X. Schwarze Träume

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N E B E L

X.

Schwarze Träume



Non incendi, né padri, ma un tavolo rettangolare lunghissimo, dove Richard ora sedeva.

Era come se fosse sempre stato lì, ma non appena decise di guardarsi intorno si disse che in qualche modo doveva pur esserci arrivato con le proprie gambe: una sala da pranzo rustica e spartana, con tutti i mobili in legno, il pavimento impolverato e un caminetto di mattoni in fondo. Poteva sentire il crepitare del fuoco, ma non ne vedeva le fiamme. Era uno dei pochi suoni distinguibili. In lontananza, qualcuno maneggiava utensili da cucina, forse pentole di latta. Ancora più in lontananza, versi cupi di uccelli che non sapeva riconoscere. Oltre a ciò, il silenzio. Dalle finestre si scorgeva una fitta vegetazione di sempreverdi, dalle cui fronde a stento trapelava la luce del sole.

Non era in città, ma in un luogo sperduto nei boschi, una baita o un cottage... con una stanza abnormemente lunga.

Non si fece domande. Gli sembrava piuttosto naturale trovarsi lì, ad aspettare che accadesse qualcosa.

Era seduto a capotavola e accanto a lui era seduta Verena. Non avevano nulla davanti a sé, solo la ruvida superficie del tavolo. Lei doveva aver parlato, perché era girata verso di lui come in attesa di una risposta, ma Richard non aveva ascoltato.

«Cosa?»

«Ho detto: hai fame?»

Lui tamburellò le dita sul tavolo. «Non molta, a dire il vero.»

L'espressione di lei si fece subito più mesta. «Oh. Magari ti vien mangiando.»

L'ultima cosa che Richard avrebbe voluto in quel momento era proprio mangiare, per via di una lieve nausea, ma non lo disse perché aveva l'impressione che sarebbe stato inappropriato.

Quella sensazione gli fece realizzare di essere un ospite, lì dentro – dovunque fosse. Si stupì di non averlo capito prima.

Stranamente, Verena non gli rivolse più la parola, preferendo piombare in un mutismo religioso come se si stesse preparando per un rito. Ci mancava solo che si mettesse a pregare prima del pasto con il capo chino e le mani giunte, o qualcosa del genere.

Richard attese e attese.

Quando stava per perdere la pazienza, quattro persone sbucarono da una porta a cui non aveva prestato attenzione. In fila si avvicinarono al tavolo, poi si disposero in riga alle spalle di Verena, coordinatissimi e a distanza perfetta l'uno dall'altro. Erano vestiti con abiti un po' antiquati, calzoni con bretelle i due maschi e gonne lunghe fino ai piedi le due femmine. Richard non colse i particolari dei loro volti, ma vide che in linea di massima si somigliavano molto, oltre ad avere lo stesso portamento svelto e fiero. O meglio, somigliavano tutti e quattro a Verena. L'ultima ragazza della fila – o forse poteva già essere definita donna, non era chiaro che età avesse – reggeva un pentolone dall'aria pesante, da cui spuntava il manico di un lungo mestolo.

Verena le fece un cenno con la mano per farla avvicinare, allora quella avanzò e posò il pentolone di fronte a lui. Era così alto che Richard, da seduto, non riusciva a vedere cosa contenesse. L'assenza di un odore specifico, poi, non concedeva indizi.

La ragazza non disse niente. Verena, invece, gli sorrise. «L'hanno preparato tutto per te.»

Prima ancora di chiedere cosa, Richard chiese: «In che senso tutto

«Nel senso che devi finirlo tutto, fino all'ultima goccia.»

La parola "goccia" bastò per dargli l'illuminazione, ma Richard volle guardare lo stesso all'interno per averne la conferma. Si scollò un po' dalla sedia, ma senza alzarsi del tutto, e si sporse con la testa oltre il bordo del pentolone. Il mestolo era immerso in un liquido denso e nero, senza increspature, in cui ci si poteva addirittura specchiare.

Ricadde seduto con il cuore che accelerava, costretto a dissimulare un conato di vomito. Non aveva indovinato, non era latte.

«Cos'è 'sta roba?» domandò a Verena.

«Latte.»

Gli venne da ridere dal nervosismo. «No che non è latte.»

«Sì, invece. Non ti fidi?»

Richard sentì il bisogno di guardarsi in giro per cercare vie di fuga. L'unica porta era quella da cui erano comparsi i quattro pseudo-Verena. Gli fischiò un orecchio. Bastava inventarsi una scusa e abbandonare la nave senza generare scompiglio, poco importava se l'allegra famigliola si fosse offesa. Però poi si ricordò: se anche fosse scappato, come si sarebbe orientato in quei boschi sconosciuti, dimora di chissà quali bestie selvatiche? Ammesso che le bestie selvatiche non si trovassero nella sua stessa stanza.

«Come ti stavo dicendo... non ho molta fame» disse intanto, con la bocca arida.

«Mi dispiace, Richard, ma ti tocca.»

«Che significa che mi tocca?»

«Che useremo le maniere forti se opporrai resistenza.»

Non sembrava affatto uno scherzo. «Ma che cazzo...? Non voglio berlo, ok?»

Cercò di alzarsi, ma delle braccia forti lo trattennero per la vita. Richard risucchiò un verso di sorpresa e si voltò verso la persona che gli stava dietro. Non sapeva come, ma adesso era seduto in braccio a Sonne. O era sempre stato lì?

«E tu da dove diavolo sei uscito?»

Il silenzio fu la sua risposta, se lo doveva aspettare.

Richard sentiva che il corpo di Sonne era rigido e massiccio contro la propria schiena. Non l'avrebbe lasciato andare. E lui non sarebbe riuscito a divincolarsi, perché a un certo punto gli arti smisero di obbedirgli, come nei sogni. Fu colto da un'onda di panico, e la sua reazione fu quella di scoppiare a piangere. «N-non voglio b-berlo... non v-voglio...»

Verena allungò un braccio per accarezzargli una spalla, preoccupata. «Non fare così...»

Sonne lo strinse con minor forza, anche perché non si stava ribellando più. Stava soltanto singhiozzando. La stretta parve, improvvisamente, più un abbraccio. Fece voltare Richard sulle proprie gambe e lo tenne come si tengono i neonati, con un braccio dietro le scapole, attento a non fargli reclinare la testa, e in questo modo lui poté nascondere la faccia bagnata di lacrime nell'incavo del suo collo.

Lo fece calmare, attraverso un leggerissimo dondolio e sussurri di parole indistinte. Non seppe quanto tempo fu necessario.

Richard pensava che avrebbero lasciato perdere il latte, alla fine.

Invece, nel vederlo più docile, Verena gli domandò: «Adesso sei pronto?»

Sonne aveva afferrato il mestolo senza che lui se ne fosse accorto. La conca era di piccolo diametro, ma l'aveva riempita di liquido nero fino all'orlo.

«... ti prego, no...» ripeté, con voce strozzata.

«Ti serve per sopravvivere» disse Sonne. L'unica frase che gli rivolse.

Posso decidere di non voler sopravvivere, allora?, avrebbe voluto ribattere, ma in quel momento l'altro gli ficcò il mestolo in bocca. A quanto pareva, la sua sopravvivenza non dipendeva da lui.

Il latte nero sapeva di marcio ed era di consistenza viscida, come melma. Richard riuscì a sputarlo solo in parte. Gli colò lungo il mento, lungo il collo, schizzò sulla maglia di Sonne. Ma lui non si arrese. Immerse nuovamente il mestolo nel pentolone e poi glielo riportò alla bocca. Richard non aveva forze, ma provò lo stesso a muovere il capo a destra e a sinistra per sfuggirgli.

Verena si alzò per intervenire. «Aspetta, lo tengo fermo.» Gli bloccò la testa afferrandola saldamente con entrambe le mani.

Sonne provò a calare di nuovo il mestolo tra le sue labbra, ma Richard le aveva serrate e continuava a protestare con dei mugugni. «Mmmh! Mmmh!» e gli occhi spalancati, pur di non aprire la bocca.

Accadde qualcos'altro, il colpo di grazia. Quello che sembrava il più vecchio tra i quattro individui dietro di loro, porse a Sonne un imbuto d'acciaio. Allora lui abbandonò il mestolo, ma solo per agguantare il nuovo strumento.

«No!», così Richard fece l'errore di creare un varco tra i propri denti, in cui Sonne infilò a forza la parte più stretta dell'imbuto. Se la sentì arrivare fino in gola, insieme al sapore ferruginoso del sangue, perché gli aveva tagliato il palato. Verena lo tenne fermo, come promesso. Lo sconosciuto prese il pentolone per i manici e ne riversò il contenuto nel cono superiore, tutto in una volta sola.

L'ultima cosa che Richard vide fu lo sguardo giudicante ed estremamente deluso di Sonne, mentre gli stava ancora seduto in grembo.




Sorse il sole proprio mentre lo stava baciando.

Così, con un fascio di luce bianca e calda che colpì la finestra, Verena si accorse che la persona che aveva di fronte era Sonne e non Richard, come aveva creduto. Erano rimasti al buio tutto il tempo, nella sua stanza, con ancora la vecchia carta da parati sui muri. Si erano seduti sul bordo del letto e avevano iniziato a baciarsi.

Era Sonne, Sonne alla luce del sole.

Nonostante quella scoperta, Verena non si fermò, anzi, divenne ancor più trepidante. L'inflessibile padrone di casa si stava concedendo a lei, contro ogni aspettativa. Toccarlo, sfiorarlo con le mani e con la bocca, era un bisogno che non ricordava di provare. Poterlo toccare era tutta un'altra storia, un'esplorazione.

Non si fece domande. Stavano proseguendo con una spontaneità che era giusto assecondare.

Sonne la teneva stretta. Le sue labbra intagliate nella carne la graffiavano con l'intento di graffiare, e le altre parti del corpo non erano meno spietate. Il petto, una valle di pietra sotto le dita di Verena. I palmi fermi e callosi. Gli occhi aperti, perché non voleva che scappasse al suo sguardo.

Verena ne bramava sempre di più. La luce li conduceva e suggeriva: andate avanti. Andate avanti. Tutto questo deve succedere. Fate che succeda. Era l'approvazione di un'entità superiore. Li stava spingendo a un amplesso benedetto.

Lui a tratti sembrava distaccato, come se stesse facendo un favore a lei, ma il cavallo dei pantaloni rivelava, al contrario, quanto profondamente fosse coinvolto. Provava a resistere alla vita da tutta la vita, ma all'esistenza di Verena non sapeva opporsi, non fino in fondo. Sonne la voleva più di quanto lei volesse lui, in quel momento, ma teneva a freno l'espressione del suo desiderio perché...

Perché, Sonne?

Lasciati andare. Qui. Nel tuo luogo che è anche un po' il mio luogo.

Non aveva il coraggio di dirglielo ad alta voce. Temeva di rovinare tutto.

Contavano i gesti, però.

Verena s'inginocchiò sul pavimento tra le sue gambe e gli slacciò la cintura. Sonne reclinò un po' la schiena e si sostenne con le braccia sul materasso. La guardò con le labbra socchiuse e il respiro accelerato. Non vedeva l'ora che accadesse, era lampante.

Quando gli ebbe sbottonato anche i pantaloni e scostato i boxer, Verena poté osservare il suo membro. Era duro, dritto e mediamente lungo, con un glande roseo e lucido d'eccitazione. Lo leccò, prima la punta e poi per intero. Se lo fece scivolare in bocca aiutandosi con una mano, a un ritmo che gli piacque. Lo dedusse dal suo fiato spezzato, dai versi sordi che riuscirono a eludere il suo controllo. Né lentamente né velocemente lo portò dopo qualche minuto a un punto di non ritorno.

Sonne, in uno slancio di egoismo, non la avvertì.

Le venne in faccia con un mugugno, stendendo per qualche secondo quella schiena sempre rigida. Verena si ritrovò completamente sporca del suo seme, che le finì anche tra le ciglia e tra i capelli. Gli lanciò un'occhiata di disappunto. Avrebbe voluto concludere in maniera diversa.

Rimasero lì senza dirsi niente, lui seduto sul letto e lei in ginocchio con un dipinto confuso di sperma sul viso, un insieme di segni incomprensibili. La luce era diventata più accecante – forse un modo per comunicare loro che approvava ancora, approvava più che mai.

Verena strizzò le palpebre e notò qualcosa che le fece insinuare uno spillo d'angoscia nel cervello. Dalla punta del pene di Sonne pendeva una goccia nera.

Lui aveva notato che lei lo stava esaminando, ma a differenza sua non mostrò la minima traccia di turbamento.

Allora Verena guardò il pavimento, dove erano cadute altre gocce nere, poco lontano dalle sue ginocchia. Spostò lo sguardo sulla maglietta che indossava, abbassando il mento per vedere meglio. Anche lì macchie umide e nere, eppure luccicanti.

Persino sulla sua mano.

Si tastò istintivamente il volto con il cuore in gola, mentre Sonne le rivolgeva un sorriso obliquo. Raccolse il suo sperma dalla propria pelle con le dita, grattandosi le guance, e infine si guardò i polpastrelli.

Era indubbiamente seme, quella sostanza viscosa. Ma era nero, denso, le si era infilato sotto le unghie e le stava colando sulla faccia.

Sonne tentò di sfiorarle una gota con il pollice, ma Verena scattò all'indietro inorridita.




Nella sua visuale c'erano Richard e Verena, le loro sagome in penombra. Gli sembrarono giocosi, all'inizio, perché gravitavano l'uno verso l'altra come in una danza fanciullesca, e lei rideva.

Sonne non capì subito a cosa fosse dovuta tutta quella gaiezza.

Non riusciva a muovere nemmeno un muscolo e perciò era costretto a guardarli. Era la sua punizione: stare immobile a fissare la loro dirompente vitalità.

Si chiese se si fossero accorti di lui.

Non sapeva che cosa l'avesse paralizzato, lì, in una stanza che forse era una stanza di casa sua e che eppure non aveva mai visto. Non riusciva a piegare né la testa né il corpo – anzi, neanche se lo sentiva, come se gli fosse rimasta solo la coscienza. Poteva soltanto roteare lo sguardo, dall'unica prospettiva che gli era concessa. Chissà cosa c'era dietro di lui, e sopra, e sotto.

All'inizio non si preoccupò. Era curioso di spiare le movenze di Richard e Verena. Nonostante fosse escluso dalla loro dimensione, ammirarli gli infondeva un'oscura sensazione di beatitudine. In loro c'era tutto ciò che a lui mancava.

Era buio, però. I dettagli non erano ben distinguibili. Se ne aggiungevano di nuovi di minuto in minuto, al lento cambiar della luce.

Il primo: erano nudi. Non danzavano più, camminavano avanti e indietro, e il tutto iniziò a sembrare un curioso rito tribale piuttosto che un innocente gioco tra ragazzini. No, no, di innocente non c'era un bel niente. Nemmeno il modo in cui, a intervalli, si sfioravano la pancia, sazi o troppo poco sazi.

Il secondo: avevano la bocca e il petto sporchi di un liquido scuro. Si era seccato o era ancora fresco? Sonne pensò immediatamente che fosse sangue.

Cominciò ad agitarsi.

Cercò di muoversi, con uno sforzo mentale disumano, ma non ottenne alcun risultato, se non un principio di mal di testa sotto forma di una pulsazione delirante tra le tempie. All'improvviso desiderò con tutto se stesso che Richard e Verena non lo notassero, in quell'angolo della stanza.

La sua inquietudine crebbe insieme alla loro frenesia. Si diffuse nell'ambiente un puzzo di putrefazione, quasi stesse salendo direttamente dal centro della terra. Verena lo ignorò, anzi, vi ci sguazzò. Si avvicinò ancora di più a Richard, per accarezzargli una guancia, un braccio. Lui in realtà sembrava nervoso. Sonne non poteva dargli torto: lei diventava sempre più spaventosa, assorbiva sempre più tutto ciò che c'era intorno, rubando la materia per espandersi. Richard, invece, si contraeva e si rimpiccioliva – stava sottraendo l'energia anche a lui, e lui gliela stava cedendo senza saperlo.

Sonne avrebbe dovuto dirgli di fare attenzione. Di scappare. Se da immobile poteva almeno proteggere quella splendida parte di lui dalla fame di Verena...

La fame, proprio così! Ecco il perché del sangue sulle labbra, sul mento, sullo sterno. Anche i palmi erano sudici. Aveva sbranato qualcuno. E aveva convinto Richard a cibarsi dello stesso pasto, contro la sua volontà (era quasi scontato, questo, perché gli era impossibile credere che lui avesse acconsentito di buon grado).

Richard, provò a chiamarlo, ma dalla bocca non uscì alcun suono. Gli si riempì soltanto d'aria.

Loro si voltarono di scatto verso di lui come se avesse parlato davvero. Si fermarono, Verena con le dita intorno al polso di Richard.

Qualche istante di silenzio.

«Vai a prendere la benzina» gli sussurrò lei, poi.

L'altro esitò. «Ne sei sicura? Non possiamo lasciarlo lì e basta?»

«No. Prima ce ne sbarazziamo, meglio è.»

«Va bene...», ma pareva terrorizzato, aveva preso a tremare. «Dov'è?»

«Nel mobiletto sotto il lavandino, in mezzo ai detersivi.»

No! Non toccatela! È mia...

Era sua, certo, e Verena voleva utilizzarla per dargli fuoco. Strinse i denti e tentò ancora una volta di muovere le gambe per fuggire, ma non accadde nulla. Richard uscì dalla stanza e Sonne rimase da solo con lei.

Verena gli si avvicinò in fretta. Non rideva più, ma la sua espressione era incredibilmente entusiasta, oltre che determinata.

Sonne avrebbe dovuto avere il mal di pancia, il cuore accelerato per la paura. Invece il sentimento rimase cerebrale senza somatizzarsi, e per questo fu ancora più terribile.

Verena si piegò con le mani sulle ginocchia e lo guardò dall'alto, come se lui fosse all'altezza del suo bacino. Ed era così: per la prima volta era lui ad essere più in basso di lei, a dover alzare lo sguardo, per quanto gli era possibile.

In un primo momento pensò davvero che lei fosse diventata un corpo enorme, poi realizzò che probabilmente era lui ad essere seduto a terra. Ma continuava a non sentire niente. Aveva percezione solo della propria testa – l'unica parte di sé che non odiava e che aveva sempre prevalso su tutte le altre, sede di ogni idea e ogni ricordo.

Guardò meglio Verena. Guardò il sangue che le macchiava ancora i denti, perché lei non osava passarvi la lingua per pulirli. Sul petto le era precipitato a cascata. Chi aveva mangiato, a quale banchetto? Aveva i capelli spettinati e la pelle sudata, che emanava un odore acre. Ricambiava il suo sguardo con fierezza per intimidirlo.

Ancora nessun brivido e nessun riflesso viscerale.

Sonne capì troppo tardi.

Non sentiva nulla perché di lui era rimasta soltanto la testa.

Era una testa. Era appoggiato da qualche parte, con i muscoli del collo sbrindellati e una pozza di grumi di sangue alla base. Poteva soltanto guardare e pensare, pensare, pensare fino a morire. Verena avrebbe potuto spostarlo con facilità tenendolo sottobraccio, al pari di Salomè con la testa di Giovanni Battista.

Non osò domandarsi dove fosse finito il resto del corpo.

Una lama di luce piombò all'improvviso dalla finestra e le illuminò la faccia, tagliandola in due in diagonale: la fronte e gli occhi all'ombra, il naso e la bocca esposti al chiarore. Solo così Sonne poté scoprire che il sangue che la imbrattava non era rosso, bensì nero. Come se avesse morso una spugna piena d'inchiostro.

Avvertì la necessità di pregare Dio per la prima volta in vita sua.

Quando Richard riapparve con la benzina, concitato, Verena gli disse qualcosa che Sonne non comprese.

Poi tornò a voltarsi verso di lui. Si piegò sulle gambe, per stargli perfettamente di fronte. «Com'è che mi dicesti?» gli chiese, con tono dolce. «"Non ci sarà una seconda volta". O era "non ci sarà una seconda vita"?»

Dava l'impressione di un saluto. Sonne pensò che non potesse capitargli carnefice più crudele.



*



Si svegliò con la consapevolezza che quella frase l'avrebbe perseguitato per sempre. Era tutto sommato una verità banale, ma pronunciata da Verena si era d'un tratto ammantata di una nuova accezione. Doveva sapere che appena si riemerge da un sogno il linguaggio rimescola segni, significati e referenti.

Non ci sarà una seconda vita.

Sonne si tirò a sedere sul letto, affannato e con il pigiama intriso di sudore freddo. Si passò le mani sul volto, felice di avere ancora delle mani. Braccia e gambe, però, gli formicolavano: erano i postumi fisici di un incubo tanto assurdo quanto vivido.

Non riuscì a scrollarsi di dosso quel senso soverchiante di orrore. Da un lato era convinto di stare ancora sognando.

Aveva bisogno di prove.

La sua priorità fu andare a verificare che la benzina fosse rimasta al solito posto. Si precipitò in bagno senza infilare le pantofole, con i piedi che gli pizzicavano e dolevano di un dolore fantasma. Accese la luce, strizzò gli occhi per abituarvisi, spalancò le ante del mobiletto sotto il lavandino e cercò a tentoni la bottiglia giusta, mentre il cuore e la testa pulsavano alla stessa velocità.

Era lì. La afferrò e se la strinse al petto con un moto di sollievo, abbandonandosi a un lungo sospiro. Tuttavia, l'angoscia non si dissolse.

Tornò in camera senza neanche rendersi conto di aver portato la benzina con sé. Teneva la bottiglia per il manico come se stesse tenendo la mano di un bambino. Non la lasciò, non voleva lasciarla. Era un appiglio alla realtà, adesso.

Rimase in piedi in mezzo alla stanza, intontito, per qualche minuto. Temeva di tornare a dormire, ma temeva anche di restare sveglio.

Sentì un grido. Gli si rizzarono i peli delle braccia, ma uscì comunque in salotto per controllare. Era tremendo lasciarsi guidare né dalla mente né dal corpo, ma da un sentimento tiranno come la paura. Non era abbastanza lucido per contrastarla.

La porta di Verena era socchiusa. L'urlo era stato il suo. Lei che nel sogno l'aveva divorato ora chiedeva il suo aiuto – sempre che non fosse una trappola, e se lo era Sonne avrebbe dovuto fare i conti con l'idea di essere divorato di nuovo e di veder l'incubo ripetersi per intero.

Vacillò dalla paura, e nonostante ciò trovò comunque il coraggio di entrare nella sua stanza. S'insediò cautamente, senza nemmeno far cigolare la porta. Era buio e solo le luci blande provenienti dalla strada lo aiutarono a orientarsi.

Verena si era alzata a sedere sul materasso con le braccia tese, respirando a fatica. Restò in quella posizione per diversi lunghi istanti, e così Sonne, che nell'ombra fissava la sua figura. Guardare senza alcun fine, guardare e basta, come all'inizio del sogno di quella notte. Immobile. Non c'era neanche bisogno di capire che cosa stesse vedendo. Interpretare era, in quel momento, un atto troppo faticoso, persino irrilevante.

Verena non si era accorta di lui, divisa tra sonno e veglia. Ricadde sul cuscino quando il respiro le tornò più o meno regolare.

Sembrava che stesse per riaddormentarsi, ma poi si sollevò di nuovo su un gomito e Sonne poté giurare che adesso anche lei lo stesse fissando.

Non l'aveva visto, ma percepiva la sua presenza. A stento distingueva i suoi contorni, eppure era come se lo stesse guardando negli occhi, come se il buio fosse solo un altro tipo di luce che permetteva un altro tipo di lettura della realtà. Non era importante che Sonne ci fosse davvero o meno, lì, Verena lo sentiva. E non ne era spaventata.

«Sei tornato?»

Sonne non rispose, perché era sicuro che non si stesse riferendo a lui. La domanda era rivolta a qualcuno di cui sentiva la mancanza e che attendeva da tanto tempo. Strinse la bottiglia che conteneva la benzina e, per un attimo, pensò di rovesciargliela addosso, e poi di rubare l'accendino a Richard. Da aguzzina, così, sarebbe diventata vittima. Non si sarebbe più impadronita del suo mondo e della sua mente.

Continuarono a fissarsi, e prima o poi uno dei due avrebbe ceduto facendo qualcosa di sconsiderato. A Sonne cominciarono a tremare le ginocchia, ma non si mosse. Lo spazio tra loro due divenne più solido, un corpo estraneo. A forza di guardare avrebbe perso la vista, perché i bulbi oculari gli si sarebbero fusi nelle orbite dalla stanchezza.

Dopo chissà quanto tempo, Verena si stese e si rimise a dormire.

Una parte di Sonne avrebbe voluto rimanere lì, avrebbe anche voluto avvicinarsi, ma la più ragionevole, improvvisamente desta, lo spinse ad allontanarsi dalla stanza.

In salotto gli sembrò di ritrovare se stesso, con i piedi ben piantati sulla Terra. Accese una lampada, le ultime tracce oniriche si estinsero, insieme alla paura.

Richard uscì in quel momento da camera sua, con la faccia cinerea e i capelli arruffati. Sobbalzò nel vedere Sonne, e si ritrasse anche in modo strano. «C-che ci fai sveglio? Pensavo di essere io, quello nottambulo.»

«A volte capita anche a me, Richard.»

Lui lo osservò un po' stralunato, soffermandosi prima sul pigiama sudato, poi sui piedi scalzi e sulla bottiglia di detersivo che trascinava con sé. Forse avrebbe voluto domandargli a che cosa gli servisse, ma poi si astenne con un «Vabbè, buonanotte allora» biascicato velocemente.

Memore della turbolenta conversazione avuta in tarda serata, Sonne non aggiunse altro. Non fece nemmeno commenti sul fatto che stesse andando a dormire in camera di Verena. Era ancora a disagio per non aver avuto la forza di scusarsi, e in imbarazzo perché non riusciva più a pensare a Richard allo stesso modo.

Lo vide sparire dietro la sua porta, che stavolta venne chiusa a chiave.

Sonne si stupì di quanto poco Richard avesse paura di lei. Si ricordò anche che nel sogno, per compiacerla, aveva scelto di non salvargli la vita una seconda volta.






Note d'autrice:

Salve! Sarò breve, perché non so bene come commentare questo capitolo senza dire qualcosa di spoileroso... Di sicuro spero che vi sia piaciuto, che vi abbia messo almeno un pochino di angoscia (a fin di bene u.u) e che vi abbia dato modo di riflettere di più sui personaggi e sul loro rapporto ♥ È la prima volta che sperimento più di due punti di vista in uno stesso capitolo qui su Wattpad.

Il titolo, Schwarze Träume, significa sogni neri

Piccola comunicazione di servizio per quanto riguarda il prossimo aggiornamento: mi sono accorta che i prossimi giovedì sono rispettivamente il 24 e il 31 dicembre e preferirei non dover aggiornare nei giorni festivi, per cui rimando i capitoli 11 e 12 a domenica 27 dicembre e domenica 3 gennaio. Anche perché mi serve un po' più di tempo per scriverli.

Ne approfitto per augurare buone feste a voi e alle vostre famiglie ♥

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