XLI. Morphin

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N E B E L

XLI.

Morphin



Decine di Richard e Verena vorticanti, così vorticanti che talvolta gli facevano venire la nausea, avevano iniziato a vivere in quella casa. Non erano più soltanto due.

Sonne li sentì rientrare dalla spesa e uscì dalla sua stanza per andargli incontro.

Le loro figure si moltiplicarono vertiginosamente, all'istante, tutt'intorno. Decine di Richard e decine di Verena con sacchetti di plastica e cappelli di lana comparvero da decine di porte, e lo guardarono, in perfetta sincronia, al centro del salotto.

Doveva ancora farci l'abitudine, a quella giostra, a quello strabiliante spettacolo illusionistico riservato a lui soltanto, che da bambino avrebbe scalpitato di vedere, come quando implorava sua madre di portarlo al circo.

Qualsiasi cosa facessero, in qualsiasi danza quotidiana si esibissero, si rifletteva sulla trentina di specchi che avevano appoggiato alle pareti in quei mesi. Una varietà incredibile per una casa così piccola. Specchi nuovi di zecca, specchi ovali, specchi rettangolari, specchi affissi con un chiodo, specchi racimolati al mercato dell'usato o dall'antiquario in Kohlhökerstraße, specchi con le cornici di legno, di metallo, dorate, con intarsi floreali, specchi con le superfici graffiate, specchi deformanti che snellivano le loro sagome. Era come vivere racchiusi all'interno di una gemma, con la luce che rimbalzava ovunque. Se la somma che Sonne aveva stimato era corretta, avevano destinato a quella spesa più di duemilaquattrocento marchi.

Una follia. Una delle tante.

Ma l'aveva fatto solo per loro.

Stava giusto aggiornando il quaderno dei conti prima che tornassero. Sebbene ormai facesse calcoli ogni giorno, si stupiva di quanto poco fosse angosciato mentre segnava con una penna rossa le cifre da sottrarre ai suoi risparmi, o quelle da pagare con più urgenza. Era distratto da altro. Neanche i debiti riuscivano a turbare quello che stava costruendo, o ricostruendo, di cui il denaro era soltanto una vile parte.

Sorrise morbido, circondato dai Verena e Richard reali e riflessi. Gli specchi gli ricordavano che non poteva più esserci un mondo in cui non esistevano. Quella casa senza di loro. Lui senza di loro. Era il trionfo dell'evidenza. La interpretava come una danza perché ricordava che anche Dürrenmatt aveva usato quell'esatta metafora per il labirinto di specchi del suo Minotauro.

«Non abbiamo trovato il Leberkäse, ma in compenso abbiamo preso della carne di vitello» disse Richard, scavando nervosamente in uno dei suoi sacchetti. «Spero vada bene lo stesso.»

«Cucinate adesso?» domandò lui.

«Va bene o no?» insisté Verena. «Richard era in ansia che non fosse quello che volevi.»

Avrebbe potuto rispondere che non andava bene, che non era quello che aveva chiesto, che gli aveva detto mille volte di provare altri negozi se non avessero trovato ciò che desiderava, di uscire prima se si fosse fatto tardi. Ma decise di essere clemente con loro, quella mattina. Una carezza poteva essere efficace tanto quanto un rimprovero. «Sì, può andare.»

«Ok» sospirò Richard. «Ora cuciniamo. Sto morendo di fame.»

«Bene. Chiamatemi quando è pronto.»

Compiaciuto della propria benevolenza, tornò in camera. L'unica stanza priva di specchi. Era l'unico tra i tre che poteva permettersi di assentarsi allo sguardo di qualcun altro. Per quanto lo riguardava, non sopportava né il proprio riflesso né di essere ripreso da una videocamera. Ma era consapevole di quanto fosse necessario tutto quello.

Subito dopo il loro ritorno, le sparizioni di Richard e Verena erano diventate insostenibili. Più passava il tempo, più gli altri mondi da lui creati li risucchiavano alla minima disattenzione. Per questo avevano deciso di ricominciare a uscire – perché stare in mezzo alla gente, in qualche modo, li proteggeva, e lui gliel'aveva permesso solo perché ormai sapeva con assoluta certezza che non sarebbero più scappati –, per questo avevano deciso di piazzare specchi ovunque. Era stata un'idea di Richard. Era intelligente, il suo Richard, più di quanto Sonne gliene avesse mai dato merito. Si impegnava con tutto se stesso per poter restare al di qua, al suo fianco. Così, con gli specchi, che erano una buona alternativa alla videocamera, potevano tenersi d'occhio da ogni angolazione possibile, e non dovevano preoccuparsi di comprare sempre nuove cassette. Di notte, però, non bastavano. Di notte la soluzione migliore erano ancora i turni di veglia.

La situazione pareva essersi calmata. Stava riuscendo a contenerli.

L'ultima sparizione, di Verena, risaliva al mese scorso. Il quindici gennaio. L'aveva segnato da qualche parte. L'anno precedente, intorno a quella stessa data, avevano scoperto la verità. Da quando avevano superato lo scoglio di quel tetro anniversario, Sonne aveva la sensazione che non sarebbe potuto accadere più nulla di altrettanto terribile, d'ora in avanti, che la vita sarebbe potuta proseguire soltanto così, in quel grigiore confortevole, una monotonia riconquistata.

Era servito un anno di tribolazioni perché finalmente gli obbedissero e tutto diventasse più semplice.

Si rimise alla scrivania, rilesse l'ultimo capitolo scritto. Dopo un paio di correzioni, alzò la testa verso la finestra e con un improvviso moto di calore in petto realizzò quanto poco gli mancasse alla fine del romanzo. Per qualche secondo si dimenticò del resto. A breve neanche i debiti sarebbero più stati un problema, quando il romanzo sarebbe andato alle stampe e l'editore, che era stato tanto condiscendente con i suoi ritmi, gli avrebbe versato l'anticipo. Forse avrebbe potuto evitare di chiedere un prestito. Si stava già figurando le lotte estenuanti con la banca per convincere chi di dovere ad accordarglielo. Guardò oltre il vetro, dove il sole illuminava i tetti spruzzati di neve della città, e si sentì riempire da una gioia profonda e rassicurante.

Che meraviglia avere di nuovo tutto sotto controllo.

Quando il pranzo fu pronto, Richard e Verena lo videro arrivare ancora sorridente a tavola. Richard gli poggiò davanti il piatto con le fettine di carne in padella che avevano preparato, insieme a un purè di patate in una ciotola grande. Avevano apparecchiato come piaceva a lui, con la tovaglia stirata e i sottopiatti di paglia intrecciata di Luciane. Qualche volta doveva avergli fatto notare quanto gradisse quella disposizione, e loro ne avevano fatto tesoro. Era sicuro di non avergli imposto che si prendessero cura di lui, che lo stessero facendo di loro spontanea volontà. Tutto sommato, però, aveva il diritto di pretenderlo: Richard e Verena non contribuivano all'economia della casa in nessun altro modo. Era lui a doversi impegnare per farli sopravvivere. Non avevano mai discusso di quando fosse diventata una cosa accettabile.

«Com'è che sei tutto allegro oggi?» chiese Verena simulando noncuranza, mentre prendeva una bottiglia d'acqua dal frigorifero.

Sonne li guardò con le braccia appoggiate lungo il tavolo. «È per il romanzo. L'ho quasi finito.»

«Wow» disse Richard. «Sarebbe anche ora.»

«Quanto manca?» domandò Verena.

«Tre capitoli.»

Si sedettero entrambi di fronte a lui e iniziarono a mangiare con tranquillità. Forse non capivano l'importanza di quel momento. Non gli stavano dando soddisfazione.

«Lo leggerete, quando sarà pronto?»

Richard finse di pensarci su. «Mmmh, quanto è lungo?»

«Un po', ma avevi promesso» disse Sonne, che non riusciva a prenderlo del tutto come uno scherzo. Non se riguardava il suo romanzo. Non se era ciò per cui Richard e Verena erano venuti al mondo. «Tu, Verena?»

«Certo. Te l'ho già detto tante volte. Anche perché ormai ho letto tutti i libri della tua libreria e mi serve qualcosa di nuovo.»

Lei non scherzava più da tempo. C'era sempre una sincerità pacata in ciò che diceva, una piattezza da prendere alla lettera e nient'altro.

Cominciò a mangiare anche lui, rasserenato. «Manca il sale» si limitò a commentare a proposito del cibo, senza dare troppo spazio alla sua solita puntigliosità, e Richard si alzò per prenderglielo, seppur con un vago senso di colpa in volto.

«Giusto. Scusa» biascicò.

Notò che invece Verena stava pranzando solo con il purè accompagnato da un po' di pane. Dopo tutto quel tempo, ancora non sembrava abituata alla dieta che si era scelta. Sollevava la forchetta mollemente, come fa chi non gradisce ciò che gli è stato servito, ma lei lo faceva per imporsi di mangiare più piano, di non divorare. Sembrava sempre reprimere una fame più grande di lei.

Consapevole del peso che aveva ormai ogni cosa che pronunciava, le disse in tutta flemma, tra un boccone e l'altro: «Dovresti ricominciare a mangiare la carne.»

Verena alzò il viso dal piatto per guardarlo, e si bloccò. «Perché?»

«Lo vedo che ti manca.»

«Lo sai perché lo faccio. Non è perché non mi piace più.»

«Non puoi applicare l'etica degli esseri umani agli animali. Gli animali non sanno nulla di cosa sia la morte.»

Lei ci rifletté per qualche secondo. «Certo che lo sanno. E comunque non c'entra l'etica.»

«Tu parli dell'istinto di sopravvivenza, io mi riferisco al ragionamento sulla morte. Alla fantasia della morte. Non ci pensano tanto quanto ci pensiamo noi, né tremano di terrore davanti a questo pensiero. Non sanno quanto sono fortunati di essere liberi da quest'angoscia. Non sanno neanche che uccidere è sbagliato, perché non hanno categorie di giusto o sbagliato. Per questo si cacciano a vicenda, è la natura, e noi per loro non siamo nient'altro che l'ennesimo predatore, anche se sembriamo innocui.»

Verena si rigirò la forchetta tra le dita. «Non possiamo scegliere di non essere predatori, noi che ne abbiamo la possibilità? Io vorrei solo evitare... questa sofferenza che si ripercuote dappertutto.»

«Non puoi evitarla. Pensa a quanto è sconfinata l'industria della carne o a quanto sia importante per alcune culture. È solo un modo per pulirti la coscienza.»

«Sonne... è semplicemente che non ci riesco più. Se lo facessi, dopo quello che ho visto nella tua foresta, sarebbe come per te toccare il fuoco di nuovo.»

Questo lo impensierì.

«Non credete che sia materia di uno dei nostri dibattiti serali?» intervenne Richard, spostando lo sguardo dall'uno all'altra come se stesse osservando due giocatori di scacchi. «Anche se mi sembra un po' prestino.»

Verena raddrizzò la schiena. «Stasera volevo parlare d'altro, in verità.»

«Di cosa?» chiese Sonne.

«È una domanda importante che volevo farti già da un po'. Ma sento di essere davvero pronta ad ascoltare la risposta soltanto adesso.»

«Puoi farmela anche ora» le concesse.

«No. Stasera.»

Ammetteva di essere curioso. «E stasera sia.»

Verena annuì e riprese a mangiare le patate.

C'era pace. Nessun grido, nessun'occhiata risentita, nessuna porta sbattuta. La casa era diventata una chiesa; il suo silenzio, lo stesso silenzio maestoso di una cattedrale; la voce di Sonne, quella del predicatore e del Dio che parla attraverso di lui. Dopo la notte della riunificazione, la notte in cui avevano compiuto il loro ultimo atto di tracotanza scoprendo il suo corpo, Richard e Verena sembravano essersi totalmente votati a lui. Non lo sfidavano più. Non combattevano più contro la propria natura. Sonne non riusciva neanche a esprimere quanto ne fosse felice.

Aveva ricavato un'ispirazione incredibile da quell'armonia, senza cui non sarebbe mai riuscito a terminare il manoscritto.

Non che ignorasse il rovescio della medaglia.

Un pensiero intrusivo ogni tanto si faceva largo nella quiete, quando li guardava come in quel momento, fermi e al loro posto, stridenti in quell'idillio pastorale, sempre con le spalle un po' chiuse e il capo chino, come se qualcuno avesse spostato di qualche millimetro l'asse che li teneva saldi: Cosa ne hai fatto di loro?

A volte coglieva nei loro profili un tremolio distorto, e gli veniva il dubbio che stessero per svanire nel nulla, nonostante il suo sguardo, nonostante gli specchi.




Parlavano ogni sera.

Dopo cena, Sonne si ritirava in camera sua a scrivere le ultime righe della giornata, lasciando la porta socchiusa, qualora Richard e Verena avessero bisogno di lui, anche se sapevano benissimo di non doverlo disturbare, e in ogni caso non avevano mai più messo piede in quella stanza. Non ricordava di averglielo vietato, ma gli stava bene così. Quando le campane del Duomo annunciavano le venti, Sonne usciva in salotto e li trovava lì sul divano ad aspettarlo, con i palmi sulle ginocchia, come se stessero attendendo il proprio turno per la comunione.

Lo osservavano con aria cruciale, mentre abbassava le luci: eccoci. Lo osservavano, mentre si prendeva qualche secondo per camminare lì intorno con le mani strette dietro la schiena, concentrato e austero. Con lui, camminavano altre decine di Sonne negli specchi, immagini in penombra vagamente minacciose. Nessuno apriva bocca, in quei minuti di preparazione.

Poi Sonne si sedeva sulla poltrona, e di solito Richard si alzava e andava a dargli un bacio casto prima di risedersi il più vicino possibile a lui.

Era iniziato per caso, poco tempo dopo la riunificazione. Le sue confessioni di bambino, che proprio loro gli avevano estorto, dovevano aver spalancato una nuova voglia di indagarsi. Una sera, a quello stesso orario, aveva chiesto in seguito a un lungo silenzio: «Come siete venuti qui? Ricordate il passaggio da una realtà all'altra? Riuscite a identificare il momento...?», e Verena aveva ribattuto: «Tu ricordi il momento in cui sei nato?»

E così, da quello spunto, avevano parlato per ore dei misteri dell'esistenza, ciascuno con le proprie idee, senza scavalcarsi né agitarsi, e soprattutto senza contatto fisico. Era stato così piacevole, così intenso e conciliante, che era presto diventato un rito senza che se ne accorgessero. In quella formula, non erano più discorsi che facevano venire i brividi. Al contrario, li colmavano di un appagamento pesante e anche un po' inebriante, di saggezza e ingenuità al contempo. Cercare di imbottigliare l'inspiegabile in una manciata di parole li aiutava ad allontanare la depressione della quotidianità, a ricordarsi che c'era pur sempre qualcosa di grandioso in tutto quello. Forse era questo a tenerli insieme, a dare nuove prospettive alla loro condizione. Non tacevano più a riguardo, né da creatura né da creatore. Non ce n'era più motivo. Fingere di non essere ciò che erano. Per la prima volta dopo un anno di lotte, erano avidi di parlare, esplorare, teorizzare.

Era il momento della giornata in cui Sonne li lasciava parlare di più. Trovava illuminante ciò che dicevano, ed era un po' come guardare sotto una nuova luce qualcosa che in fondo già sapeva e che era sempre stata sepolta dentro di sé. Era fiero di loro. Vi ho fatti io, pensava, un concetto che non aveva mai smesso di essere sorprendente.

Talvolta la loro intelligenza eccedeva le aspettative. Specialmente quella di Verena. Nei dibattiti era di gran lunga la più acuta e Sonne non aveva potuto fare a meno di notare la sua crescita linguistica e argomentativa da quando aveva cominciato a leggere di più. A casa o in strada, aveva sempre un libro sottobraccio. Aveva letto anche gran parte dei suoi libri universitari, e tutti i volumi della Deutsche Literaturgeschichte. Aveva attinto a piene mani dal pozzo della sua conoscenza. In un certo senso, per avvicinarsi a lui e al suo livello di comprensione della realtà, per capire cosa aspettarsi dalla sua immaginazione. La cosa più incredibile era che aveva elaborato tutte quelle informazioni di cui anche lui era in possesso in un modo completamente diverso dal suo, secondo la sua sensibilità, pur essendo nata dalla sua mente ed essendo, in principio, limitata al suo orizzonte. Adesso puntava non solo a raggiungerlo ma anche a crearsi un proprio bagaglio, una conoscenza sua, a superare una soglia invisibile per pescare dal reame fuori-di-lui. Quando gli chiedeva soldi per comprare libri nuovi, non gliene dava. Le diceva che erano al verde e che per il momento doveva ancora limitarsi a usufruire della sua libreria. Così aveva iniziato a rileggere all'infinito Christa Wolf e Ingeborg Bachmann. Una volta gli aveva persino chiesto di incontrarle, di portarla a qualche loro presentazione.

«Ingeborg Bachmann è morta anni fa.»

Il colpo l'aveva addolorata come la morte di una conoscente. Si era stretta il suo libro di poesie al petto, una raccolta che conteneva anche An die Sonne, che un pomeriggio gli aveva letto ad alta voce tentando di camuffare il fervore. Dopo qualche istante di silenzio aveva ritentato: «E Christa?»

Le chiamava per nome, quasi fossero davvero sue sorelle. «Lei no. Dovrei informarmi sui suoi prossimi interventi. Posso portartici, un giorno.»

Non credeva di averla mai vista irradiarsi di felicità così di punto in bianco, diventare leggerissima da un secondo all'altro, soprattutto in quella dinamica in cui sguazzavano da qualche mese. Ne fu turbato. Persino geloso – avvertì un pietrisco smuoversi sul fondo dello stomaco. Non aveva davvero intenzione di accompagnarla a una presentazione di Christa Wolf, ma non era importante che lo sapesse, bastava darle un po' di speranza.

Erano due i discorsi di cui si ricordava meglio. Uno di essi era seguito proprio a quella richiesta di Verena.

«Hai mai pensato che ci possa essere un dio anche per te? So che non sei credente, ma ora che hai scoperto che possono esistere forme diverse di divinità, non hai riformulato la tua fede?»

«Non del tutto. Certo, ci ho ragionato, ma non riesco a essere ciecamente devoto a qualcosa che non conosco. È come se la mia spiritualità vedesse un inganno da qualche parte. Forse perché Dio, gli dèi in generale, sembrano così diversi da quello che è accaduto a noi. Rientrano pur sempre nel dominio delle storie, e non considero le storie necessariamente finzione, ma sono concepiti per essere così lontani, inavvicinabili... Non credete che un dio, prima o poi, dovrebbe mostrarsi a ciascuno di noi, o quantomeno lasciare dei segni? Per di più un dio che ama! Cos'è questa storia dell'avere fede, se non un'illusione che gli uomini si sono costruiti per sperare che dietro tutto ci sia una logica imperscrutabile – comodo –, che la morte porterà a qualcos'altro, perché non può finire davvero, non può esserci nulla dopo? A differenza vostra, non ho mai avuto alcun segnale dell'esistenza di una divinità alle mie spalle. È più difficile, per me. Voi ne avete la certezza come non ce l'ha nessun credente al mondo. Tu, Verena, ne avevi la certezza anche prima di incontrarmi. Eri privilegiata.»

«La nostra venuta non può essere un segnale? Siamo noi a esserci manifestati a te, non viceversa. Se non siamo stati noi a volerlo, forse qualcuno ci ha mandati. E poi hai avuto quell'allucinazione sul Sole, da bambino...»

«Esatto: è probabile che fosse soltanto un'allucinazione. O che il manifestarsi divino abbia delle regole sconosciute persino a Dio.»

«Non hai mai più sentito la sua voce?»

«Non che io ricordi.»

«E se fosse una donna, il tuo dio?»

«Cosa?»

«Una donna. Una scrittrice.»

«Non ci ho mai pensato. Non immagino dio come una scrittrice.»

«Nemmeno io lo immaginavo come uno scrittore. Pensa se fosse davvero una questione di scatole cinesi...»

Verena doveva trovare un po' irritante che Sonne credesse di essere il solo, che quel miracolo valesse soltanto per loro, per lui, che proiettasse la divinità verso il basso anziché verso l'alto. Se ne accorgeva dal suo tono. Forse era per questo che voleva parlare con altri scrittori. E, forse, era per questo che Sonne non gliel'avrebbe permesso. Doveva accontentarsi di avere risposte solo da lui. Quei dibattiti erano momenti preziosissimi anche in quel senso. Aveva immaginato tante volte cosa avrebbe chiesto al suo creatore, se avesse avuto la possibilità di incontrarlo. Non era così estraneo a quella fantasia. Aveva immaginato il sollievo di avere finalmente delle risposte dopo una vita passata a interrogarsi, l'immenso senso di protezione che avrebbe provato, di gran lunga più totalizzante di quello trasmesso da un genitore: dinanzi a lui non può accadermi nulla di male. Ammesso che il creatore non gli avesse mentito, come talvolta Sonne aveva mentito a loro.

L'avrebbe amato, se fosse esistito? L'avrebbe temuto, disprezzato?

Non era meglio essere l'unico, dopotutto? Sapere di non poter subire lo stesso potere che subivano Richard e Verena?

Era solo quando ci pensava in questi termini che gli veniva in mente la parola crudeltà.

Ma crudeli sapevano esserlo anche loro.

Il secondo discorso era quello che l'aveva più spiazzato.

«Vorrei un vostro parere. Cosa pensate che dovrei fare con mio padre?»

Verena aveva arricciato il naso. «In che senso?»

«Dovrei fare qualcosa per farlo uscire di lì?» Quasi non si era sentito mentre pronunciava quella seconda domanda. Non aveva mai pensato di aver bisogno di porla a qualcuno, nemmeno a loro. In qualche modo, li stava mettendo alla prova.

Lei e Richard avevano capito che piega avrebbe preso il discorso e si erano animati all'istante.

«Sinceramente no» aveva detto Richard. «Sembrerà insensibile, ma credo che stia bene dove sta.»

Verena gli aveva dato man forte. «Già. So che ti senti in colpa, è un sentimento che comprendo, ma ormai è passato tanto tempo... Perché i genitori obbligano i figli a prendersi cura di loro una volta che sono diventati adulti, quando non hanno chiesto di essere messi al mondo? È un ricatto morale. Non possono continuare la propria vita in santa pace senza di loro o vengono considerati degli ingrati egoisti.»

«Sono d'accordo. E poi, in una struttura adeguata, si prendono cura di tuo padre meglio di quanto faresti tu. Ed è in compagnia. Se lo portassi qui, a chi lo lasceresti quando non puoi stare con lui?»

«... non vuoi portarlo qui, vero?»

Sonne li aveva fissati con gli occhi un po' sgranati, sbigottito. Non era quello che voleva sentirsi dire. O forse lo era, ma sapeva che era la risposta sbagliata. Non credeva alle proprie orecchie: loro, con il loro fervido codice morale che tante volte gli avevano sbattuto in faccia, accettavano quello che aveva fatto a suo padre.

Non era solo perché non lo volevano tra i piedi. Non volevano un altro padre nella loro vita. Un individuo gerarchicamente superiore persino a Sonne, un essere complesso, ottuso, imprevedibile, che gli avrebbe richiesto troppe attenzioni perché ne rimanessero per loro.

Forse era dovuto al fatto che avevano soltanto un'esperienza negativa della figura paterna. Temevano che, introducendolo in quella casa, avrebbe modificato tutto ciò che erano insieme, in peggio, togliendogli una fetta ancora più grande di libertà. La sua innocenza non importava a nessuno dei due. Non provavano pena per lui.

«Io non ci tornerei da mio padre» aveva concluso Richard con disprezzo, incrociando le braccia.

Sonne, sempre sulle spine quando si accennava ad Amburgo, si era affrettato a dire: «Quello non accadrà mai. Eduard ha visto Richard morire. Non puoi tornare ad Amburgo. Non puoi presentarti da lui come se niente fosse.»

«Non c'è pericolo. Sarebbe divertente solo fargli venire un infarto.»

Sonne avrebbe voluto ricordargli che Eduard e il vero Richard non avevano esattamente il rapporto che lui aveva immaginato, che Eduard era una brava persona, che probabilmente l'avrebbe amato come un genitore capace di amare, che lì ad Amburgo aveva anche una madre – forse, come la sua, pronta a credere ai miracoli. Ma non parlavano mai delle loro madri inesistenti. E Sonne non voleva dargli motivi per cambiare idea, anche se aveva tra le mani il potere di restituire un figlio morto o un suo clone ai genitori, di creare un caos senza precedenti nel mondo ordinario, dimostrando così la sua divinità, consegnandosi a una folla disposta a venerarlo.

Aveva assaggiato sul palato il potenziale di quell'eventualità, e per un istante la sua storia era sembrata sul punto di imboccare una strada del tutto diversa. Ma poi non aveva aggiunto altro.

Dunque, nessuno dei tre avrebbe permesso all'altro di ricongiungersi ai propri cari. Era ancora una prigionia in piena regola. Ancora una faccenda privata.




Di padri si sarebbe parlato anche quella sera.

Non appena Sonne si sedette sulla poltrona, seppe che sarebbe stata una conversazione difficile. La determinazione nello sguardo di Verena lo agitava, così come l'aria che aveva e che non sapeva di avere, di chi sta andando incontro al proprio destino con una fermezza da far spavento. Non c'era mai stata un'atmosfera di fatalità simile durante i loro discorsi.

«Qual è la domanda?»

Verena appoggiò i gomiti alle ginocchia, lasciando scivolare i capelli sul petto. Lo fissò negli occhi, non senza una punta di severità. «Cosa avevi in serbo per me?» chiese con voce chiara. «Cos'è che ho fatto ai miei fratelli? Cosa è successo a mio padre? C'è quell'enorme vuoto che non è mai stato colmato, nel mio racconto... Non l'ho più riletto, dopo la prima volta, ma lo ricordo bene. Un vuoto che corrisponde esattamente al vuoto dentro di me. Provo questo senso di colpa micidiale da anni e non so neanche per cosa. La sensazione di essere cattiva e complice di mio padre. Tutto quello che mi ha mosso, che ha spinto i miei fratelli a odiarmi e a volermi ammazzare... non lo ricordo. Non lo ricordo perché non l'hai scritto. Ma di sicuro dovevi aver in mente qualcosa... Non credo cambi molto, ormai, ma voglio sapere cos'è. Hai anche cancellato gli appunti che avevi inserito a margine. Dimmi solo cos'è. Almeno mi metterò l'anima in pace.»

Sonne sbatté le palpebre. Il primo istinto che ebbe fu quello di dire: cos'altro puoi aver fatto, meine Liebe? Non lo immagini? Forza, immaginalo, non sei stupida.

Lo vedo che lo sospetti anche tu. Hai quell'espressione...

Non lo coglieva del tutto impreparato. Si erano già avvicinati pericolosamente all'argomento in precedenza, quando anche Richard gli aveva chiesto di chiarire alcuni suoi vuoti. Tra i più innocui, aveva insistito per conoscere il significato dei suoi tatuaggi, o il motivo per cui se li era fatti. In un clima più gioviale e affettuoso del solito, li avevano decisi insieme, lì sul divano con una tisana tra le mani e una delle prime nevicate invernali fuori dalla finestra: la rondine per la libertà («Sono così banale?», «Magari sì»), il triangolo rivolto verso il basso come simbolo dell'acqua (bastava pensare a quanto fosse importante l'acqua come elemento ne La morte a Venezia, che lui aveva rovesciato in fuoco – triangolo rivolto verso l'alto – ne La morte ad Amburgo), l'anemone per la fugacità della vita e allo stesso tempo un'immagine che lo ossessionava da quand'era bambino, che sognava spesso (e gliela faceva sognare Sonne). Sonne non innestava dei ricordi reali, in questo modo, non poteva modificare la realtà e ciò che loro erano diventati, ma perlomeno conoscere ciò che avrebbero potuto essere dava una risoluzione ai dubbi che li tormentavano. Come farsi raccontare una storia e decidere o meno di rispecchiarsi in essa.

Quel pomeriggio, mentre ci rifletteva, era arrivato alla conclusione che Verena gli avrebbe domandato qualcosa di simile. Finora aveva soltanto rimandato.

Aveva già pronta una risposta, e fu quella che diede, l'unica possibile. «Non l'avevo ancora stabilito.»

Ecco il creatore che mente senza alcun rimorso.

Era un bene che non lo ricordasse. Che non avesse letto o assorbito i suoi appunti. Cancellarli dopo aver ritrovato il racconto doveva essere stata la cosa migliore che avesse mai fatto in assoluto – non tanto per lei, ma per sé.

Era immensamente sollevato, adesso più che mai, di non aver scritto quello che aveva progettato, di aver lasciato dei buchi. Questo gli permetteva, oggi, di poter non pensare a lei come a un'assassina. E a lei di non dover portare questo fardello, ma solo quell'indefinito senso di colpa, e la consolazione di averlo fatto per amore dei suoi fratelli.

Verena parve un po' delusa. Si raddrizzò. «Sul serio? Nulla di nulla?»

«Te lo assicuro.»

«Non puoi provare a ricordare a cosa pensavi quando lo stavi scrivendo...? È davvero importante per me, Sonne.»

«Lo so. Ma avevo in mente soltanto qualcosa di vago. Un atto terribile per proteggere i tuoi fratelli, e basta. È il motivo per cui non ho mai terminato il racconto. Non riuscivo a decidere» disse, cercando di non tradire in alcun modo le idee che invece aveva e che aveva ricacciato indietro a forza. «Se vuoi possiamo rifletterci insieme adesso come abbiamo fatto per i tatuaggi di Richard, ma non sarebbe affatto spontaneo. Non è meglio, a questo punto, lasciare che il vuoto di un evento terribile resti un vuoto?»

Anche Richard ci rimuginò su. «In effetti ha ragione. Fossi in te, su questo preferirei restare nell'ignoranza. Pensaci: per una volta Sonne non ha deciso niente su qualcosa che riguarda la tua vita. Sei libera di riempirla come vuoi, di assolverti.»

«Per quanto possa valere, ti assolvo anch'io.»

La risolutezza di Verena vacillò. Sonne e Richard avevano usato le parole giuste. Non era più così convinta di aggiungere eventi traumatici alla sua vita, di sacrificarsi a tal punto. Eppure era sembrata inscalfibile, fino a qualche istante prima. Adesso stava lasciando trapelare una breccia di conforto. Si aspettava di sicuro un esito diverso, ma era comunque una liberazione. Potersi perdonare e andare oltre.

Si alzò dal divano, e tante altre Verena si alzarono negli specchi. Si prese qualche secondo di silenzio, poi disse soltanto: «Va bene.»

«Hai deciso in fretta» commentò Sonne con un mezzo sorriso. Le allungò una mano per invitarla ad avvicinarsi a lui.

Verena gliela strinse e si lasciò tirare delicatamente in un abbraccio. Ne riemerse infinitamente sollevata, più di quanto sarebbe stata conoscendo la verità, con il viso più roseo.

Mentre lo abbracciava, mentre gli avvolgeva le braccia intorno al collo, mentre Sonne ascoltava il suo respiro nell'orecchio, però, gli balenò in mente una serie di pensieri contro la sua volontà. Come poteva, lei, aver ucciso un uomo grosso come suo padre – grosso come lui? Che metodo aveva utilizzato?

Ma non l'aveva fatto davvero, no. Era solo un'idea. L'idea che per poco, pochissimo, non era stata scritta. In realtà, il motivo per cui non l'aveva portata a termine era proprio che mancava un pezzo: semplicemente non sapeva come fosse avvenuto.

(Ma era avvenuto.)

Non era avvenuto.

Si irrigidì, tuttavia Verena non lo notò e tornò a sedersi accanto a Richard. Ricominciò a parlare con lui.

Sonne cercò di concentrarsi su ciò che stavano dicendo, eppure le loro voci gli sfuggivano, o le afferrava soltanto a sprazzi. La sua testa stava vagando altrove, in una sorta di slancio di ispirazione.

Come? Come? Come?

Non era un crimine, pensare. In questa realtà, non potevano sentire i suoi pensieri. Li lasciò fluire senza preoccuparsene troppo. Fantasticare. Era quello il termine corretto. Fantasticò sulla casa in decomposizione, sui quattro fratelli, sul sangue. In cantina, il cadavere del padre. Nel congelatore. Quando lo avevano scoperto, lei era fuggita. Giusto in tempo (grazie all'intervento divino). Così giovane. Non poteva aver usato il fucile di Günther. Se ne sarebbero accorti. Glielo aveva ordinato lui come Dio, ma non le aveva ordinato il modo. Aveva fatto tutto da sola. Ripensò a tutto ciò che la caratterizzava, a ciò che la rendeva Verena (e Vera), alla sua essenza. Cosa fa la ragazza selvaggia cresciuta nella foresta?

All'improvviso la sua immaginazione generò per lui una scena d'una potenza visiva sconcertante, così giusta e naturale per lei, allineata a tutto il resto che aveva scoperto di Verena da quando l'aveva incontrata di persona. Non poteva essere altrimenti. Era perfetta.

Sonne si tese contro lo schienale della poltrona, mentre la pelle d'oca lo accarezzava fin sui polpacci.

Adesso lo sapeva.




Per il resto della serata si convinse di non essere affatto turbato dalla scena che gli era esplosa dietro agli occhi. Riprese a parlare con Richard e Verena, propose loro di fumare nonostante stessero centellinando le sigarette, continuò, inspiegabilmente, a sorridere in quel modo pacato che scatenava una scarica di gioia nel resto della stanza. Quando lo vedevano sorridere, Richard e Verena si elettrizzavano come se stesse dando anche a loro il permesso d'essere felici senza motivo, certi di non aver fatto nulla che l'avesse contrariato.

Prima di mettersi a letto, li baciò, persino con foga: attirò Verena per un fianco e la premette con forza a sé, per dimostrare a se stesso di non aver paura di lei. Le sue labbra sapevano ancora di tabacco. Per un attimo, dall'aria disorientata ma condiscendente che avevano, credettero che Sonne volesse vederli fare sesso, ma poi li incitò semplicemente a dormire. Ormai non lo facevano più. Anche quei baci erano diventati rari, e importanti proprio perché rari. Una sorta di premio per essersi comportati bene.

Li fece addormentare per primi, stendendosi accanto a loro. Crollarono subito, come se fossero ubriachi di chissà quale nettare prelibato. Verena stava al centro. Nella luce soffusa, la osservò al suo fianco e poi nel grande specchio di fronte al letto, che rifletteva i loro corpi immersi nel torpore. Era tranquilla. Se ne stava rannicchiata a pancia in giù e la bocca un po' aperta, il fiato caldo, la pelle soffice. Era stato lui a spazzare via le sue preoccupazioni. Nessuno, a vederla così, avrebbe mai pensato che fosse una...

Si bastonò mentalmente a quel pensiero.

Non lo era. Era solo una fantasia. Ciò che aveva immaginato non poteva più diventare realtà. Verena era nata con quel vuoto, e con quel vuoto sarebbe morta, a prescindere dalle informazioni che Sonne avesse aggiunto.

Ma se quella è la sua natura, ed è dalla sua natura che ho preso spunto, cosa mi assicura che un giorno non possa svegliarsi e decidere di ammazzare anche me?

La Verena di adesso.

Quella che sto tentando di tenere a bada.

Quella che non mi voleva come dio.

Gli si rizzarono i peli delle gambe. Nonostante il piumone e il calore sprigionato da Richard e Verena, sentì ghiacciarsi.

La guardò di nuovo, le scostò una ciocca di capelli dal collo e provò a razionalizzare. Si disse che era solo una paura insensata. Che aveva pieno controllo su di loro, ormai. Non sarebbe mai successo. Quel viso familiare non poteva fargli del male, né la sua bocca, né le sue unghie.

Inspirò profondamente, credette di essersi calmato, ma dopo qualche momento gli venne la tachicardia.

La sopportò fino a quando non li svegliò per invertire il turno. Magari dormire l'avrebbe fatto rilassare davvero e l'indomani se ne sarebbe completamente dimenticato, o avrebbe ripensato al suo terrore ridendoci su.

Si voltò dall'altro lato, verso la parete, lui che non poteva sparire. Abbassò le palpebre. Le spalancò di nuovo. No, no, non poteva averla alle sue spalle. Si voltò di nuovo verso di loro.

«Sei scomodo?» le chiese lei sottovoce.

«No.»

Si impose di dormire. Ma con il loro sguardo addosso era impossibile. Con il suo, che celava chissà quali macchinazioni. Tenne gli occhi strizzati per un'ora, due ore, tre ore, mentre la scena dell'omicidio proseguiva a ripetizione nella sua testa, arricchendosi sempre di nuovi dettagli, sempre più di sangue. A un certo punto ne fu stufo.

Si alzò e agguantò il proprio cuscino. «Accendete la videocamera» disse soltanto, irritato. Andò a dormire nella sua stanza trascinandosi a piedi scalzi, e non si voltò per vedere la loro reazione.

Ma non dormì neanche lì. Non dormì neanche le notti successive.

La solitudine non era di nessun conforto. Si rigirava per tutta la notte tra le coperte, sudando e imprecando, addormentati, cazzo, addormentati, attendendo che facesse giorno con un'angoscia senza precedenti, pur sapendo che la luce non sarebbe stata un sollievo. Quanto poteva resistere senza riposare? Quanto a lungo avrebbe dovuto sopportare le palpitazioni, la nausea, la propria immaginazione che galoppava imbizzarrita? L'immagine di Verena ricoperta di sangue e sorridente che gli si avvicinava di soppiatto, armata di coltello, riusciva a infilarsi in ogni pensiero che gli si formava nel cranio, persino quelli che non la riguardavano, che pensava sarebbero durati abbastanza da distrarlo e fargli chiudere finalmente gli occhi.

Era vero, non l'aveva scritto. Ma cosa importava se era vero dentro di lui?

Perse il conto di quanti giorni trascorse senza dormire. A non aiutarlo a prendere sonno era anche l'ansia stessa di non prendere sonno, che si affilava ora dopo ora. Alle sei del mattino si arrendeva, si metteva in piedi e iniziava a vagare per casa senza uno scopo, con una sorda voglia di piangere. Richard e Verena venivano da lui poco più tardi.

«Non hai dormito neanche oggi?»

«No, no, no!» sbraitava. «Non ce la faccio più!»

Loro ammutolivano all'istante, con lo sguardo che si bagnava d'apprensione, ma sapevano di non poter fare niente per risolvere il problema, e perciò si spegnevano come un cerino, abbandonandosi a quel senso di inutilità.

Sonne voleva che lo lasciassero in pace. L'avevano capito da soli. L'unica volta che Richard provò ad accarezzargli un braccio lo spinse via urlandogli contro, anche con una certa, malsana soddisfazione nel vederlo sbiancare.

Quei giorni senza tregua per la sua mente tirarono fuori tutta la sua irritabilità e cattiveria. Una sera, con la testa reclinata sul divano e gli occhi socchiusi mentre l'emicrania s'intensificava, disse loro senza alcuna ragione particolare: «A volte vorrei che foste delle statue e non degli esseri umani, ma così non mi servireste a niente.»

Non erano parsi poi tanto sconvolti, solo... assenti, come se la cosa che avesse detto fosse addirittura troppo grave per essere assimilata. Avevano inclinato un po' il capo, sovrappensiero, indulgenti a un livello ormai patetico. Stavano più appiccicati del solito da quando li stava ignorando. Sperava che avessero pianto, dopo. Era ingiusto che fosse l'unico a soffrire lì dentro.

Gli ultimi giorni di quella settimana credeva di star galleggiando, di non toccare il pavimento quando camminava, curvo su se stesso, tra le pareti che oscillavano. Non parlava più. Non sopportava più il minimo granello di luce, la sua maledetta immagine che si rifletteva ovunque sugli specchi, che quasi sembravano deriderlo: guardati, guardati... E una mannaia che gli spaccava il cervello in due. Gli pulsava la testa anche solo a respirare.

Gli sarebbe presto venuto un infarto o un ictus, per colpa di quella troia di Verena. Prima danzava suadente nella sua testa, illudendolo di poter raccontare meraviglie attraverso di lei, e poi lo gettava nel rimorso e nel terrore assoluto. Sarebbe morto, e non avrebbe mai finito il manoscritto. Non aveva scritto una sola riga in quei giorni. Se non dormiva, non poteva scrivere. Era quella la cosa più grave. Tutti quegli sforzi vani. Ops, auf Wiedersehen. Avrebbe dovuto ammazzarla prima che lo facesse lei. Perché le aveva fatto quella dannata promessa, che non l'avrebbe mai lasciata morire? Forse, così, sarebbe riuscito finalmente ad addormentarsi. Se solo avesse avuto le energie per strangolarla.

Quella domenica cedette allo strumento che gli avrebbe salvato la vita. Aveva stretto i denti il più possibile perché a quel compromesso proprio non voleva scendere. Mandò al diavolo la propria intransigenza e aprì il mobiletto dei medicinali in bagno. Pochi movimenti calcolati, perché l'emicrania non gli mandasse fitte accecanti. Fissò per qualche secondo il cilindro di plastica con le capsule di morfina che aveva preso per Verena l'anno precedente e che mai più aveva toccato, come se lo stesse sfidando: se mi fai morire giuro che mi incazzo. Non era sicuro che fossero adatte allo scopo ed era terrorizzato dall'effetto che avrebbero prodotto in lui, ma non aveva sonniferi, e non voleva mandare Richard e Verena a comprarli in farmacia. Non dovevano sapere che aveva ceduto. L'avevano già visto fin troppo debole.

Stappò il cilindro e ingollò due pillole di fila con un bicchiere d'acqua riempito dal lavandino.

Durante l'ora successiva ogni dolore e sensazione negativa fluì via dal suo corpo. Anche la scena omicida di Verena. Si pentì di come si era comportato, ma subito dopo anche il senso di colpa si dissolse, divenne una cosa fumosa e staccata da lui. Sembrava tutto riparabile. Bastava chiedere scusa. A loro, a sua madre, a suo padre. Che bella prospettiva. Come aveva fatto a non pensarci prima? Fossero lodati gli oppioidi!

Alle sedici già dormiva come un bambino, dritto sul proprio letto.







Note d'autrice:

Sono tornata! Ci ho messo un po' a scrivere questo capitolo perché sono stata occupata sia con la scrittura della tesi, sia con i pochi impegni estivi che ho preso. Tra tutti, il 12 luglio sono andata a Torino a vedere il mio primo concerto dei Rammstein - a cui devo il 90% dell'ispirazione per questa storia, non ne ho mai fatto mistero - ed è stata semplicemente un'esperienza indescrivibile, per dirla in modo banale. Ero in transenna, con Till (e Paul, amore mio) a pochi passi da me. Mindblowing. Lifechanging. 

Tornando a NEBEL, come posso commentare questo capitolo? Abbiamo Sonne che è un dio ateo e fa il padre padrone con Richard e Verena, abbiamo lunghe riflessioni esistenziali legate a quello che sarà il destino di questi personaggi, un easter egg su me medesima come scrittrice, il ritorno della morfina (da qui il titolo del capitolo)... Ammetto che ho ridacchiato abbastanza a Sonne che pensava, fondamentalmente, "perché non mi sono drogato prima?", anche se in realtà era un pretesto per mostrare un'altra forma del suo senso di colpa, del rimorso che prova nei confronti di Richard e soprattutto di Verena. Ci è andato giù pesante, non trovate? 

Domanda finale per voi: cosa pensate che sia venuto in mente a Sonne riguardo a Verena e l'omicidio del padre? 💀 In ogni caso, vi anticipo che si scoprirà nel prossimo capitolo, che fremo di scrivere.

Spero di ribeccarvi lì ♥

A presto!

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