XIV. Gott steh mir bei

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N E B E L

XIV.

Gott steh mir bei



«Dammi un bacio.»

Verena si svegliò così, la mattina successiva. Con la voce roca di Richard, un soffio sulla guancia, e il suo corpo che le si rannicchiava contro sotto le coperte, facendo sfregare la pelle nuda con altra pelle nuda.

«Che ore sono?» mugugnò lei, senza ancora aver aperto gli occhi.

«Ma che te ne frega.»

Prese a baciarle tempestivamente il collo e una spalla, stringendosi sempre più a lei anche con una gamba. Le membra, seppur intorpidite dal sonno, le restituirono un brivido carezzevole.

Quando strizzò e sollevò le palpebre, vide Richard sorriderle con tutto il volto. Era ancora gonfio e macchiato dai lividi, ma si era tolto la fasciatura al naso. Gli dava fastidio per dormire, aveva detto.

«Come mai tutta questa contentezza?» gli chiese, scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte. «Non che mi dispiaccia.»

«Non lo so. Mi sono svegliato felice. Ho così tanta energia in corpo che potrei sfasciare la casa. E anche te, se me lo chiedessi.»

Verena fece finta di non aver capito. «In che senso, scusa?»

«Te lo spiego se mi dai un bacio.»

«Mmh... penso che passo», e fece per scostarsi le coperte di dosso, pronta ad alzarsi.

«Oh, sul serio? Uno solo!»

Richard la afferrò per la vita con entrambe le braccia e la tirò indietro verso di sé. Si rotolarono nel letto ridendo, lei che tentava di sfuggirgli e lui che non la liberava. Verena si domandò se Sonne fosse già sveglio e stesse ascoltando le loro risa.

Tornò così nella sua mente, in modo del tutto spontaneo.

Un pensiero dolce che era già indice di mancanza. Perché Sonne mancava in quel quadro spensierato.

La sera prima Verena aveva sperato che si sarebbe lasciato andare. Quella mattina avrebbe potuto essere lì con loro nel letto, a riempirlo con loro, a giocare. O a guardare, cosa che le andava bene lo stesso. Invece dopo il rientro a casa si era dileguato in camera sua salutandoli appena. Aveva avuto fretta di allontanarsi, fretta ma anche agitazione, tanto che non si era nemmeno sfilato il cappotto e aveva fatto cadere a terra il suo mazzo di chiavi senza accorgersene. Né lei né Richard l'avevano mai visto in un tale stato. Come quando si è bambini e si osserva per la prima volta un adulto piangere.

«Pensi che stiamo esagerando?» aveva domandato Verena a bassa voce.

«Per così poco!»

Pensare a lui al risveglio era una delle conseguenze della strana svolta avvenuta negli ultimi giorni. Dal momento in cui aveva baciato Sonne, in cui si era lasciato baciare, Verena tendeva ancora di più a lui. Non era stato un bacio paragonabile al suo sogno di settimane addietro, ruvido e severo, bensì gentile e sorprendentemente cauto, come se non avessero voluto rischiare di rivelare i loro segreti con un solo movimento di troppo. Perché maneggiare una persona che con il corpo nasconde significa anche questo, poter scoprire il suo nascosto, aprire il vaso di Pandora.

Sonne si era tirato indietro due volte. Verena avrebbe dovuto aspettarselo. Aveva sentito la sua immobilità, il suo timore. Stava picchiettando su di lui come uno scalpello sulla roccia, ma non bastava la sola volontà a plasmarlo. Forse cambiando prospettiva – lei materia da lavorare e lui scultore – avrebbe reso tutto più semplice da comprendere. Il desiderio dell'artista che calava su di lei, non viceversa. Un desiderio difficile da sondare, quello di Sonne, che stava alle proprie regole, sconosciute a chiunque altro.

E cosa resta del mio?

In una situazione ideale, il desiderio di tutti e tre si sarebbe incontrato formando un'unica rete.

D'altro canto, era faticoso coltivare senza alcun tipo di errore il triplice legame che si stava creando. Verena non voleva che precipitasse tutto nell'imbarazzo, nel non detto, né voleva mettere Sonne a disagio.

Se c'era qualcuno che doveva fare uno sforzo in più, a quel punto, era proprio lei. Sonne li aveva accolti in casa, Richard aveva dato la prima spinta. Verena avrebbe dovuto tirar fuori il resto. Un curioso modo di nascere. In tre. E al contempo uno alla volta.

Non resistette, perciò alla fine chiese, quando le risate furono cessate: «Richard, ma a te piace Sonne?»

Richard si fermò e allentò la presa su di lei, ma non la lasciò. «Perché questa domanda?»

«Dopo tutte le provocazioni di ieri... me lo stavo chiedendo.»

«Era solo un modo per prenderlo per il culo, Reni.»

Verena si voltò per guardarlo negli occhi. Mise una mano tra la propria guancia e il cuscino. «A me puoi dirlo. Anzi... ho bisogno di saperlo.»

«Ti dico di no.» Una risposta secca, troppo immediata. «E comunque anche se fosse non sarei ricambiato, no? Che fantasie ti sei fatta?»

«Fantasie? A me sembra molto reale quello che è successo. O dovrei dire: quello che sta succedendo

Richard non seppe trovare subito delle parole con cui replicare. Tornò in posizione supina e si coprì il viso con un braccio – per nascondere quegli occhi un po' bugiardi. «Non voglio farmi tante domande. Mi sto divertendo un casino e mi sta bene così, per ora.»

«Vuoi lasciare che tutto scorra?»

«Esatto. Libertà, sempre. Se a te lui piace me ne farò una ragione. Di sicuro tu piaci a lui.»

Anche tu, avrebbe voluto dirgli, perché era ciò che sospettava. La sera precedente, al pub, aveva visto chiaramente l'interesse di Sonne nei suoi confronti. Restava da capire che tipo di interesse fosse. Per un attimo, pur standosene ritto e serio sullo sgabello, Sonne l'aveva guardato con uno sguardo avido, come se il corpo di Richard fosse ricoperto d'oro e pietre preziose e lui fosse l'unico ad essersene accorto. Una luce nuova era discesa su di lui, liquida, nei suoi occhi.

Per un attimo.

Verena non voleva dare a Richard false speranze, anche se le stava mentendo. Mentiva per proteggere se stesso, e lei non lo biasimava. Avrebbe generato solo sofferenza ammettere di provare qualcosa per Sonne.

Si appoggiò al suo petto e prese a tracciarvi dei cerchi immaginari con le dita. «Dovrei chiederglielo. Gli farei venire un infarto, credo.»

«Un altro? È già tanto se non l'abbiamo perso l'altra sera.»

Una nuova risata, stavolta più pacata. In Verena, però, si smorzò presto. «Perché fa così, secondo te?»

«Non lo so. Non so cosa voglia. È un represso... in tutto. Qualche settimana fa avevamo detto che non si accetta, no? Ecco, a volte è davvero palese e mi fa pena in un modo che non puoi neanche immaginare.»

Era una cosa molto triste da dire.

«Io credo che sia attratto da noi... da ciò che rappresentiamo insieme» rifletté lei. «Non riguarda solo me. Riguarda anche te. E la cosa lo preoccupa perché non sa come gestirla o trovare le parole giuste per descriverla. Il modo in cui ci guarda, però... è lì il segreto. Proprio lì. Ha qualcosa di commovente. Mi piace tantissimo, mi fa sentire... viva.»

E quella era una confidenza intima, più intima di qualsiasi cosa gli avesse mai rivelato, ma inaspettatamente semplicissima da formulare. Non l'aveva nemmeno pensata in modo così chiaro nella sua testa, era fuoriuscita e basta. Non avrebbe saputo ripeterla in termini migliori. Richard fissò il soffitto, cercando di elaborarla. «Wow. Sembra quasi che ti piaccia più di me.»

Verena capì che non era una battuta. Si addolcì di colpo. Lo abbracciò più a fondo e strofinò il naso contro il suo collo. «Richard... non è affatto la stessa cosa. Non potrei avere con nessun altro quello che ho con te. Sonne o meno... sappi che nulla potrebbe cambiare o eguagliare il nostro rapporto.»

Richard ricambiò la stretta. «Quanto sei tenera quando dici queste cose.» E la tenne a lungo tra le braccia, come se volesse fondersi con lei. Da due, uno. E così Sonne avrebbe dovuto accettarli, come uno. Non una parte senza l'altra. Verena e Richard. Sarebbe stata la loro unica regola.

Non seppe dire quanto tempo passò. A un certo punto lui le chiese: «Ma non hai lezione oggi?»

Un peso le si posò all'istante sullo stomaco, un pugno caldo che premette contro il costato. «Cazzo.» Non imprecava quasi mai, lei, e Richard non poteva sapere il vero motivo per cui lo stava facendo. Si era dimenticata di mentire, quella mattina.

Si alzò dal letto di tutta fretta, in automatico, tentando di sopprimere il principio di panico che la travolse. Sarebbe bastato un solo passo falso per perdere la fiducia di Richard, la cosa più pregiata che possedesse.

Nulla potrebbe cambiare il nostro rapporto... eccetto la mia disonestà, ammise tra sé.

Non avrebbe potuto mentire ancora per molto, ma intanto non sapeva come uscire dalla situazione. Non c'era un'occasione giusta per una confessione del genere. In ogni caso avrebbe scatenato una reazione negativa. Allora, dicendosi che presto – prima o poi – avrebbe trovato il modo di risolvere tutto, e così autoassolvendosi, finiva con il ripetere la stessa routine all'infinito: mattina in strada a girovagare fino a ora di pranzo, ora in cui incontrava di nuovo Richard, resoconto di una giornata che non aveva vissuto, pomeriggio libero e infine una promessa a se stessa, rimedierò.

Neanche in un momento tanto conciliante, però, trovò il coraggio di confessare.

Nuda, nell'aria fredda del primo di novembre, rabbrividì da capo a piedi. Prese dei vestiti dall'armadio a casaccio. Si chiese, per distrarsi e darsi una parvenza di normalità, se Sonne le avrebbe mai concesso di comprarsi una stufa.

L'inverno non sarebbe di certo stato mite.




Verena fuggì da Richard inoltrandosi tra le strade tranquille di Brema con una sciarpa di lana avvolta intorno al collo e gli occhi umidi di lacrime non versate. Non guardò nemmeno dove stesse mettendo i piedi. Non aveva alcuna direzione in particolare, si lasciava sospingere dal vento.

Come tutti i giorni dispari, avrebbe finto di andare a seguire le lezioni in Accademia. Si sarebbe inventata dei dettagli, poi, sul nome dei corsi, sui professori, sugli argomenti spiegati, sulle persone conosciute. Una parola qui e lì che Richard avrebbe bevuto senza metterne in dubbio la veridicità, com'era già successo.

La sua ingenuità la colpiva tanto quanto la propria perseveranza nel mentire. Sonne in questo senso le era molto più ostile. Lo era al mondo intero. Forse sbagliava o forse era nel giusto, a non fidarsi di nessuno.

Per avvicinarlo avrebbe dovuto dire la verità anche a lui.

Ma da dove partire? Ammettere di non star frequentando la Hochschule für Künste significava dover spiegare il motivo per cui aveva sentito la necessità di montare una bugia simile.

Si figurava già l'andamento della conversazione: l'ho detto perché dovevo sembrare una ragazza normale. In che senso? Sto scappando. Da chi? Dai miei fratelli. E perché? Perché ho fatto loro qualcosa di terribile e l'hanno scoperto. Che cosa? Non posso dirlo. Perché? Perché non mi guardereste più con gli stessi occhi.

Non era difficile da spiegare.

Era difficile venire a patti con le ripercussioni della spiegazione.

Lei stessa cercava di non pensarci. Quella mattina, però, l'idea di continuare a mentire le stava facendo venire la nausea. Allora scappava, scappava in tutti i sensi possibili. Dire la verità o scappare. Lasciare Brema, Richard e Sonne alle proprie spalle. Continuare il viaggio che l'avrebbe condotta lontano dalle proprie colpe. In qualche modo erano colpe che si trovavano ancora fuori di lei, ma la stavano rincorrendo come una nube di gas pronta a soffocarla.

Raggiunse la Marktplatz, disorientata. Non si era resa conto di aver ripercorso gli stessi passi della sera precedente, con la differenza che adesso era sola. Incapace di farne a meno, inseguiva ogni tipo di familiarità: tragitti luminosi da cui era impossibile allontanarsi.

Cominciò a piovere. E in quello stesso attimo si risvegliò dentro di lei un istinto che la mise subito in allerta e le causò un formicolio ai limiti della pelle, l'ultimo strato sottile del corpo prima che incontri l'aria.

Rimase per qualche secondo a guardare le persone che camminavano nei paraggi, per nulla turbata dalle gocce di pioggia che le avrebbero inzuppato i vestiti. Esaminò più di una faccia, freneticamente, dalle donne agli uomini e anche ai bambini. C'era qualcosa che non andava.

Si sentiva osservata.

Ma non nel modo che amava.

E poi vide, dall'altra parte della piazza, di fronte al Municipio, una figura che indossava un giaccone di renna, con i capelli castano chiaro e il volto squadrato. Anche lui senza ombrello, appostato lì in attesa di qualcuno.

Il cuore fece un balzo doloroso nel petto.

No.

Gli mancava soltanto il fucile in spalla, quello che il padre aveva sempre tenuto esposto sopra il camino, eppure sembrava lo stesso in posizione di caccia.

Non può essere...

Avrebbe voluto lanciare un grido, ma non aveva abbastanza voce per buttar fuori il terrore che l'aveva assalita.

Si voltò e corse via ancor prima di analizzare la situazione razionalmente. Cercò un posto in cui nascondersi, il primo sott'occhio che le avesse aperto le porte, il più familiare.

Il Duomo si stagliava di fronte a lei. Non che avesse un'aria benevola, ma non c'era luogo più appropriato in cui potesse rifugiarsi. Correndo, lo zaino logoro che rimbalzava sulla schiena, attraversò uno dei quattro portoni neri, l'unico accessibile. Percorse trafelata tutta la navata principale, sotto lo sguardo perplesso dei pochi presenti, credenti e visitatori, fino a crollare sulle proprie ginocchia sugli scalini di marmo di fronte all'altare.

Giunse le mani in preghiera e guardò in alto, verso il rosone, mentre delle ciocche fradice di capelli le oscillarono sulle tempie.

Nessuna luce penetrava dalle vetrate, per via del maltempo. A illuminare le navate vi erano lampadari dorati e lumini che però non riuscivano a far fronte da soli al buio dirompente. Nelle narici, odore di acqua santa e pietra bagnata, del legno delle panche appena lucidato. Faceva più freddo all'interno che all'esterno. Il rombo del vento era forte, ma lottava con il silenzio.

Non era una preghiera quella che Verena rivolse a Dio.

Adesso devi tornare.

Lo pretendo.

Devi tornare.

Glielo stava ordinando.

Gli stava ordinando di proteggerla così come aveva fatto durante le notti lugubri nella casa nella Foresta Nera. Anche se fosse stata un'allucinazione, aveva bisogno che ritornasse. Verena non sapeva vivere senza un Dio. Perché lei aveva avuto il privilegio di sentire la sua salvifica presenza, tempi addietro, e adesso aveva capito di non volervi più rinunciare. Aveva più diritto di credere di tutti i fedeli al mondo – non importava di quale religione. E aveva persino il diritto di richiamarlo a sé.

La gente, intorno, continuava a fissarla.

Dio non le rispose.

Allora Verena si ammorbidì: fa' che non sia Günther ad aspettarmi lì fuori... almeno questo, fa' che non sia lui.

Pensò che il suo cuore sarebbe scoppiato se avesse continuato a battere tanto rapidamente. Terrore, attesa, senso di colpa, speranza, tutto si stava aggrovigliando in una matassa cancerogena, nella forma di un altro cuore che pulsava forsennato accanto a quello vero. Una doppia anima. La nuova Verena che non riusciva a convivere con quella vecchia.

La luce di un fulmine la schiaffeggiò all'improvviso. Subito dopo, un tuono fragoroso, adirato, che fece tremare i vetri, e i lampadari, e il legno delle panche.

Era un Suo segno?

Verena si rialzò in piedi e indietreggiò, senza distogliere lo sguardo dal rosone. Le sembrava di aver intravisto un volto. Dalle frange della sua sciarpa colarono delle goccioline d'acqua. Una corrente repentina fece chiudere di colpo l'unico portone aperto.

Lei si voltò solo in quel momento. L'uomo che aveva adocchiato in piazza era entrato nel Duomo. Scoprì che non era Günther, non era mai stato lui. Con quella che sembrava la sua compagna si sedette su una delle panche in fondo, in silenzio, e insieme non la degnarono di un minimo d'attenzione.

Verena sarebbe potuta svenire dal sollievo.

Non sapeva se fosse merito di Dio.

Dio era scomparso con la scomparsa di suo padre. Non le era stato vicino negli anni dell'adolescenza, quando Günther aveva preso il controllo della casa. Non aveva visto tutto ciò che aveva fatto, e se aveva visto si era ritirato nell'indifferenza. Verena aveva pianto più per il suo abbandono che per quello del padre. Entrambi negligenti, avevano lasciato i cinque fratelli a marcire nella foresta, alla guida spietata del maggiore.

Verena non avrebbe mai dimenticato la volta in cui, dopo una discussione su questa o quella banalità, le aveva stretto le mani al collo dicendole furioso: «Giuro che prima o poi ti ammazzo.» Aveva quindici anni, lui dieci di più. Sapeva che era una promessa, che l'avrebbe fatto davvero, e nemmeno l'intervento di Ingeborg, Erich o Christa sarebbe bastato a fermarlo. Era stata la prima volta che aveva pensato alla fuga.




Piovve per il resto della giornata.

Verena tornò a casa a ora di pranzo, cambiò i vestiti bagnati con il pigiama, Richard le domandò il solito «Cosa hai fatto di bello oggi?», ma lei non gli concesse commenti particolari. Dopo mangiato si mise a letto e si addormentò sotto tre strati di coperte, ignorando il rumore della finestra che cigolava a causa del vento.

Dormì fino alle diciannove e oltre. Non sognò nulla. Lo spavento in piazza l'aveva prosciugata di qualsiasi energia fisica e mentale.

Quando si svegliò, Richard era già andato a lavoro. Verena si augurò che avesse meno ansia del giorno prima, o sarebbe stata in pensiero fino al suo ritorno.

Si sentiva ancora debolissima. Non aveva fame, soltanto un cerchio alla testa, ma si diresse comunque in cucina perché sperava che Sonne fosse lì, che potesse finalmente parlargli. O anche stare per un po', solo un po', in sua presenza. Lo desiderava da quella mattina, e pur abitando nello stesso appartamento non lo vedeva da ore.

Voleva provare ad avvicinarglisi.

Un passo verso di lui. Ne era sufficiente uno, piccolo, per il momento. L'indomani ne avrebbe tentato un altro. Verena non sapeva quanto fosse lungo il cammino, che forse era più simile a una scalata su una montagna. Chissà cosa avrebbe appreso sulla vetta, se fosse riuscita a raggiungerla senza precipitare al suolo.

Lo trovò lì al tavolo e vide che il piatto davanti a lui era vuoto, con poche briciole di pane sparpagliate sopra. Anche quella sera aveva mangiato un pasto freddo. Era un'abitudine di molti tedeschi, ma Verena sapeva che per Sonne la cosa aveva un significato diverso. Non si faceva riscaldare da nulla, neanche dal cibo. Lui che prendeva il nome dal Sole si stava lasciando raffreddare lentamente, negando il calore a tutto ciò che gli ruotava intorno.

Si sedette accanto a lui. Non di fronte, stavolta, ma vicino. All'inizio Sonne non alzò lo sguardo. Stava consultando un taccuino, seguendo con un dito le parole che vi erano scritte, in una grafia poco chiara ma ordinata, la sua.

Verena non tentò di sbirciare. Temeva di infastidirlo, con la propria curiosità. Rimase semplicemente al suo fianco. Era più di quanto potesse chiedere, osservarlo mentre lavorava. Gli posò una mano sull'avambraccio. Doveva essere un gesto di incoraggiamento e non un modo per richiamare la sua attenzione, ma a quel punto Sonne si voltò verso di lei.

Sembrava afflitto. La palpebra lambita dalla cicatrice aveva ripreso a tremare.

«Cosa c'è?» le chiese.

Verena ritirò istintivamente la mano. A differenza dei giorni precedenti, adesso ogni minima azione appariva di troppo. Richard si era preso tutta la spavalderia che le era rimasta. In quell'istante, da sola con Sonne, sentì che stava osando più di quanto le fosse concesso. Chi era lei per toccarlo, per violare la sua impenetrabilità? Si stava avventurando in un terreno sacro, più sacro di una cattedrale, in cui nessuno aveva il diritto di mettere piede, e un giorno qualcuno l'avrebbe punita anche per questo.

«Non volevo disturbarti» disse. «Continua pure a scrivere.»

«Non stavo scrivendo.»

«E... cosa stavi facendo?» cercò di indagare.

Sonne si massaggiò la radice del naso chiudendo gli occhi per un attimo. «Stavo sistemando degli appunti.»

«Immagino sia più noioso, allora.»

«In realtà può essere un'attività molto produttiva, quando non dura...», si bloccò, interrotto dallo squillo del telefono, «... all'infinito.»

Si alzò in fretta, ma composto, come cercando un qualche tipo di dignità o formalità nel prepararsi a ricevere cattive notizie. Con la schiena dritta si avvicinò al tavolino su cui era posato il telefono, in salotto, e alzò la cornetta. Verena poté vedere la scena attraverso l'arco tra le due stanze.

«... buonasera, Johann» rispose Sonne al saluto della persona all'altro capo. Aveva un atteggiamento rassegnato, perché forse si aspettava già di ricevere quella telefonata. «No, non è ancora pronto.... No, nemmeno la prima parte... Te l'ho detto che mi serve tempo... Certo, lo so... Lo so che ho firmato un contratto, non c'è bisogno che me lo... Capisco le loro ragioni... Se dovessero recederlo non potremmo rivolgerci a quell'editore di cui mi avevi parlato? Capisco... Ma quelli erano progetti diversi...»

La conversazione durò una decina di minuti e proseguì sullo stesso tono grigio. Sonne rimase tutto il tempo in piedi, rigido, con lo sguardo perso nel vuoto. Parlò di romanzi, contratti ed editori, ma era sempre l'interlocutore a parlare di più. Il tutto si concluse con un «Va bene» di Sonne, per niente di buon auspicio.

Alla fine della telefonata tornò da lei come se non fosse successo nulla. Sparecchiò la tavola velocemente e lavò l'unico piatto che aveva usato.

Verena tentennò un po' prima di fargli un'altra domanda. Doveva centellinarle, con lui. «Era il tuo editore?»

«Il mio agente» rispose, mentre le dava le spalle, il rumore dell'acqua che scorreva dal rubinetto e della pioggia a fare da sottofondo.

«Ti sta facendo pressioni?»

«Sta aspettando il romanzo. L'editore sta facendo pressione a lui e lui a me.»

Verena appoggiò i talloni sulla traversa della sedia e si abbracciò le ginocchia. Riprovò: «Manca ancora molto?»

Sonne chiuse il rubinetto, si asciugò le mani con un panno e poi si girò di nuovo a guardarla. Non rispose per qualche secondo. Si rivestì d'un tratto di un manto di superiorità, come se non volesse darle una risposta perché la pensava troppo lontana dal poter comprendere appieno il suo mondo, ma poi, e fu ciò che la fece fremere di una gioia nuova, si lasciò andare.

Divenne chiaro solo in quel momento quanto fosse affranto.

«Non l'ho nemmeno iniziato. Ci sto provando da mesi» disse, con voce spezzata ma intrisa di una rabbia cocente. «Probabilmente è un progetto troppo ambizioso per me, ma non riesco a pensare ad altro. Ogni altra idea è stata risucchiata da questa qui. Doveva essere il mio successo e invece sarà soltanto il mio fallimento.»

Verena si alzò e gli si avvicinò, ma senza toccarlo. Lui era appoggiato al ripiano, lei lo fronteggiò. «Sonne...», perché anche la sua voce era spezzata? Le venne un groppo alla gola. Capì, imprevedibilmente, tutto il suo dolore, ogni venatura e rigagnolo, perché parlandogliene lo stava trasferendo un po' dentro di lei. Capì quanto i freni che si era imposto gli stessero facendo male. Non riusciva a vivere e non riusciva neanche più a creare. Era ciò che di più drammatico potesse immaginare per lui.

Sonne cercò di chiudere subito il discorso. «Devo convincermi che l'ispirazione tornerà.»

Verena fece altri due, tre passi verso di lui. Stava osando già troppo e lo sapeva. Ma aveva il disperato bisogno di toccarlo. Toccarlo per fargli sentire che lei era e che avrebbe potuto dargli il conforto che meritava, perché moriva dalla voglia di farlo, donargli un po' di vita. Non le costava nulla e nulla voleva in cambio.

«Tornerà» gli confermò. «Cos'è che ti ha ispirato per le altre storie?»

«Non è facile da spiegare. Elementi ricorrenti della mia vita, che dovrebbero essere presenti anche nel romanzo... ma stavolta rievocarli non funziona.»

«Hai provato a guardarli da una prospettiva diversa?»

Sonne sbatté le palpebre. «Cosa intendi?»

«Potresti stravolgerli, esaminarli sotto un'altra luce...» Un altro passo, finché non restò una distanza brevissima. «Prendi tutto quello che già sai del romanzo e capovolgilo.»

Lui sospirò e fece un sorriso amaro. «Ci proverò senz'altro.»

L'ultimo passo. Verena gli afferrò la nuca e gli fece abbassare la testa verso di lei. Gli baciò la fronte, un lungo bacio inerte, di labbra premute con forza sulla pelle che intendevano lasciare un'impronta permanente, dura da accettare, fin dentro la testa. Nel compiersi di quel contatto, Verena sentì si aver raggiunto il proprio scopo. Toccarlo in quel punto esatto del corpo, il cervello.

Fu un gesto che le tolse le ultime energie rimaste.

Annullare ogni lontananza significava anche schiantarsi.

Quando si separarono, Sonne fu costretto a reggerla perché svenne davanti a lui.






Note d'autrice:

Innanzitutto chiedo perdono per il ritardo, come vi avevo già anticipato è un periodo un po' incasinato. Avviso già che il prossimo aggiornamento arriverà non prima del 5 febbraio. 

Venendo al capitolo, spero vi sia piaciuto ♥ Ho finalmente potuto approfondire un po' la questione di Günther, ma ahimé non è finita qui, così come il rapporto di Verena con Dio. Il titolo, Gott steh mir bei, vuol dire proprio Dio stammi vicino.

Ultima cosa ma non per importanza, buon compleanno (in ritardo, di nuovo) a @MariaZaccaro ♥

Vi lascio con un disegno chibi realizzato da @hikoshiki, credo sia una perfetta rappresentazione di questa storia. Quanto è tenero Richie che fa le fusa? Gh.

A presto!

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