XII. Apfel von Eden

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N E B E L

XII.

Apfel von Eden



Si sentiva come se un grosso mattone gli stesse schiacciando la faccia, tra ondate di dolore e intorpidimento. Doveva reggersi a Verena perché a stento riusciva a vedere dove metteva i piedi. Tornò a casa aggrappato alle sue spalle.

Per tutto il tragitto lei aveva continuato a ripetergli: «Andiamo in ospedale. Andiamo in ospedale.» La sua replica era stata ogni volta: «No.»

L'unico fazzoletto che aveva trovato in tasca era zuppo di sangue, adesso. Richard se l'era accartocciato tra naso e bocca per fermare l'emorragia, ma non era servito a molto.

Come minimo quel pezzo di merda mi ha rotto il setto nasale.

Ne aveva ingoiato anche una certa quantità, per via del dente, un premolare saltato via dall'arcata superiore. Aveva in bocca un sapore metallico che gli faceva venire da vomitare. Cercava di non sfiorarsi la gengiva scoperta con la lingua, ma era una tentazione troppo grande o addirittura un automatismo, accarezzarla con la punta e attendere che un nuovo flusso di dolore gli attraversasse tutte le ossa del volto.

«Andiamo in ospedale.»

«Andiamo a casa

La voce di Verena tremava, mentre la sua era diventata estremamente nasale, con le n e le m che si trascinavano gli altri suoni in una cadenza otturata e sofferente. Poiché le narici erano piene di sangue e muco, era costretto a respirare con la bocca.

Salì le scale del 124 in preda all'affanno.

Quando Verena aprì la porta dell'appartamento era stremato. Avrebbe voluto fiondarsi sul divano e perdere conoscenza in santa pace, ma vide che proprio lì, poco lontano da dove l'avevano lasciato prima di uscire, era seduto Sonne. La luce in salotto era ancora accesa e lui era ancora sveglio, come se non si fosse mai mosso per aspettarli o come se il tempo dentro la casa fosse rimasto sospeso fino al loro ritorno, per farli ripartire dal punto esatto in cui si erano separati.

Si alzò e si voltò verso di loro nel sentirli rientrare.

Per la prima volta, nel momento in cui Sonne lo vide e vide in che condizioni era, si lasciò sfuggire un'espressione sincera e naturale: un tipo di incredulità violenta, che gli fece trattenere il respiro e arrivò a deformargli i lineamenti, inclusa la cicatrice accanto all'occhio. Ma non fu solo quello, il decadere della sua imperturbabilità, a colpire Richard.

Il secondo successivo un fiotto denso di sangue gli precipitò da una narice.

Gli cadde sulle labbra, solcando morbidamente l'arco di Cupido affilato, e in parte sulla maglia. Sonne si portò subito le dita al naso. Spostò lo sguardo sui propri polpastrelli macchiati e poi di nuovo su Richard.

Si fissarono in silenzio per qualche istante.

Poi Richard scoppiò a ridere.

Fu un istinto che gli nacque dalla pancia, per nulla razionale. La sua risata riempì tutta la stanza, e non riuscì a fermarla neanche al sentire il naso e le guance tirargli ancora di più dal dolore, anzi, fu capace di soffocare ogni lamento.

Verena e Sonne lo osservarono basiti. Lei aveva anche l'aria un po' frustrata, come se stesse avendo a che fare con un bambino troppo capriccioso. Lo tirò per un polso e lo costrinse a sedersi sul divano mentre ancora rideva.

«Non vuole andare in ospedale» disse a Sonne, con le mani sui fianchi, prendendo a camminare avanti e indietro.

L'altro si pulì velocemente il volto con una manica, incurante di strisciarselo tutto di sangue. Quel gesto, però, a lui bastò per interromperne il flusso. «Cos'è successo?» chiese, senza smettere di guardare Richard.

«Siamo stati aggrediti da quattro uomini mentre tornavamo dal locale.»

«Da quattro neonazisti di merda» ci tenne a precisare Richard, con l'eco della risata ancora in gola. Venne colto da alcuni colpi di tosse. Quasi sentì il naso esplodere, ma verso l'interno, e piombargli in schegge dritte nel cervello, allora si convinse a smettere di sghignazzare.

Verena fu di nuovo accanto a lui e gli fece reclinare la testa sulla spalliera, per poi accarezzargli la fronte e scostargli i capelli che nonostante il gel avevano cominciato a spettinarsi. «Calmati, per favore. Dobbiamo almeno disinfettarti.»

Dobbiamo? Tu e lui? Che ridere, cazzo.

«Tu stai bene?» domandò Sonne a Verena.

«Sì. Se ne sono andati prima che qualcuno potesse assistere e chiamare la polizia.»

«Dovete sporgere denuncia, comunque.»

«Certo. Domani, credo.»

Richard guardò Sonne negli occhi. Improvvisamente aveva voglia di prendersela con lui. «Vedi? Questo è ciò che accade alle persone che vogliono vivere la propria vita liberamente» disse, indicandosi la faccia. «Ed è anche colpa di pensieri come il tuo.»

Sonne ricevette quell'accusa come uno schiaffo. Fu davvero un colpo che lo costrinse a fare un passo indietro, di riflesso, e a non rispondere. Da quel momento si mosse intorno a loro più a disagio. «Vado a prendere il disinfettante» mormorò.

Richard era felice di aver causato una reazione del genere. Qualcuno doveva pur dargli una svegliata. Magari se avesse continuato a provocarlo Sonne sarebbe venuto da lui a scusarsi in ginocchio, prima o poi, e avrebbe ammesso di invidiare quel coraggio e quella libertà che a lui mancavano.

Forse Richard voleva solo fargli capire che poteva essere libero anche lui. Anche a costo di scontrarsi con un mondo recalcitrante alla libertà. Perché non esisteva nulla di più giusto e importante: affermare se stessi nonostante tutto. Se avesse potuto tornare indietro e scegliere di vestirsi in un altro modo, quella sera, Richard non l'avrebbe fatto.

Non era lui a dover cambiare per adeguarsi a un mondo violento.

Ci rifletteva con una certa rabbia. Stava solo passeggiando con Verena dopo una bella serata... e adesso si ritrovava il viso e il sorriso sfigurati per colpa di quattro criminali. Non poteva paragonarli nemmeno alle bestie o assumere che fossero dei pazzi psicopatici: erano uomini sani e lucidi, così come la maggior parte dei criminali della storia. Uomini che scelgono consapevolmente di sopraffare il prossimo, nati e cresciuti in una società che lo permette, che lo normalizza. Nessun raptus di follia o altri tipi di giustificazioni.

«Sicuro di non voler andare in ospedale?» gli chiese Verena appoggiandosi al bracciolo del divano, con uno sguardo oltremodo angosciato.

A Richard faceva piacere la sua apprensione, ma non sapeva come dirle che si rifiutava di mettere piede in un ospedale da quando aveva abbandonato l'università. L'avrebbe fatto solo se fosse stata una questione di vita o di morte. «Facciamo che ci vado solo se la situazione non migliora, ok?» sospirò. «A occhio e croce non mi serve nessun intervento. Guarirò da solo.»

«E il dente?»

«Per quello non posso farci molto... Appena avrò dei soldi da parte mi farò mettere una protesi.»

«Non servono, che so, dei punti?»

«Solo se continua a sanguinare.»

Verena cercò di mettersi l'animo in pace. Purtroppo per lei, la testardaggine di Richard era forte tanto quanto la sua vita.

Sonne tornò presto con ovatta e acqua ossigenata, che poggiò sul tavolino basso, e poi andò in cucina a prendere dal congelatore un sacchetto di plastica pieno di ghiaccio. Si era sciacquato il volto, le mani e la maglia nei punti in cui si era sporcata. Al contrario di Richard, sembrava che non gli fosse successo assolutamente nulla una volta lavato via il sangue. Una coincidenza, la loro, che aveva dell'esilarante.

Sonne si avvicinò al divano con il sacchetto luccicante tra le mani e si abbassò senza tante cerimonie a premerlo sul naso di Richard. Giunse la sensazione del gelo pungente sulla pelle, simile a bruciore, allora lui protestò contorcendosi con un gemito e una serie di imprecazioni.

«Stai fermo. Ti si sta già gonfiando tutto.»

In un'altra occasione avrebbe tentato di ribattere con una battuta maliziosa, ma in quel momento si limitò a un: «Fa malissimo, cazzo, vorrei vedere te al mio posto!»

Verena era accanto a loro e continuava ad accarezzargli i capelli. La situazione gli fece tornare in mente il sogno assurdo che aveva fatto qualche settimana prima, in cui l'avevano intrappolato per forzarlo a bere il latte. Da allora Richard aveva evitato di berlo anche da sveglio, perché il ricordo di quell'incubo arrivava ogni tanto a turbarlo.

Il Sonne reale, però, a differenza di quello onirico non infierì. Spostò leggermente il sacchetto di ghiaccio, che ora si era sporcato di sangue. Incombeva su di lui oscurando persino la luce della lampada, con una mano appoggiata alla spalliera del divano, accanto alla testa di Richard. Anche nei suoi occhi, nelle increspature della fronte, sulle labbra stirate si poteva leggere una curva crescente di preoccupazione. Consegnò il sacchetto a Verena e tornò dritto con la schiena, ma restò fermo lì di fronte a studiare il tocco di lei, di gran lunga più gentile del suo, e la sofferenza di lui, che si asciugava a rilento.

Richard non poté fare altro che affidarsi a loro. Offuscato dalla rabbia, non si rese conto che la cosa stava facendo calare il suo cuore in uno stato di gioia profonda, in acque dolci, limpide e calde.




In quei giorni Richard si azzardò a guardarsi allo specchio soltanto una volta, per cambiare la fasciatura al setto nasale che aveva improvvisato. Distolse presto lo sguardo, perché gli era venuto l'impulso di piangere, a vedersi così, senza un dente, con il naso storto, il viso gonfio e degli ematomi giallognoli sotto gli occhi.

Il dolore era diminuito, segno che non si era trattato di una frattura grave. Però qualcosa sulla sua faccia, ma non solo, anche nella sua espressione, nella sua luce, si era irrimediabilmente modificato.

Per quanto avesse frequentato ambienti ostili, nella sua vita, non aveva mai subito un'aggressione come quella. Adesso anche uscire di casa aveva un significato e delle implicazioni diverse. Era più agitato che mai all'idea di tornare a lavoro.

Gli toccava l'indomani, per la festa di Halloween che si sarebbe tenuta al pub.

Richard cenò insieme a Verena con lo stomaco annodato. Lei non aveva smesso di essere in pena per lui, anche se cercava di non mostrarlo. Gli aveva preparato un brodino di pollo, quella sera, per evitare di fargli compiere uno sforzo troppo grande nel masticare.

Avrebbe dovuto ringraziarla per tutto, anche per la sua esistenza, ma non sapeva da dove partire. Il suo umore era troppo nero, così tanto che aveva preferito dormire da solo sin dalla notte dell'aggressione.

Verena risucchiò l'ultimo sorso di brodo e poi fece tintinnare il cucchiaio nella scodella. Quella di Richard era ancora piena.

«Non ti piace?» gli domandò lei.

«No, è che sono un po' sovrappensiero.»

«Uhm...» Poggiò una mano sulla sua, rivolgendogli un sorriso. «Ti aspetto di là, se vuoi mettere un po' da parte i pensieri brutti.»

Lui le strinse le dita. «Ok. Giuro che recupereremo i giorni persi.»

Verena ridacchiò e si allontanò in un fruscio del suo cardigan, ma non si diresse nella sua stanza. Si fermò in salotto, e Richard la sentì dire qualcosa a Sonne, che se ne stava seduto sul divano a guardare la televisione, forse un notiziario.

Si prese il suo tempo per finire di mangiare, poi si mise a lavare i piatti. Mentre li insaponava pensò che in effetti il calore di Verena gli mancava già da morire. Nelle pieghe del suo corpo poteva rifugiarsi, piangere, guarire, rinascere. Per lui era impressionante il modo in cui si era sviluppato il loro legame, in un arco di tempo tanto breve. Doveva essere vera la frase che dicono certi innamorati: sembra che ci conosciamo da sempre.

Decise che quella sera avrebbe accettato il suo invito. Il naso avrebbe sopportato un po' di affanno.

Uscì in salotto tastandosi la fasciatura per controllare che fosse ancora salda – un dolore lieve causato dalla pressione delle sue falangi, ma nulla di più.

Vide che Verena si era seduta vicino a Sonne. Tentava di parlargli, facendo riferimenti e battute su ciò che veniva trasmesso in tv, ma lui le rispondeva solo con monosillabi o cenni d'assenso.

Solito simpatico. Non te la meriti proprio una persona come lei.

Richard ce l'aveva ancora con lui. Ogni cosa che faceva gli procurava un fastidio sproporzionato, anche il suo stare immobile.

Avrebbe voluto chiedere a Verena di andare in camera, ma lei lo precedette con un'altra domanda: «Guardi il film con noi?»

Sbatté le palpebre un paio di volte. Sonne lo guardò, di nuovo con quello sguardo serio e indecifrabile, una guancia appoggiata alle nocche di una mano. Era tornato a ricoprirsi di impassibilità. Verena invece era speranzosa.

«Che film?»

«Shining

«L'ho già visto.»

«Io no. Dai...»

Esitò, ma alla fine non seppe rifiutare. Si sistemò accanto a lei con un mezzo sospiro, e lei dovette farsi più vicina a Sonne. Lui sembrò diventare più teso quando le sue gambe lo sfiorarono.

Trascorsero quasi tutta la durata del film in silenzio. Richard era l'unico a fare commenti come «Se non stiamo attenti anche Sonne farà la fine di Jack Torrance» o «Qualche volta dobbiamo vestirci come le gemelle per farlo cagare sotto», «Anche tu stai tutto il giorno a scrivere la stessa frase all'infinito?»

Sonne non si mostrò né infastidito né divertito, così dopo un po' anche Richard si zittì. Prese a giocherellare con un orecchino, resistendo all'impulso di farlo con la fasciatura al naso.

Si stava innervosendo, per colpa di Sonne. Non riusciva a farlo crollare in nessun modo. In più, avrebbe dovuto trascorrere quella serata diversamente, con Verena, il letto e il nuovo pacco di preservativi, invece lui era riuscito a sottrargliela e farla incollare al divano.

Si meritava una piccola vendetta.

La sola idea gli fece battere il cuore più velocemente.

Stese un braccio sulle spalle di Verena e la attirò di più a sé. Lei si rannicchiò contro il suo petto, ma senza staccare gli occhi dallo schermo. Allora Richard le prese il mento tra le dita per farla voltare verso di lui.

La guardò per un istante. La baciò. Prima piano, per assorbire il suo calore e farlo proprio, poi con maggior foga. Lei rispose subito nonostante la sorpresa iniziale, perché il suo desiderio si plasmava con naturalezza insieme a quello di Richard. I capelli folti le incorniciavano quel viso selvatico che tanto amava, le braccia si prestarono a carezze sinuose, molli, che non stringevano bensì lambivano e scivolavano.

La musica del film divenne ovattata alle loro orecchie. Richard sentì il naso pizzicare.

Avrebbero dovuto fermarsi.

Ma i corpi diventavano di secondo in secondo più esigenti. L'uno nelle mani dell'altra, mille possibilità, e un silenzioso spettatore.

Richard non avrebbe mai immaginato che essere osservato potesse elettrizzarlo tanto. Mentre continuava a baciare Verena, si concesse di puntare lo sguardo su Sonne, oltre le spalle di lei.

Li stava guardando, com'era prevedibile, le dita attanagliate convulsamente al telecomando e le narici dilatate.

Si separò per un attimo dalle labbra di Verena. «Allora è vero che ti piace guardare» gli disse con un sorriso storto. «Vuoi guardare altro?»

Anche lei si girò verso Sonne. Entrambi lo fissarono, abbracciati e scomposti. Era così vicino, così raggiungibile, ma lo sentivano ancora distante da loro anni luce.

Sonne spense la televisione e fece per alzarsi. Richard intravide in lui un tremore quasi impercettibile. «Non è qualcosa che dovresti chiedermi. E non credo che Verena sia d'accordo.»

«No, no» lo bloccò subito lei, posandogli una mano sulla spalla per trattenerlo. «Lo sono, invece.»

Sonne abbassò lo sguardo sulla mano di Verena. Stava cercando un contatto e per lui era qualcosa di inconcepibile, di audace. Così come la richiesta di Richard.

L'aveva colpito in un punto debole e tenero, la sua gengiva scoperta che era arrivato a leccare, o una coltellata nella carne morbida tra due costole. La cosa lo mandava in visibilio, ma voleva vedere fin dove sarebbero riusciti a spingersi. Cosa si lacera, all'interno, man mano che si affonda la lama?

«Resta, se vuoi» ribadì Verena.

Sembrava più una supplica.

Richard non aspettò un nuovo responso e riprese a baciarla, allungando il collo per scontrarsi con la sua bocca. Le sfilò il cardigan sbrigativamente e poi la aiutò anche a sfilarsi la maglietta, mentre lei si accovacciava sui propri polpacci al centro del divano. Rimase con un reggiseno bianco di pizzo che le aveva visto indosso già altre volte. Anche lei gli tolse la maglia. Le afferrò i lati del volto e la investì con un altro, lunghissimo bacio, accompagnato dallo schiocco delle loro lingue.

Sonne restò.

Richard era in fibrillazione, non riusciva a stare fermo nonostante il dolore al naso. Verena non lo ostacolava, piuttosto lo incalzava, qualsiasi fosse la sua mossa successiva. Era dalla sua parte.

Erano coscienti del loro potere, in quel momento, e stavano esplorando nuovi modi per usarlo. Ma era un potere che dividevano inevitabilmente con Sonne: a lui l'enorme forza del silenzio e dello sguardo, a loro quella dell'esibizione. Perfidi, tutti e tre, come solo in una situazione del genere si potrebbe essere. Ma non egoisti.

C'erano tante altre cose che avrebbero potuto fare insieme.

Guardò di nuovo Sonne. Si stava concentrando molto di più su di lei – perché mai si sarebbe fatto beccare a fissare un uomo in quel modo.

Maledetto represso. Maledetto chi ti ha messo in testa certe idee. Lìberati, una volta tanto.

Li osservava ma era ancora pietrificato. Richard avrebbe voluto schernirlo, insultarlo, umiliarlo, ma anche scuoterlo per spingerlo a reagire e ribaltare le sue convinzioni.

Avrebbe potuto baciarlo.

Ma rischiava di rovinare tutto, allora lo disse a Verena, lei che era una sua continuazione, nella mente e nello spirito: «Bacialo.»

Era un ordine dettato dalla complicità, lei avrebbe capito.

Sonne invece credette di non aver capito bene. Il suo corpo sembrò sprofondare ancora di più nel divano. Verena rivolse a Richard un'occhiata stupita e divertita allo stesso tempo.

«Avanti, bacialo» ripeté frettolosamente. «Dubito che riesca a tenerselo nei pantaloni.»

Verena si voltò verso Sonne. Si fissarono per qualche secondo senza dire niente. Il silenzio conferiva a tutta la scena una qualche sorta di solennità.

Lei era radiosa. Bellissima, con la pelle del busto paragonabile ad avorio, la sagoma dei suoi seni un po' all'insù, dei suoi capezzoli turgidi sotto la stoffa, la schiena pronta a flettersi e torcersi per il proprio piacere e quello altrui. Su di essa precipitava la sua selvaggia cascata di capelli.

Richard poté giurare, considerando quanto fosse tesa la vena sul suo collo, che anche i battiti di Sonne stessero accelerando. L'aveva respinta finora, e adesso lei gli concedeva un bacio.

Non più solo guardare.

Doveva dargli un senso di vertigine. Lo dava anche a Richard.

Lasciare che Sonne s'intromettesse nel loro rapporto poteva essere la cosa più azzardata che avessero mai fatto. Anche se, in realtà, era stato partecipe fin dal primo istante. Un testimone fedele. Era indubbio che la cosa facesse eccitare entrambi, per qualche assurdo motivo.

Anche il giardino dell'Eden, il luogo più puro e felice della Terra, era stato occupato da tre.

Verena si avvicinò a lui cautamente. Non lo assaltò. Non mostrò alcuna ferocia, come aveva fatto con Richard il mese prima, sempre sul divano, nello stesso identico punto. Cercò una posizione per farlo nel modo migliore. Si diede tempo, per infondere un peso e un'importanza a ogni minimo movimento. Si sollevò sulle ginocchia, si mise a cavallo di una sua gamba, risalì piano con le mani sulle sue braccia, fino a posargliele sul collo, sotto la mandibola, i pollici a farsi pungere dalla ricrescita della barba.

Sonne alzò il mento per guardarla bene. Scrutò sul suo volto con uno sguardo improvvisamente remoto. Ecco, ecco che cambiava qualcosa. Si stava abbandonando. Spaventato o venerante, come davanti a un frutto proibito, sospinto da due pulsioni opposte: fuggire o afferrarlo.

Verena era la mela dell'Eden. E Richard gliela stava offrendo, la tentazione che era stata sotto il suo sguardo per settimane e che mai aveva avuto l'ardire di cogliere.

Dai un morso.

Assaggiala.

Era come se Adamo stesse sfidando Dio a cedere: il padrone di casa e ogni sua regola. Non il contrario. Non c'erano tentazioni che fossero peccaminose per lui e Verena. Si prendevano ciò che volevano, perché non c'era un'altra vita per farlo.

Lei calò sulle sue labbra lentamente, ricercando il giusto incastro, e lentamente lo baciò. Entrambi arricciarono la fronte in un'espressione che assomigliava alla sofferenza. La sofferenza di non averlo potuto fare prima? O qualcosa di più atavico.

Richard sentì la bocca secca. Gli venne duro nel giro di un attimo.

Non si chiese cosa si provasse a stare al posto di Sonne, perché lo sapeva. Si chiese cosa si provasse a stare al posto di Verena.

Sonne non osò percorrere la superficie della sua pelle: non la tirò a sé per i fianchi, non le afferrò le natiche o il seno. Fu nei suoi capelli che Sonne infilò le mani. Se era un tentativo per domarla, avrebbe dovuto sapere che Verena non poteva essere domata. Se era un istinto, perché proprio i capelli?

Fu un bacio molto diverso dai loro baci, per nulla urgente, bensì composto, intimo e struggente, come prima di un addio, o come un bentornato.

Non se lo aspettava così. Credeva che Sonne avrebbe tirato fuori il suo lato più bestiale, che dopo la scintilla sarebbe stato tutto un crescendo di lussuria. Richard si era già figurato immagini vorticanti di loro tre nelle pose più disparate, nudi, Verena al centro, collegamento necessario tra loro due, ed entrambi tra le sue gambe intenti a reggerla e ad ansimarsi in faccia, l'uno di fronte all'altro – almeno questo, concedimi almeno questo.

Ma era stato troppo pretenzioso.

Verena, a un certo punto, tentò di slacciargli la cintura. Sonne si scostò da lei e le afferrò saldamente un polso. «No» disse soltanto. La sua voce era tranquilla, l'espressione distesa. Non era a disagio, non come prima, stava semplicemente dicendo di no a quello.

Lei ne fu sorpresa, e così Richard. «Sicuro?»

Lui annuì.

Verena si spostò per tornare accanto a Richard, senza fare una piega, ma Sonne le teneva ancora il polso.

«Aspetta. Stenditi.» Come se la frase sottintesa fosse: non ti ho detto di andartene.

Le braccia di lei si coprirono di un velo di pelle d'oca. Il modo in cui gliel'aveva intimato era di per sé più allettante di un bacio. Riuscì a eccitare anche Richard.

Verena acconsentì subito. Si stese sul divano, con la testa sulle gambe di Sonne e i piedi su quelle di Richard.

Lo guardò pregandolo di continuare, di mostrare a Sonne tutto ciò che potevano, perché le piaceva da morire starsene così, appoggiata a lui, cullata dal suo corpo.

Richard le strappò i pantaloni di dosso e s'infilò tra le sue gambe, in ginocchio, facendo scorrere le mani sulle cosce ora nude.

Il gioco di sguardi che si era instaurato era curioso: Sonne guardava Verena, Verena guardava Richard e Richard guardava Sonne. Ognuno con grande devozione, ma anche un po' di sfida. Ognuno con i propri desideri, sia limpidi che oscuri, sul procinto di entrare in comunione gli uni con gli altri. La casa conciliava il loro congiungersi. Lo conciliava da sempre.

Era tutto così sconveniente ma anche così fortemente giusto.

Richard si sbottonò i pantaloni e se li abbassò insieme alle mutande. Prese a massaggiarsi davanti a loro, l'erezione già sofferente che sfiorava l'inguine di Verena.

Lei si morse le labbra. Nei suoi occhi si fece strada un'emozione estatica, che glieli rendeva lucidi e febbrili, come se si stesse preparando a una rivelazione divina.

Richard le scostò gli slip, per scoprire che era bagnata già da un pezzo. La penetrò con due dita, lei sussultò e si aggrappò di riflesso con una mano alla mano di Sonne, una forza tale da far sbiancare le nocche a entrambi. Sonne le accarezzò i capelli, ancora.

Come previsto, non osò lanciare alcuna occhiata né al pene di Richard né a lui in generale.

Era qualcosa che lo faceva divertire ma anche incazzare.

Cosa doveva fare per avere la sua attenzione? Sbatterglielo in faccia, letteralmente?

Sonne preferiva osservare piuttosto che partecipare, forse per deformazione professionale, perché faceva esattamente lo stesso con la vita: la scriveva invece di viverla. Richard si chiese se tutti gli scrittori fossero così, già morti. Dei fantasmi.

Eppure si rifiutava di guardare lui.

L'unico tipo di invidia che provava nei confronti di Verena era quello.

Cambiò presto idea.

Si alzò di nuovo i pantaloni e prese Verena per mano, la mano libera, facendola alzare a sedere. «Andiamo di là» le disse.

Lei, disorientata, non lasciò subito quella di Sonne, così si ritrovò divisa tra i due, uno che la tratteneva e uno che la tirava via. «Perché?»

«Preferisco che continuiamo da soli.»

«Oh.»

Si voltò verso Sonne, con il viso attraversato da un lampo di disillusione, ma ancora pieno di desiderio. Indugiò.

Fu lui a lasciarla andare. Si mise in piedi e li guardò un'ultima volta – stavolta entrambi, nel loro insieme, come fossero una fotografia – tornando rigido e serio. «Buonanotte, allora» li salutò.

«Buonanotte» risposero loro nello stesso momento, Richard sarcastico e Verena con un tono che sapeva di rimpianto.

Si chiusero a chiave nella stanza di lei, come avevano sempre fatto nel corso di quel mese. Però fecero sesso in modo molto più arrabbiato del solito. E non cercarono di non fare rumore.

Solo dopo che tutto fu finito Richard, stravaccato tra le lenzuola e con il setto nasale dolente, rifletté sul fatto che Sonne non gli avesse mai dato la buonanotte prima.

L'esperimento, tutto sommato, doveva essere andato a buon fine.

Chissà se non è di nuovo merito di quel divano del cazzo, pensò.






Note d'autrice:

Un modo decisamente particolare per me di cominciare l'anno nuovo, questo capitolo. Salve a tutti, spero siate sopravvissuti ai vari cenoni delle feste... e al capitolo stesso. Viva l'esibizionismo e il voyeurismo, insomma.

Avevo bene in mente la scena della seconda parte da mesi, per dirvi, e non vedevo l'ora di scriverla. Sono curiosissima di sapere cosa ne pensate. Che tipo di cambiamento si verificherà nel loro rapporto, secondo voi? E perché Sonne non si è fatto toccare da Verena? 

Come avrete immaginato, il titolo, Apfel von Eden, significa Mela dell'Eden.

Credo di pubblicare il prossimo sempre di domenica, tra una settimana. Se ci dovessero essere imprevisti vi aggiornerò con un avviso su instagram (sempre ivolswrites, se volete seguirmi ♥) e qui sulla mia bacheca.

A presto!

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