginò sulle nuove informazioni ottenute. Rimase per qualche secondo in silenzio, passando il pollice sul bordo del proprio piatto. Richard sentiva che stava per pronunciare una difesa nei confronti del proprietario di casa. Non gli era ancora chiaro che tipo di rapporto si stesse sviluppando tra loro.

«Ma allora... ammesso che ci sia un fondo di verità, non può essere che non ti accetta proprio perché non ha imparato prima ad accettare se stesso?»

«In quel caso sarebbe un problema suo. Che si facesse un esame di coscienza e non rompesse i coglioni a me.»

«Forse dovresti dargli un'altra possibilità di dialogo. Potresti persino aiutarlo. L'hai stroncato subito, poco fa. E poi... certo, non avrebbe potuto tenere la paura del fuoco nascosta ancora per molto, ma se ha reagito così significa che hai toccato proprio un tasto dolente. Non voleva che io lo sapessi, no? È stato un colpo basso.»

Richard fece un sospiro esasperato. «Adesso sono io quello intollerante?» Ma Verena non aveva tutti i torti. L'aveva detto apposta, era vero, perché voleva ferirlo e perché sapeva perfettamente come fare.

«No, appunto» lo incalzò lei. «Vai a parlarci proprio perché non lo sei. Dubito che lui farà il primo passo.»

Lui scosse la testa. «Mi dispiace, ma non ci andrei nemmeno se minacciassi di fucilarmi.»

«Posso ricattarti in altri modi.» Il sorriso furbo che seguì fu l'unica nota positiva capace di risollevargli il morale. «Hai presente tutte quelle cose che volevi provare con me...?»

«Oh, dai, non ci credo...»

Lei si alzò dalla sedia ridendo. «Su, aiutami a sparecchiare, e nel frattempo prendi in considerazione l'idea.»




Non avrebbe dovuto. Non avrebbe dovuto strisciare da lui così.

Non che Verena l'avesse davvero costretto ad andare a parlargli, ma senza il suo suggerimento difficilmente si sarebbe convinto. Adesso lei era andata a dormire e lui era davanti alla stanza di Sonne, solo.

Picchiettò le nocche sulla porta, la seconda volta per quella sera.

Prevedeva che sarebbe degenerato tutto.

«Sonne, devo parlarti.»

In realtà non sapeva bene cosa gli avrebbe detto. Avrebbe scommesso volentieri sul fallimento dell'operazione: se anche Sonne avesse accettato di parlare, Richard sarebbe stato ancora troppo adirato per intrattenere una discussione pacata.

Il silenzio fu la risposta.

E quando mai. Quanto sei prevedibile, Stefan.

In effetti chiamarlo Stefan l'avrebbe fatto incazzare parecchio. Richard si ricordò di giocarsi quella carta, prima o poi. I punti deboli di Sonne erano tutti meravigliosamente a portata di mano, perché era stato lui stesso a mostrarli uno dietro l'altro. Richard, con l'accendino nella tasca dei pantaloni, si sentiva un po' più forte. Era l'arma più immorale che potesse scegliere. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere la faccia di Sonne in preda alla paura di fronte a una minuscola fiamma.

Prese un respiro profondo. Si ripeté che stava venendo in pace. Niente dispetti e vendette. Bussò ancora.

«Sonne.»

Il risultato fu lo stesso. Un muro di silenzio, resistente come cemento armato. Richard si rigirò l'accendino nella tasca.

«Lo so che sei sveglio. Smetto di bussare solo se stai al cesso.»

Prese a bussare ripetutamente, quasi imitando un assolo di batteria di un qualche pezzo metal, finché non si stufò e concluse il tutto sbattendo un'ultima volta la mano sulla porta.

«Cristo!» gridò. «Volevo soltanto chiarire, ma a pensarci bene sei tu che mi devi delle scuse. Ti aspetto nella mia stanza.» E prima di allontanarsi aggiunse, sempre ad alta voce: «Non fare lo stronzo.»

Tornò in camera sua con la voglia di sfondare qualcosa. Gli venne in mente anche quello, distruggere la stanza per farlo imbestialire. Meglio la furia che il silenzio. Sarebbe stato un buon modo per auto-cacciarsi di casa e finire in mezzo a una strada.

Afferrò il pacchetto di sigarette appoggiato sul comodino, delle Camel, e se ne accese una senza nemmeno aprire la finestra. Voleva che nella stanza ne rimanesse la puzza. Voleva impregnare l'aria della sua rabbia.

Lo stava aspettando davvero.

Camminò avanti e indietro per tutta la durata della fumata, facendo cadere la cenere sul pavimento. Tabacco e nicotina erano l'unica combinazione capace di aiutarlo a rilassare il corpo. Quando ne sentiva il bisogno, quando l'energia da bruciare era troppa e gli arti fremevano dal nervosismo, riusciva a fumare anche un pacchetto intero in un giorno. Suo padre glielo diceva sempre, che si sarebbe rovinato con le sue stesse mani.

Salutista di merda.

Pensare a lui non giovò al suo stato d'animo. Pensare a lui significava dover fare i conti con un'altra persona che non l'aveva accettato. Eduard Weigl non era stato mai esplicito, proprio come Sonne, ma tutte le insinuazioni e le domande scomode, fino ai gesti più casuali, rivelavano il suo violentissimo rifiuto nei riguardi del figlio. Non si parla solo con le parole, e Richard l'aveva capito molto presto nella sua vita. Così come aveva capito che pur amando non ci si può impedire di odiare.

Anche lui, chissà per quale ragione, aveva deciso che Richard fosse gay e basta, che era soltanto confuso perché doveva ancora trovare il proprio posto nel mondo.

O nero o bianco. Tutti gli chiedevano di scegliere e Richard si stupiva come un bambino: nessuno riusciva a comprendere che esistono anche altri tipi di scelte. Questo o quello? Entrambi. Nessuno. Altro.

Aprì la finestra solo per gettare il mozzicone, che tracciò una parabola nell'aria e poi precipitò da qualche parte in strada. Ne percepì il momento esatto della caduta come se avesse fatto rumore, e proprio allora, plick, gli salì un groppo alla gola.

Era normale. (Normale, normale, che parola vuota). Una volta sfogata la rabbia restava il dolore.

Sì, Richard aveva voluto ferire Sonne, ma come aveva fatto Sonne a ferire lui?

Non fu in grado di fermare le lacrime. Inspiegabilmente piangeva. Si stese sul letto e singhiozzò affondando la faccia nel cuscino.




Rimase ad aspettare Sonne a letto, al buio, sfregandosi gli occhi che ora gli prudevano. La porta della stanza era socchiusa.

Lo aspettò per oltre un'ora, e lui comparve sulla soglia proprio quando stava per perdere le speranze.

Sonne aprì la porta lentamente senza annunciarsi, per non svegliarlo nel caso stesse dormendo. Richard si alzò subito a sedere sul materasso. «Alla buon'ora» gli disse, con una voce un po' roca.

La sua figura emergeva dalla luce, illuminata alle spalle dalla lampada in salotto, però il volto era in penombra. Richard ci mise qualche istante per leggere la sua espressione. In mezzo alla solita impassibilità c'era una vena di sconforto. Dopo un'ora o poco più il suo viso sembrava più scavato e ruvido, come se in quel lasso di tempo, per quanto breve, si fosse prosciugato qualcosa dentro di lui, a partire dalla pelle.

«Hai fumato» fu la prima cosa che disse, quando si accorse della puzza di sigaretta.

Richard scrollò le spalle. «Mica solo adesso.» Tanto valeva mettere in campo tutte le verità.

Sonne rimase un paio di secondi fermo sotto l'arco della porta, poi si avvicinò al letto e si sedette accanto a lui, sebbene a una distanza ragionevole – ragionevole per i suoi standard.

Non commentò né parlò in generale, allora si decise Richard a cominciare. Si sentiva pronto, adesso che si era svuotato dei sentimenti più aggressivi. «Ok, ok, inizio io.» Sospirò. «Mi dispiace.»

Era più facile dirlo che convincersi a dirlo. Due banali parole sconosciute agli orgogliosi. Non faticava a capire perché l'orgoglio fosse considerato un peccato mortale, e nemmeno a immaginare che Sonne sarebbe andato all'Inferno per questo.

«Però mi sorge spontanea una domanda. Perché te ne vergogni? Un po' ero serio quando ho detto "a ognuno il suo". Siamo tutti diversi, noi esseri umani, e tu... beh, tu hai paura del fuoco. Più scenderai a patti con la cosa, meno ti peserà, sai? Negarlo e nasconderlo crea solo disagi e non risolve un bel niente.»

Sonne irrigidì la mandibola, forse perché aveva stretto i denti come riflesso dinanzi a quel consiglio che era più simile a un pugno nello stomaco. «È per via dell'incendio.»

«L'avevo capito, ovviamente.»

«Anche se non ci penso, l'istinto mi riporta sempre a quel momento. Non posso farci niente. Durerà per sempre.»

«Dio, che fatalista che sei. Magari non passerà, ma puoi lavorarci per renderti la vita più semplice.»

L'altro scosse la testa con amarezza. «Ci ho provato e non funziona.»

«Sonne, senti...» Una pausa necessaria, perché il discorso non poteva portare altrove. «Non ti ho salvato la vita per vederti rassegnato così.»

Calò di nuovo il silenzio.

Infine ce l'aveva fatta, Richard, a pronunciare quel pensiero ad alta voce. Di nuovo: era così facile. Maledettamente facile. Dirlo non l'avrebbe reso meno reale, anzi, il contrario. Di cosa avevano avuto paura? Era tutto ciò su cui si fondava il loro legame e la loro fiducia, meritava di essere ricordato, custodito, celebrato.

Sonne lo fissò. Le spalle gli si alzavano e abbassavano a ritmo con il suo respirare profondo, che un po' si stava velocizzando. Richard aveva rievocato qualcosa che lui non voleva rievocare. Qualcosa di indicibile, perché l'orgoglio corrodeva anche quella parte preziosa della sua memoria.

«Non lo metto in dubbio» si sforzò di replicare.

Richard rammentava bene che Sonne non l'avesse mai nemmeno ringraziato per averlo salvato dall'incendio. «E allora? Ti vergogni anche di questo?» lo provocò.

«No.»

«A me pare di sì.»

Sonne distolse lo sguardo, un gesto in cui c'erano più confessioni di quante avrebbe potuto ammettere.

Richard gli accarezzò il profilo del corpo con gli occhi. «Non so perché lo credi, ma non c'è niente di male nell'essere salvati da qualcuno. Non siamo sempre in grado di farcela con le nostre sole forze.»

Era una convinzione a cui si aggrappava fermamente. Non crederci abbastanza significava abbracciare l'idea che tutti fossero destinati a nascere e morire soli al mondo. Ma in realtà si nasce e si muore insieme agli altri. C'è un noi che è più grande dell'io.

«Lo so. Non è questo il problema» gli rispose Sonne con calma, anche se adesso non lo stava più guardando. «Il problema è che salvare la vita a qualcuno è un atto terribile tanto quanto togliergliela. Si è in debito per sempre. E tu ne sarai per sempre responsabile, nel bene e nel male.»

Richard si lasciò sfuggire un sorriso divertito. «Credo che con la scrittura ti sia dato di volta il cervello.»

«Sono serio, Richard. Spero tu sia consapevole che è qualcosa che non potrò mai ripagare.»

«Non ce n'è bisogno.»

«Un po' hai ragione. Me ne vergogno. Me ne vergogno perché riguarda il fuoco. Se solo sapessi cosa vuol dire...» Sembrava voler aggiungere altro, ma si interruppe passandosi una mano sulla faccia, oscurando anche la stessa bocca da cui venivano le parole.

Richard avrebbe voluto ascoltare tutto quello che aveva da dire, ma il punto era proprio che Sonne lo teneva ben segreto, ed era un atteggiamento capace di allontanare anche i migliori intenzionati. C'era molto altro che Sonne avrebbe dovuto raccontargli – sì, dovuto, glielo doveva – ma non approfittò nemmeno di quell'occasione d'oro per aprirsi.

La verità era che tra loro c'era ancora un oceano di distanza: Sonne era il primo a non volerlo attraversare e Richard trovava piuttosto demoralizzante l'idea di dover remare da solo.

Decise di fare un ultimo tentativo.

Si sporse sul letto verso di lui e lo abbracciò. Cercò di non essere brusco, di metterci tutto il calore possibile. Gli circondò le spalle e appoggiò la guancia nell'incavo del suo collo.

Sonne restò impietrito. I suoi muscoli erano rigidi, sotto le mani di Richard. Trattenne il respiro e forse anche il flusso di sangue nelle vene. Era come se avesse smesso di essere un uomo in carne e ossa. Come se Richard, abbracciandolo, si fosse ripreso la vita che gli aveva dato.

Gli venne in mente un dettaglio che aveva trascurato a lungo, riguardo all'incendio. Quando l'aveva fatto rinvenire, nel bel mezzo dell'aula studio in fiamme, Sonne aveva tossito violentemente e poi l'aveva fissato per un lunghissimo istante, senza capire chi avesse di fronte. La prima parola che gli avesse mai rivolto era stata... Engel? O qualcosa di molto simile. Aveva la voce strozzata, e Richard non stava prestando abbastanza attenzione, troppo impegnato a pensare a un modo per fuggire dall'edificio con quell'armadio di due metri mezzo svenuto al seguito.

Angelo custode o angelo della morte? Quale dei due stava aspettando, disteso sul pavimento dell'università e adesso tra le sue braccia?

Sonne non ricambiò la stretta.

Richard intuì il motivo di quella resistenza. Non si rattristì, né si arrabbiò com'era successo qualche ora prima. Fu un'enorme delusione, per la seconda volta, ma rimase sereno. Era un problema di Sonne, se aveva un brutto rapporto con la propria sessualità e con quella degli altri. Lui era libero, a differenza sua. Era persino libero di abbracciarlo, anche se Sonne si sentiva minacciato dalla sua libertà.

Hai paura di essere come me, non è così? Una checca a metà. Un ninfomane senza vergogna. Chissà quante ne hai pensate.

Evitò di chiedergli qualsiasi cosa sull'argomento, sul professor Meier e sulle relazioni passate. Non voleva sprecare fiato, non se la reazione più spontanea era ancora la stessa: la repulsione.

Sciolse l'abbraccio mollemente, rassegnato. «Tu invece non hai davvero intenzione di scusarti, eh?»

«Richard...» Non era una frase che avrebbe continuato. Non era niente, né una supplica né un'ammonizione.

«Voglio le tue scuse solo quando saranno sincere. Adesso puoi andare» gli disse. E con il capo gli fece cenno di uscire dalla stanza.

Non era ancora giunto il tempo della riunificazione, nonostante tutto.




Poco dopo Richard provò a dormire. Per fortuna il pianto l'aveva benedetto con una certa sonnolenza.

Sdraiato sotto le coperte, ripensava al passato aspettando il momento in cui sarebbe scivolato nel mondo dei sogni. In particolare, ripercorreva le dinamiche dell'incidente all'università per accertarsi di non aver dimenticato altri dettagli. D'ora in avanti li avrebbe serbati più gelosamente, come quell'Engel riemerso all'improvviso.

Engel, Engel, Engel. Sonne aveva visto in lui un angelo.

Aveva davvero salvato la vita a qualcuno. Per cinque anni non vi aveva dato abbastanza peso. Invece su quello lo scrittore aveva ragione: era una responsabilità a cui non si poteva sfuggire. Un atto divino.

Non ci aveva riflettuto in questi termini, soprattutto quando era accaduto, né aveva mai preteso ringraziamenti da parte di Sonne.

All'epoca l'aveva fatto e basta.

Era il marzo dell'87. In quel periodo pioveva quasi tutti i giorni, ad Amburgo, ma il caso aveva voluto che il giorno dell'incendio il cielo non avesse versato nemmeno una goccia. In una delle tante sedi dell'università nel quartiere di Rotherbaum, un'aula studio, una di quelle grandi e divise tra diverse facoltà, era andata a fuoco. Si era parlato di un guasto all'impianto elettrico. La cosa aveva fatto abbastanza scalpore, anche in televisione.

Richard si trovava in quella sede nel primo pomeriggio a perder tempo con altre matricole che aveva conosciuto nel corso dei mesi. Aveva una bella cerchia di amici, che era più una combriccola di persone che andavano e venivano senza costruire legami duraturi e che tuttavia si divertivano parecchio insieme. Grazie a loro, dispersi tra un corso di studio e l'altro, entrava in contatto con i pettegolezzi di mezza università. Gli era stato molto utile per incontrare ragazzi gay o bisessuali, dichiarati e non, che volessero uscire con lui – e con cui, puntualmente, era finita male. Si era chiesto a lungo cosa si dicesse di lui in giro. Era uno studente di Medicina abbastanza atipico.

Aveva sentito parlare di Sonne Rothberger. Sapeva che era il suo nome d'arte (ma ignorava quello vero), sapeva che era un aspirante scrittore (ma ignorava qualsiasi cosa avesse scritto), sapeva che era uno studente brillante, oltre che uno dei tesisti e dei pupilli, forse l'unico, del professor Heinrich Meier, allora Magnifico Rettore dell'università. L'aveva visto per le sedi un paio di volte, sempre da solo e con la testa china su qualche libro.

Il giorno dell'incidente l'edificio venne subito evacuato. I suoi amici erano fuggiti tutti dall'uscita d'emergenza al suono dell'allarme antincendio, così come gran parte degli studenti e del personale. Richard invece era tornato indietro. Era tornato nell'aula in cui aveva lasciato lo zaino, coprendosi bocca e naso con il maglione, perché doveva assolutamente recuperare... cosa? Questo gli sfuggiva. C'era qualcosa nello zaino che a quanto pareva era di vitale importanza e che eppure con il tempo aveva rimosso.

Aveva corso per i corridoi deserti, e aveva avuto la brillante idea di uscire dall'entrata principale piuttosto che da quella di emergenza, perché più vicina. Era stato un incosciente, impulsivo e senza cervello. Era finito nell'ala che andava a fuoco e, disorientato, non aveva saputo più dove andare.

Però aveva visto qualcosa.

La porta dell'aula studio era aperta – qualcuno l'aveva spalancata nel fuggire. Lì dentro, riverso sul pavimento, c'era un corpo. Richard ricordava benissimo che il suo cuore si era fermato. Avrebbe potuto andarsene e abbandonarlo lì. Molte altre persone avrebbero agito in questo modo. Invece lui si era precipitato subito all'interno, come se non avesse nemmeno percepito la portata del pericolo. Si ritrovò, pertanto, nell'aula in fiamme, nella fornace. Faceva così caldo che l'aria era liquida e arancione. Il soffitto era crollato da un lato. C'erano sedie e banchi ribaltati, effetti personali lasciati incustoditi che stavano per essere distrutti... e un corpo. Il corpo di Sonne Rothberger.

Aveva capito presto che era ancora vivo e che aveva soltanto perso i sensi. Ma se fosse rimasto lì sarebbe morto prima dell'arrivo dei vigili del fuoco. Con le poche nozioni che aveva imparato quell'anno gli fece riprendere conoscenza. Si servì anche di qualche schiaffo. Era vivo, e la prima cosa che disse a Richard fu, con uno sguardo offuscato e la faccia madida di sudore: Engel? Lui doveva aver risposto qualcosa come «Non c'è tempo! Alza il culo e muoviti!».

Non avrebbe mai dimenticato il terrore di Sonne. Era ciò che gli era rimasto più impresso. I suoi occhi spalancati che guizzavano intorno come se non stessero nemmeno guardando, ma guardando oltre, oltre la realtà. Era appena tornato nel mondo dei vivi, ma era come se un pezzo di lui fosse rimasto incastrato nell'aldilà e perciò potesse vedere i morti. I suoi arti faticarono a muoversi per via del panico. Richard lo fece alzare comunque e lo sostenne fino all'uscita, con un braccio di lui aggrappato alle spalle.

Lungo il tragitto aveva pensato seriamente che non ce l'avrebbero fatta. Sonne era troppo pesante e Richard aveva preso a tossire in maniera incontrollata. Al suo funerale, ne era convinto, sarebbe stato ricordato come una coraggiosa ma stupida matricola di diciannove anni.

In realtà quel giorno non morì nessuno. Al contrario, se quell'incontro non fosse mai avvenuto, il conto dei deceduti sarebbe salito a uno.

Richard e Sonne crollarono svenuti nell'atrio dell'edificio e furono messi in salvo dai vigili del fuoco appena arrivati.

Vennero portati via sulla stessa ambulanza. Vennero messi nella stessa stanza d'ospedale e vennero rilasciati dopo nemmeno ventiquattro ore. Lì scoprì che il vero nome di Sonne era Stefan Radnitz. Non parlarono molto. Lui si era chiuso a riccio, però ogni tanto, quando si liberava del respiratore artificiale, gli chiedeva come stesse con un'apprensione apparentemente sincera e Richard rispondeva: «Boh. Bene.»

Sonne non lo ringraziò, ma Richard sapeva di aver fatto la cosa giusta.

Suo padre, che nell'87 lavorava proprio in quell'ospedale, all'Hamburg-Eppendorf, gli fece visita due o tre volte con indosso il suo camice lindo. Scambiò qualche parola anche con Sonne. L'ultima visita fu più che altro una predica infinita sul contenuto dello zaino, su cui aveva avuto modo di mettere le mani. Richard lo mandò al diavolo davanti a Sonne.

Suo padre fu l'ultima cosa a cui pensò lucidamente prima di addormentarsi. Il suo sorriso che non era mai un sorriso completo e i capelli brizzolati dal taglio ordinato, il modo in cui neanche le rughe intaccassero il suo volto elegante ma virile. Si aspettava di sognarlo, o di sognarlo all'interno di un edificio in fiamme, ma la sua mente decise di rimescolare le carte per quella notte.






Note d'autrice:

I'm back! Parto subito col dire che Engel significa, ebbene sì, angelo. Consiglio l'ascolto dell'omonima canzone dei Rammstein, in particolare la versione strumentale al piano come atmosfera per questo capitolo. A proposito: se date un'occhiata alla playlist di Nebel mi fate super felice ♥ Poiché non posso mettere il link, la trovate su Spotify cercando Ivana G. Bellamy -> playlist -> NEBEL. C'è tanta roba che amo (potenzialmente spoiler).

Per quanto riguarda le vicende del capitolo, volevo chiedervi essenzialmente se vi aspettavate una dinamica del genere per la backstory di Sonne e Richard. Sono curiosa u.u

Per il resto, preparatevi per il prossimo capitolo perché è... delirante. Davvero.

A presto e buon weekend ♥


Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro