XI. Freiheit

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N E B E L

XI.

Freiheit



Nelle settimane successive, l'affinità tra lei e Richard crebbe rigogliosa.

La naturalezza con cui si capivano spesso la sbalordiva. Aggiunsero presto nuove parole al loro lessico privato, nuovi gesti familiari, si raccontarono con precisione aspetti di sé che non avevano mai pensato di riuscire a spiegare a qualcun altro.

Richard si mise a nudo prima di lei.

Fu più spontaneo che mai. Le raccontò di suo padre, dei suoi amici, di tutto ciò che apprezzava o detestava di Amburgo, dei suoi sogni e dei suoi incubi. Le raccontò di Sonne e dell'incendio all'università, e fu quella rivelazione a farle pensare per la prima volta: mi sto innamorando di lui. Non era qualcosa che riusciva a discernere bene, non ancora, ma doveva essere simile all'amore se la sua reazione alla notizia che aveva salvato la vita a qualcuno, a Sonne, era stata quella di mettersi a piangere dalla commozione.

Richard le aveva sfiorato una spalla, allarmato, credendo di aver detto qualcosa di sbagliato. «Cosa c'è?»

«È che...» aveva provato a dire lei nell'asciugarsi le guance con il dorso della mano. «È che sei una persona così bella, Richard.»

E Sonne non sarebbe qui se non fosse stato per te. La consapevolezza che più la toccava nel profondo. Lui che adesso ha il terrore del fuoco e lo rifugge in tutti i modi possibili.

Richard si era stupito, a quelle parole. «Io... io ho solo...»

«No. Lascia che te lo dica. Sei molto più di quanto credi.»

Lui l'aveva abbracciata e l'aveva stretta a sé quasi trattenendo il respiro. Verena aveva capito che nessuno gli aveva mai detto nulla del genere. Erano seduti sul letto, era un pomeriggio freddo d'ottobre. Avevano finito con il fare sesso per la seconda volta, quel giorno. Richard non aveva smesso un secondo di baciarla – trovava sempre un punto nuovo della sua pelle da baciare.

Erano molto bravi a parlare con il corpo. Ciò che la voce non diceva veniva espresso in quei momenti di unione straordinaria. Era il loro modo di essere liberi, di liberarsi e glorificare la vita. Un inno ma anche un conforto, un porto sicuro di gioia.

La carne aveva bisogno di essere amata.

Lo facevano di frequente, pressoché tutti i giorni. Anche quando Verena aveva avuto le mestruazioni Richard non si era tirato indietro, perché era pronto a sperimentare e trarre del bene da tutto ciò che la vita gli poneva di fronte, persino il sangue che stilla tra le gambe di una ragazza: solo un'altra via attraverso cui la vita stessa si manifesta, e c'era chi narrava fosse qualcosa di cui vergognarsi.

Il loro luogo preferito era la stanza di Verena, forse perché era il più protetto. Le rare volte in cui Sonne usciva approfittavano volentieri anche del resto della casa.

«Immagina farlo in camera sua... Prima o poi dobbiamo scassinargli la porta» le aveva detto Richard dopo un rapporto particolarmente intenso in salotto, rivestendosi di corsa perché il proprietario sarebbe tornato a momenti.

Verena, nuda e languida sulla poltrona, l'aveva presa con più calma. «Ti piace proprio il brivido del pericolo, eh?»

«Oh sì, adrenalina pura.»

Non si trattava di quello, in realtà, e lei lo sapeva bene. Da quando Richard aveva dichiarato la propria bisessualità, Sonne lo trattava in modo diverso, di gran lunga più distaccato. Ed era tutto dire, per una persona fredda già per indole. Per riflesso, aveva esteso questo distacco anche a Verena: anche lui cominciava a considerarli come un'unica entità. In ogni caso un corpo estraneo, siamese, da sopportare. E li soffriva in silenzio, senza nemmeno fare commenti su quella loro frenesia sessuale esposta agli occhi dell'intera casa.

Sonne era lì con loro, sempre, eppure a stento si rivolgevano la parola.

Richard ne era ferito. Era così palese, a volte, che a Verena si stringeva il cuore. La sua risposta emotiva era un astio che pretendeva di nascondere sotto strati e strati di indifferenza. Ma non era mai davvero indifferente. Faceva riferimenti a Sonne in continuazione, criticandolo o prendendolo in giro. Talvolta provava ad attirare la sua attenzione in maniera un po' ingenua, ad esempio menzionando in sua presenza cose che andavano contro le regole da lui imposte, e Sonne comunque non cedeva mai facilmente.

Per Verena era frustrante stare a osservare quella dinamica senza poter fare nulla. Una parte di lei credeva che il loro legame non potesse essere reciso, che stava aspettando solo il momento giusto per germogliare di nuovo. Però si diceva anche che doveva essere da folli nutrire speranze con una persona chiusa come Sonne.

Richard non aveva colpe, non toccava a lui insistere. Stava solo aspettando che Sonne si scusasse. Senza quel passo non avrebbero ricostruito niente e nella mente di Richard ci sarebbe sempre stata una zona d'ombra nonostante la felicità.

Verena attendeva. Aveva bisogno anche della loro armonia per stare bene. Voleva che Richard fosse sereno, voleva che Sonne non li ignorasse. Il più delle volte le mancava il suo sguardo. Adesso che aveva finalmente imparato a camminare in quella casa, ad alzare la testa, lui si ostinava a non guardarla.

Entrambi erano turbati dal suo comportamento, mentre Sonne era turbato dalla loro esuberanza vitale.

C'era anche un'altra cosa, una cosa che la faceva sentire terribilmente in colpa. Se da un lato Richard le aveva permesso di conoscere ogni minima parte di sé, Verena non gli aveva fatto lo stesso dono. Avevano stretto un patto silenzioso e lei non lo stava rispettando: non nascondere nulla l'uno all'altra. Mostrarsi sempre nella propria interezza. Ma Verena aveva troppi segreti.

Non aveva mai mentito, almeno. Gli aveva raccontato numerosi aneddoti sulla sua famiglia: la passione per le armi di Günther, l'austera maternità di Ingeborg, la collezione di farfalle di Erich, la pigrizia di Christa, e anche la scomparsa di suo padre – perché quella era una cosa che non poteva essere tralasciata. Non gli aveva detto, però, che non era mai andata a scuola, che il padre li aveva educati tra le mura domestiche. Non gli aveva detto che non stava davvero frequentando l'Accademia. Non gli aveva detto... ciò che aveva fatto ai suoi fratelli.

Forse Richard, in fondo, sapeva che non avrebbe potuto conoscere tutto di lei. E lo accettava. Accettava la Verena del presente perché quella del passato per lui non era nessuno, non era lì. E un po' lo inquietava. Lei notava le sue espressioni sbigottite quando gli parlava della casa nella Foresta Nera, una dimensione così distante dalla realtà urbana in cui era cresciuto. A volte addirittura la interrompeva con commenti che avevano lo scopo di sdrammatizzare o cambiare argomento.

Sembrava tanto che avesse paura di ascoltare certi racconti, come se cogliesse lo stesso i multipli livelli di violenza che Verena aveva cercato di omettere.

Richard era totalmente focalizzato sul presente. Quando si trattava di parlare dei loro sé di adesso era sempre entusiasta e non aveva filtri.

Un altro pomeriggio di ottobre erano insieme nella vasca da bagno, riempita fino all'orlo di acqua e schiuma. Verena era stesa tra le gambe di Richard, appoggiata di schiena al suo petto. Lui le sfiorava il lobo dell'orecchio con le labbra e le scostava di tanto in tanto i capelli che, seppur legati in una crocchia alta, gli finivano sul viso. Le sussurrò quello che avrebbe voluto farle, e poi lo fece. Una mano tra le sue cosce, l'altra ad afferrarle il seno scivoloso, dei morsi dolci sul collo. Sapeva già bene quali fossero i suoi punti più sensibili. Conosceva già bene il modo in cui inarcava la schiena quando veniva, come se qualcosa dovesse fuoriuscire con un balzo dal centro del suo petto. A quell'esatto, brusco movimento l'acqua straripò in parte dalla vasca.

Dopo parlarono a lungo, sebbene la pelle si stesse raggrinzendo, a mollo.

«La vasca è approvata, allora» disse Verena sorridendo, mentre giocherellava con le dita di Richard, affascinata dalla loro forma allungata e ossuta.

«Io l'ho detto che bisognava testarla.»

«Tu testeresti qualsiasi cosa.»

«Tu no?»

«È un modo per approfondire i miei gusti sessuali, per caso?»

Richard ridacchiò. «Se la vuoi mettere così... sono curioso.»

Verena ci rifletté seriamente. «Uhm... sì. Credo che proverei quasi tutto.»

«Anche cose più estreme?»

«Dipende. Mi piacerebbe più esplorare senza coinvolgere il dolore fisico, ma potrei anche fare un tentativo per capire se fa per me o meno.»

«Ok... e faresti anche sesso con una donna?»

«Certo.»

«E con più persone contemporaneamente?»

«Sì.»

«Dio, Reni...» aveva sospirato Richard, in un nuovo malcelato tipo d'estasi, di adorazione. Era la prima volta che la chiamava Reni. «Se non esistessi dovrebbero inventarti.»

Lì la loro intesa fu più esplicita che mai, ed era anch'essa qualcosa per cui commuoversi. Non solo stavano imparando a provare dell'affetto mutuo e sincero, ma avevano anche una visione della vita e delle relazioni identica. Era una fortuna, essersi trovati, o persino una grazia concessa da una volontà superiore.

Verena gli baciò le dita una a una, lentamente. Poi risalì con le labbra fino al polso, dove si sente più caparbio il cuore battere, e poi ancora su, lambendo uno dei suoi tre tatuaggi, nel punto in cui l'ago aveva inciso nella pelle un disegno stilizzato di una rondine in picchiata. Baciò anche quello e dopo lo osservò meglio. Era piccolo, con il becco e le ali molto appuntite, e tutto nero, anche se l'inchiostro aveva iniziato a scolorirsi.

«È stato il primo che ho fatto» commentò Richard con una certa fierezza. «Ed è anche quello che mi piace di più. Poi ne voglio fare anche altri, ho una serie infinita di idee che non ti sto nemmeno a dire.»

«Fa male?» chiese lei, passando l'indice sulla figura per seguirne i contorni.

«Sopportabile, se hai una soglia del dolore normale e non sei un cagasotto. Però secondo me ne vale la pena.»

«E quanto costano?»

«Dipende dall'artista, dalle dimensioni, dalla zona... meglio spendere un pochino in più per avere le cose fatte bene, però. Questo ad esempio lo pagai...», ma si interruppe. «In realtà non mi ricordo, di preciso.»

Verena indugiò con le dita anche su gli altri due tatuaggi poco distanti: un triangolo vuoto vicino la piega del gomito e un anemone nella parte interna del braccio, indubbiamente di più difficile interpretazione per un osservatore esterno. «Perché hai scelto proprio questi disegni?»

«Beh, io... uhm...»

Si aspettava una risposta dettagliata, magari qualche episodio significativo legato a ciascun tatuaggio. Ma Richard non riuscì ad articolare nulla, se non un balbettio iniziale d'esitazione. Per un attimo Verena temette che non glielo volesse dire, che la domanda fosse stata troppo intima anche per la loro intimità.

Contorse un po' il collo per voltarsi a guardarlo in faccia, perché era piombato nel silenzio. Il che non era da lui.

Era come se si fosse assentato. Gli occhi si erano fatti improvvisamente vuoti, la bocca schiusa per pronunciare qualcosa che non riusciva a pronunciare, i gomiti immobilizzati sul bordo della vasca come sui braccioli di una poltrona.

Pareva stesse attendendo, rintanato nella propria testa, che i ricordi giusti abboccassero all'amo che aveva loro lanciato, da pescatore alle prime armi, costretto alla pazienza.

Trascorsero diversi secondi.

«Richard?»

Lui tornò dal molo della propria memoria apparentemente mortificato. «Ti sembrerà assurdo, ma... sai che non me lo ricordo?»

Verena corrugò la fronte. «Forse non era così importante?»

«No! Lo era eccome, cazzo. Come ho fatto a scordarlo?»

Cercò di rassicurarlo e di rassicurare anche se stessa. «Guarda che le cose possono cambiare significato, nel tempo. Adesso che significato gli daresti? Adesso è ciò che conta.»

Richard scosse la testa. L'assenza di quel ricordo l'aveva fatto agitare. «Non lo so» farfugliò, deciso a non rifletterci più, per il momento. Provò ad alzarsi dalla vasca, così Verena non lo trattenne oltre e si spostò per farlo uscire.




Una sera gli propose di andare a ballare.

Era qualcosa che Verena non aveva mai fatto, scatenarsi in discoteca e divertirsi senza pretese come una persona qualsiasi. Moriva dalla voglia di scoprire come la gente usasse il proprio corpo in luoghi tanto affollati, in sinergia più o meno volontaria con gli altri.

Aveva anche comprato un nuovo completo per l'occasione: dei pantaloni neri attillati e un corpetto altrettanto nero con le bretelle finissime che le lasciava nuda una striscia di pelle sulla pancia. Non le dispiaceva affatto cercare una nuova immagine di sé, per quanto preferisse di gran lunga gli abiti pratici da indossare tutti i giorni. Non si truccò, però. Dopo le uniche due o tre volte in cui ci aveva provato, fallendo miseramente, aveva capito che non faceva per lei. In casa sua nemmeno Ingeborg e Christa si erano mai truccate.

Il proprio viso le piaceva così, fresco e visibile in ogni imperfezione. Non aveva mai ascoltato i giudizi sul naso, in particolare, a goccia e un po' adunco. Le piaceva perché le conferiva un profilo singolare, elegante e caotico allo stesso tempo. Amava ogni parte di sé, onorava ogni parte di sé. Era grata a quel corpo che sprizzava salute da tutti i pori perché era la sua vera dimora, la sola che in vita non avrebbe mai potuto abbandonare. Il suo compito era curarlo, proteggerlo ed esplorare tutte le possibilità che le concedeva. Il corpo aveva i suoi modi per ringraziarla: era un rapporto reciproco, inscindibile.

Dopo essersi vestita si convinse a pettinare i capelli con meno ritrosia del solito.

Richard entrò nella sua stanza proprio quando ebbe finito. Seduta sul materasso, Verena rimase folgorata dal suo aspetto.

Lui fece una piroetta rapida e poi si mise in posa con le mani sui fianchi davanti a lei. «Che te ne pare?»

«Wow.» Era la replica più onesta che gli potesse dare.

«Lo so, lo so» gongolò Richard. «Avevo voglia di attirare l'attenzione e sconvolgere qualcuno, stasera.»

Verena era certa che ci sarebbe riuscito. Indossava i suoi classici pantaloni di pelle, degli anfibi nuovi, alti fino al polpaccio, e una blusa bianca semitrasparente con le maniche a campana e uno scollo vertiginoso sul petto, dove i lembi erano tenuti insieme soltanto da un laccio sottile. Aveva lo smalto sulle unghie, una serie di collanine con e senza ciondoli e per orecchini dei pendenti a forma di croce. Ma il volto era ciò che più la colpiva: i capelli pieni di gel, tutti pettinati all'indietro, una polvere glitterata sugli zigomi e l'ombretto nero sugli occhi.

Era tremendamente accattivante. La sua pelle era più eterea che mai, le iridi spiccavano come due fari che puntavano nella sua direzione.

«Stai benissimo. Davvero.»

Anche quello di Richard era un modo per onorare il proprio corpo ed esprimere il lato di sé che alla società più stava scomodo. Aveva, ancora, a che fare con la libertà. E lui la indossava magnificamente.

Si avvicinò al letto e si abbassò a baciarla, le catenine oscillarono sulle sue clavicole. «Tu sei pronta? Sono già le dieci.»

«Mmh-mh. Prendo solo il cappotto.»

«Peccato per il freddo, dovrebbero guardarci tutti.»

Lei rise, passandosi un'ultima volta le dita tra i capelli per districarli, sempre folti ma ora decisamente più lisci. «Tranquillo, non diventiamo invisibili.» Si alzò in piedi. «Il capo non ti ha fatto problemi per la giornata libera, allora?»

«No. Ho lavorato sodo finora, diamine, me la meritavo.»

Uscirono in salotto per recuperare i cappotti dall'attaccapanni, e vi trovarono Sonne che stava uscendo in quello stesso momento da camera sua.

Richard sembrò illuminarsi ancor di più di luce propria. Fece un sorrisetto soddisfatto senza guardarlo, felice di essere stato visto dal padrone di casa. Verena capì. Il suo mettersi in mostra era innanzitutto una provocazione nei suoi confronti. Il primo che intendeva sconvolgere era proprio lui.

Non lo salutarono.

Sonne si era bloccato nel bel mezzo della stanza e li stava fissando con una vena evidente di stupore sul volto. Si soffermò molto più su di Richard, come se volesse chiedergli: dove stai andando? Ma restò una domanda sottaciuta, di cui Verena percepì ugualmente le intenzioni. Non era scherno e nemmeno un rimprovero, bensì un curioso impulso di protezione. Dove stai andando? Non andare, ti prego, poteva essere la frase completa, che lui non avrebbe mai pronunciato. Verena non sapeva se Sonne avesse la capacità di pregare. Tuttavia, il desiderio che loro non si allontanassero da lì, da lui, quella sera, infestò l'aria occupando nel giro di pochi secondi l'intero appartamento. Nessun segno di repulsione, anzi, l'esatto contrario.

Verena si chiese perché Sonne provasse all'improvviso quel desiderio così grande da essere diventato materiale.

Una parte di lei, forse la mente, avrebbe voluto rimanere.

Ma il resto di sé, ogni altro pezzo, era con Richard. Lui, entrambi i cappotti sottobraccio, la prese per mano e la condusse alla porta. Sfacciatamente aggiunse ad alta voce: «Se stasera rimorchiamo qualcuno ce lo portiamo a letto, vero?»




Più di ogni altra cosa, amò le luci e come esse disegnarono linee e forme rare sulle persone che danzavano, mettendo in risalto nuovi aspetti del loro muoversi e anche del loro essere. Verena s'incantava a guardarle. Nessuno era nessuno, in quel locale. Ogni identità era saltata per lasciare spazio alla sola, pura ed essenziale energia.

Anche lei e Richard conquistarono numerose occhiate. A un certo punto finirono al centro della pista, allora essere guardati divenne inevitabile.

Li fece sentire bene. Esibire la propria vita e il proprio corpo. Le venne la pelle d'oca quando si rese conto che la vita umana necessitava di testimoni per essere riconosciuta, legittimata, ricordata. Di occhi al di fuori dell'individuo. Verena e Richard vi si donarono volentieri, perché provavano, nel subire uno sguardo, un moto di esaltazione. Più il mondo li guardava più erano vivi. Si trattava di un doppio vincolo: a loro il potere di scatenare la curiosità altrui, agli altri quello di dare loro l'attenzione che bramavano. Non era chiaro chi fosse il soggetto e chi l'oggetto.

Non erano mai stati, lì a Brema, in mezzo a così tanta gente.

Un pubblico vasto ma anonimo con cui non riuscirono a interagire davvero se non attraverso lo sguardo.

Alla fine della serata, Verena rifletté che nonostante tutto Richard e Sonne erano ancora le uniche due persone che avesse conosciuto in quella città. A volte le sembravano destinati ad essere le uniche due persone che avrebbe mai conosciuto.

Aveva anche provato a coinvolgere qualcun altro, ballando, ma chiunque intorno a loro aveva pensato che lei e Richard stessero insieme e perciò aveva evitato di avvicinarsi troppo. Un po' era dovuto anche a loro due, perché non si erano quasi mai tolti le mani di dosso. Era il loro primo ballo, del resto, ed entrambi avevano ricercato inconsapevolmente una certa esclusività al di là dei piani. Era un peccato secondo lei, comunque, che la gente non si azzardasse a concepire l'esistenza di altri tipi di relazioni, che non ammettesse l'esplorazione, che desse il possesso dell'altro per scontato.

Uscirono dalla discoteca verso le tre del mattino.

Richard allontanò bruscamente l'unico che gli si accostò fuori al locale per vendergli dell'erba.

«A me un po' andava» gli confessò Verena, camminando con lui sottobraccio sulla strada del ritorno.

Richard inarcò le sopracciglia. «Non puoi mai sapere che roba ti rifilano in questi posti.»

Lo trovò strano, non credeva che si facesse certi scrupoli.

Avevano più di tre chilometri da percorrere davanti a sé. Avrebbero potuto chiamare un taxi, ma preferirono lasciarsi scivolare nel ventre della città di notte. Regnava il silenzio, o meglio li cullava, estraneo ma ben gradito dopo ore in cui i loro timpani erano stati pungolati dai bassi del locale. Verena si sfregò più volte le orecchie, perché ogni tanto sopraggiungeva un fischio acuto a disturbarla.

Se lei era stanca, Richard non aveva ancora esaurito le energie. Aveva caldo e non si era rimesso il cappotto. Canticchiava a ripetizione il ritornello di Like a Prayer, che avevano ascoltato poco prima e che, come Verena aveva intuito, non era altro che una metafora un po' blasfema per il sesso orale. Lo stava facendo apposta o forse no, e in entrambi i casi la cosa la faceva sorridere. Le ricordava, anche, quanto pregare fosse a tutti gli effetti un atto intimo e seducente, che spesso le mancava.

Un tempo Dio chiamava davvero il suo nome, come diceva la canzone. Verena non capiva molto bene l'inglese, ma quella parte per lei era stata subito lampante.

Non fu l'unica ad assistere al canto libero di Richard, quella notte.

Nel vagare per tornare a casa, tra i palazzi colorati di due o tre piani attaccati l'uno all'altro e le luci gialle dei lampioni, s'imbatterono in un gruppetto di quattro uomini raccolto sui gradini antistanti a un negozio di elettrodomestici.

Fissarono Richard e Verena sin da lontano. Li avevano puntati. Lei cercò di non badarvi, ma non poté reprimere il brivido che le partì dalla nuca. Lo sapeva che erano pericolosi, gli uomini capaci di guardare così, con uno sguardo già di per sé violento e privo di ogni fascinazione.

Si disse, per tranquillizzarsi, che almeno non sembravano ubriachi. Richard smise subito di cantare, sfiorato dalla sua stessa tensione.

Li sentirono ridere mentre passarono loro davanti sul marciapiede.

«Ecco un altro frocio» disse uno di essi ad alta voce. «Sbaglio o ultimamente si sono moltiplicati?»

«Questa città avrebbe proprio bisogno di una ripulita» commentò quello a fianco a lui. «Tra turchi, zingari, froci ed ebrei ci sarebbe da divertirsi.»

Verena vide Richard contrarre la mascella. Avrebbe voluto sussurrargli di lasciarli perdere, ma la rabbia e la paura, contaminate, le avevano fatto serrare le labbra. Non c'erano mai parole abbastanza adatte per rispondere all'odio.

Evitarono di guardarli. Accelerarono il passo.

Non erano ubriachi, ma molto peggio.

«E tu che ne pensi, frocio? Ci interessa il tuo parere» gridò il primo in direzione di Richard.

Loro continuarono a camminare.

Fecero per attraversare sui binari del tram, ma quello si alzò e li raggiunse rapidamente. Strattonò Richard per un braccio, strappandolo a Verena. «Sto parlando con te!»

Richard lo guardò negli occhi, gelido. «Non ci parlo con i neonazisti» rispose con una voce vibrante di collera.

L'altro, poco più alto di lui, sulla trentina e con i capelli completamente rasati, gli rise in faccia. «Addirittura neonazisti! Che c'è, hai paura di un piccolo confronto? Preferiresti succhiarmelo?» Si rivolse poi ai suoi compari ancora seduti sui gradini. «Guardatelo, si è anche truccato come una puttanella.»

Verena pensò di correre a chiamare la polizia, ma notò che un altro membro del gruppo con la stessa stazza la teneva d'occhio. Non sapeva cosa fare.

Richard provò a liberarsi dalla stretta dell'uomo. «Se non mi lasci ti faccio arrestare.»

«Sei così poco uomo che non sai risolvere le cose da solo?»

«Ma chi si crede di essere?» fece uno degli altri. «Dagli una lezione, cazzo!»

L'aggressore temporeggiò solo un paio di secondi. La voglia di compiacere gli spettatori e di riversare fisicamente l'odio su di Richard prevalse sopra qualsiasi impulso di buonsenso.

Lo colpì con un pugno in pieno volto.

Verena vide Richard piegarsi in due come una tavola di legno incrinata, con una mano sul naso, al che l'uomo ne approfittò per scagliargli una ginocchiata nell'addome. Richard barcollò all'indietro fino a cadere sull'asfalto davanti a lei.

Verena si frappose tra lui e l'aggressore. «Basta!» urlò, fuori di sé. Ma stavolta l'uomo afferrò lei per il collo, lasciandosi deformare i connotati da un'espressione spaventosa, metà sardonica e metà seria.

«Tu devi solo stare zitta» ringhiò, prima di sputare a terra. Gli altri tre si avvicinarono al corpo di Richard che si dondolava a destra e a sinistra dal dolore. Verena realizzò che stava per succedere qualcosa di terribile. Si guardò intorno per cercare aiuto, ma vide solo serrande abbassate, insegne spente e cassonetti pieni di spazzatura che sarebbe stata ritirata entro qualche ora.

Dio, ti prego, aiutaci.

Ti prego.

Ti prego.

Fu istintivo, per lei, chiamarlo nella sua mente. Era passato veramente tanto tempo dall'ultima volta che ci aveva provato, ma non le risultò affatto innaturale. Qualcosa dentro di lei anelava sempre a Lui. Il corpo poteva darle tutto, ma non la speranza.

Dio non arrivò, ma alcune finestre dei palazzi circostanti si illuminarono. Era pur sempre una sorta di miracolo, la presenza di altri esseri umani. Fu ciò che spinse il gruppo di aggressori ad andarsene. Si dileguarono come topi, rivestendosi della vigliaccheria che volevano attribuire agli altri.

L'uomo con i capelli rasati la spintonò un'ultima volta nell'allontanarsi.

Verena non si curò di vedere dove stesse scappando e si precipitò subito su di Richard, in ginocchio accanto a lui. Nonostante stesse tremando da capo a piedi, lo aiutò ad alzarsi a sedere ma facendogli tenere la testa reclinata, mentre ancora si manteneva il naso imbrattato come se gli si stesse per staccare dalla faccia.

Tra i lamenti, d'un tratto, sputò anche lui a terra: nella poltiglia di sangue rappreso e saliva che rigettò spiccava uno dei suoi denti.






Note d'autrice:

Credo di avere diversi problemi con questo capitolo, perciò lo sto postando poco prima di mezzanotte. L'ho riletto così tante volte che... boh. Davvero boh. Di sicuro non vedo l'ora di scrivere il prossimo, ma non vi anticipo nulla. Spero comunque di essere riuscita a trasmettere ciò che volevo.

Il titolo, Freiheit, vuol dire libertà

Niente, vi auguro ancora una volta buon anno ♥ A domenica prossima!

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