XL. Körper

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N E B E L

XL.

Körper



Il suo corpo era sbilanciato a destra.

Sul suo corpo si stendeva un velo increspato di carta stagnola, ma di pelle, più su un lato che sull'altro. Verena lo osservò come se fosse un cacciatore che si preparava a scuoiarlo. L'aveva visto fare diverse volte dai suoi fratelli, soprattutto da Ingeborg, anche con animali di grossa taglia. Aveva visto il modo in cui la spessa coperta di cuoio si staccava dai muscoli, con l'aiuto di una lama.

Crucciata, incrociò le braccia. Non era la forma che si aspettava dopo quel racconto, né rispecchiava l'immagine del suo corpo che aveva provato a indovinare in quei due anni. Sin dalla sua venuta aveva desiderato scoprire cosa ci fosse sotto. Sin dalla sua venuta aveva desiderato toccarlo, per ricongiungersi, inconsapevolmente, al principio di sé. Nessuno immagina di poter sfiorare di nuovo l'utero da cui si è nati, o di poter tracciare il luogo in cui si fluttua in una fase di pre-esistenza.

Adesso Verena lo stava vedendo con i propri occhi, il suo segreto.

L'involucro della galassia in cui era stata generata, il guscio d'uovo dell'universo, non solo l'interno, ma anche l'esterno.

Un corpo di bambino spalmato su un corpo di adulto.

Non c'era più nulla, ora, che il suo dio potesse tenerle nascosto.



Il suo corpo era sbilanciato a destra.

Sul suo corpo qualcuno aveva inciso delle ragnatele con un attizzatoio, di fili sottili e fili spessi, su cui i ragni della sua mente si sarebbero divertiti a zampettare. In mezzo a quella trama, nei crateri di pelle sana, spuntava una sporadica peluria. Sulla destra, tuttavia, imperava una distesa uniforme in leggero rilievo, liscia, di color rosa sbiadito e dai bordi frastagliati. Occupava il fianco e una parte del petto, poi dalla spalla scendeva in picchiata lungo il braccio e si interrompeva giusto prima del polso.

La parte sinistra pareva aver lottato per respingere la sua avanzata, e su di essa erano rimaste solo poche tracce, così come sulle cosce.

All'espandersi e allungarsi e stirarsi del suo corpo – aveva raccontato del dolore, avrebbe preferito di gran lunga restare piccolo per sempre, per sopportare una vergogna più piccola – le cicatrici si erano spostate formando una mappa tutta loro, fatta apposta per essere percorsa con le dita, come il braille.

Una Germania dell'Est.

Sì, pensò Richard guardandolo, sembrava proprio la Germania dell'Est disegnata su un corpo d'uomo.



Il suo corpo era il corpo di sua madre, che l'aveva partorito, e che lui, per ricambiare quel dono, aveva condotto alla morte.

Il suo corpo era il corpo di suo padre, la ripetizione della sua menomazione, trasferita dall'uno all'altro per mezzo di una risata.

Il suo corpo era il corpo dei medici che avevano tentato di curarlo e che invece ne avevano fatto una creatura di Frankenstein.

Il suo corpo era il corpo dei suoi nonni, che gli avevano offerto una casa.

Il suo corpo era il corpo di Stefan, primo e ignaro, innocente, colpevole occupante.

Il suo corpo era il corpo di Sonne, col Sole marchiato addosso, e nella mente.

Il suo corpo era il corpo di Richard.

Il suo corpo era il corpo di Verena.

Il suo corpo era di chi lo guardava e di chi lo leggeva.

Sapeva che lo stavano reclamando.

(Tutti.)

Non apparteneva più a se stesso.



(Il suo corpo era una porta.)



(Il suo corpo era un confine.)



Verena avanzò verso di lui.

Sonne rimase immobile, ma il pudore lo fece contrarre ancora di più nelle spalle. Aveva i gomiti stretti ai fianchi e le gambe serrate, incollate, e come se il suo desiderio fosse quello di comprimersi su se stesso fino a scomparire, dopo essere esistito per tutto quel tempo in maniera così ingombrante.

I suoi occhi non avevano mai mandato lampi tanto intensi di tenerezza.

Nudo, non aveva più potere.

Verena sollevò i palmi per dimostrargli di essere disarmata, di non avere alcuna intenzione di fargli del male. Poi li adagiò con estrema lentezza sul suo petto, sentendo frizzare le abrasioni lasciate dall'asfalto.

Ecco finalmente la sua pelle.

Ingoiò un respiro insieme all'emozione mistica che le si stava arrampicando in gola, un pianto di gioia o un grido. Sonne la guardava con le labbra schiuse e lo sguardo offuscato.

Non stava dicendo di no.

Finse che le proprie dita fossero piume a un soffio dal suolo e le fece scivolare lungo le sue spalle, prima salendo e poi scendendo verso le braccia. Il tatto la aiutava a riformulare la consapevolezza del suo corpo. Dalle ustioni si sollevava il calore d'una fornace. Più da vicino, intravedeva la lava silente che scorreva al di sotto di esse come tra crepe d'argilla.

Non seppe trattenere la voglia che era venuta a galla, che fino a qualche ora prima aveva ripudiato. Aveva aspettato la verità, che sembrasse più umano ai suoi occhi, offrendole un banchetto delle sue sofferenze per compensare quelle che le aveva causato?

Si alzò in punta di piedi e lo baciò, di un bacio umido e leggero.

Forse Vera l'avrebbe baciato così.



Richard ronzò intorno a loro.

Come poteva star fermo quando tutto il nettare del mondo era su quel corpo, una sostanza più spaventosa e miracolosa di qualsiasi droga, farmaco e veleno?

Verena, dopo averlo toccato, prese a baciarlo.

Richard non ne era neanche sorpreso: aveva avuto la stessa idea, no, lo stesso impulso.

Girò in tondo, a passi lenti, assecondando la danza che gli cresceva dentro. Osservò i loro movimenti con l'attenzione e la fame di un rapace. Osservò la schiena irrigidita di Sonne, fino alle natiche, anch'essa più martoriata sul lato destro, a tal punto che pareva un collage di tessuti diversi. Anche il suo volto era ferito a destra, sulla tempia, ora che ci pensava. Strusciò leggermente il naso sulla sua scapola, sotto cui si nascondevano i polmoni – dovevano essere larghi e proporzionati al suo torace, il doppio dei suoi, come se ne avessi avuti quattro e non due. Forse aveva anche due cuori. Quattro reni. Sessantasei vertebre, eccetera. Inalò il suo odore. Gli schizzò all'istante nel cervello; ne fu talmente stordito che dovette abbassare le palpebre, temendo che avrebbe cominciato a sanguinare dalle narici.

Quando Verena si staccò, Richard subentrò al suo posto accarezzandogli una guancia.

Bacia me, ora.

Sonne chiuse gli occhi, in una sorta di antica disperazione, e si arrese con la propria lingua a ricambiare, con più veemenza.

Lo stavano corrompendo abbastanza?

Era lecito quel desiderio per la sua debolezza, per le sue cicatrici?



Era quello che li faceva eccitare, che Sonne fosse, per una volta, debole?



Oh, ma faceva eccitare anche lui, il suo corpo non mentiva.



Il suo corpo lo tradiva.

Il suo corpo aveva desiderato di essere toccato da loro per lungo tempo.



Era come essere inghiottiti di nuovo dal fuoco.

L'elemento più alto del cosmo, per certi antichi filosofi, più leggero persino dell'aria, responsabile della luce e della vita.

Erano loro a modellare le fiamme su di lui, adesso, tutt'altro che lievi.

A dargli ciò che più gli faceva paura e che più gli dava piacere.

Richard fece un passo indietro, si sfilò il maglione in un gesto nervoso e ne riemerse con i capelli scombinati. Verena, con più garbo, fece lo stesso.

Si ricordavano benissimo di chi erano, in quel momento.

Dalla loro prospettiva, stavano facendo ciò che andava fatto esattamente come andava fatto: dopo i maglioni, rimossero dal loro corpo scarpe, pantaloni e biancheria, in movenze quasi goffe, per liberarsi in fretta degli strati che non gli appartenevano.

Le loro due immagini per un istante si sovrapposero davanti a lui, come quando si cerca di guardarsi la punta del naso.

E ora, quel triangolo di pavimento in cui erano tutti e tre vicini, vicinissimi e nudi, si ritrasformava nel giardino dell'Eden, o in un gioco di specchi.

Guardandolo, Richard e Verena guardavano se stessi.

Avevano vissuto per lui quella loro breve vita. Avevano percepito per lui. Goduto per lui. Attraverso di loro, aveva vissuto la felicità che aveva negato al proprio corpo. E adesso loro volevano restituirgliela. Non senza cattiveria, non senza rancore. Restituirgli lo pneuma, il soffio vitale, direttamente con un tubo nella trachea.

Adesso volevano essere loro a inventare lui.

Con la pura materia sprovvista di pensiero.

Del resto conoscevano soltanto un modo fisico, passionale, muscolare di stare al mondo.

Sonne si mosse in avanti, con l'intenzione di fermarli, ma in quella stanza soffiava un vento che li spingeva in una sola direzione possibile, e senza sapere come si ritrovò da un secondo all'altro a sospirare di nuovo in mezzo alle loro bocche e alle loro mani, che agivano all'unisono al pari di una macchina perfetta, e senza sapere come anche le sue braccia li strinsero a sé, arrancò ad afferrare spalle e cosce, li premette contro la propria pelle, perché poteva contenere tutti e due, ecco perché il suo corpo era così grande, sì, per poter abbracciare e chiudersi attorno a entrambe le sue creazioni, gli era mancato così tanto durante il loro abbandono, aveva il dovere di desiderarlo, di non farli mai, mai, mai più andare via.

Reclinò la testa all'indietro, e Richard gli leccò il collo, e Verena prese a massaggiargli l'erezione – curioso: sapeva esattamente come avrebbe agito la sua mano, che andamento avrebbe seguito, su che punti si sarebbe soffermata.

Era piacevole. Era sollevato dal fatto che fosse piacevole. Almeno non sarebbe stata una tortura.

Si aggiunse anche la mano di Richard, e mentre proseguivano in quell'opera i loro respiri sulfurei gli sbatterono sulle clavicole. Lo guardavano con gli occhi velati, il volto alzato verso di lui, folli nel prefigurarsi l'estasi verso cui lo stavano dirigendo.

(Non avrebbe dovuto permetterglielo: sarebbe stato il colpo di grazia.)

Dopo qualche attimo lo trascinarono nella stanza di Verena, tirandolo ciascuno per un polso.

Non si oppose.

La sua volontà adesso era schiacciata sotto i loro piedi: volevano che capisse come ci si sente a esser manovrati da fili altrui, per una volta, e quella era l'occasione perfetta, sottrarsi sarebbe stato un sacrilegio per chiunque.

(Era questo che volevano sin dall'inizio, le sue mantidi.)

(Perché li aveva immaginati così, sin dall'inizio.)

(Così brucianti di vita da non riuscire ad ammettere che qualcuno potesse ripudiare il proprio corpo a quel modo.)

(Adesso gli stavano dicendo: vieni, lo amiamo un po' noi per te.)

(Noi che siamo pezzi di te.)

Era il massimo confronto che doveva avere con la loro furia. Si erano messi in testa di correggerlo, di riparare a tutto quell'odio che provava per se stesso, vendicandosi.

Non andava bene il nostro rapporto così com'era prima? Prima di scoprire tutto, intendo. È così che dovremmo ritornare. Eravamo così felici. Io ero felice. Perché avete per forza bisogno di questo?

Quando lo fecero stendere sul letto, come scienziati con la propria cavia prima della dissezione, li guardò, lì davanti a lui, e non seppe di chi avere più paura. Non era preparato, e non poteva neanche tirare a indovinare, doveva limitarsi ad assistere e a ricevere tutto ciò che di devastante sarebbe successo.

Aveva un'idea abbastanza chiara di come fosse il sesso con una donna, anche se nessuna donna era Verena. Nulla sapeva, invece, del sesso con un uomo.

I due si scambiarono un'occhiata e Richard le fece un cenno sbrigativo con il mento. Allora Verena salì per prima con le ginocchia sul materasso.

Sonne la seguì in ogni singolo movimento che le fu necessario per avvicinarsi e mettersi a cavalcioni su di lui. La accolse su di sé prendendola per mano, per permetterle di trovare il giusto incastro sul suo corpo: lei accettò con una presa ferrea, e Sonne si soffermò sulle loro dita che si fusero in un'unica mano pur di non guardare la cicatrice che la tagliava in due sopra il pube. Anche loro erano pieni di segni, dopotutto. Ora Verena aveva uno sguardo serissimo, solenne, fiero. Con quello sguardo, si sputò sul palmo libero e, seppur con una leggera difficoltà, spinse il suo pene dritto dentro di sé.

Sonne chiuse gli occhi d'istinto – un istinto che non aveva mai provato prima. Ma vedeva comunque, vedeva tutto come se gli fossero cadute le palpebre, li conosceva a memoria, intuiva ogni guizzo che gli avrebbe smosso le guance, ed erano sempre loro che gli comparivano dinanzi quando adombrava lo sguardo. Non riuscì a rilassarsi, così indirizzò tutti i propri pensieri al punto in cui i loro sessi s'incontravano e sfregavano, sulla banale meccanica dell'atto che gli esseri umani praticavano da migliaia di anni, e che lui aveva sempre immaginato come una cosa che non lo riguardava.

Verena, mentre ondeggiava, si abbassò di più su di lui reggendosi con le braccia al materasso. Richard intanto si stese accanto a loro, su un fianco, e gli scostò i capelli dalla fronte. «Apri gli occhi» gli sussurrò all'orecchio.

Sonne eseguì malvolentieri.

La visuale dei loro volti appannati dal piacere, però, lo rasserenò per un istante. Avevano un'espressione del tutto identica, dalle sopracciglia aggrottate verso il centro. Com'erano belli, anche nella loro ferocia. Richard si stava già masturbando con una certa foga.

«Vacci piano» lo rimproverò Verena, senza smettere di muoversi. «O non resisterai a lungo...»

Richard s'indispettì. «Non è colpa mia se non combino niente da mesi e sto letteralmente esplodendo

Sonne, sempre più angosciato da ogni tassello che si andava ad aggiungere, si chiese cosa ne fosse stato della loro armonia. Avrebbero trasformato quella lotta con lui anche in una lotta tra di loro, con il suo corpo come campo di battaglia, che si sarebbero contesi fino a farlo a pezzi? Non sapeva se fosse peggio averli come alleati contro di lui, o come nemici armati fino ai denti.

Verena, per qualche motivo, si offese. Non rispose, ma cominciò ad andare più veloce su di lui, come se avesse deciso che doveva venire il prima possibile, ora, adesso, subito, per dimostrare chissà cosa a Richard. Tutto quello scivolare su e giù la rese in effetti una scheggia di eccitazione.

Sonne non ne fu immune. Qualcosa iniziò a liquefarsi nel suo ventre, e tra le tempie. Decise di accompagnare con il bacino il suo andamento marziale, ripensando a tutte le volte che avrebbe voluto farlo, quando la guardava fare sesso con Richard, cioè quando era tutto al posto giusto, e se l'era negato. Per la prima volta poteva sapere cosa si provava a stare dentro di lei.

La ragazzina della foresta, non più ragazzina, che l'aveva venerato come una santa.

L'aveva perdonato?

Era attratta davvero dal suo corpo grinzoso, o la eccitava solo l'idea di...


... di scopare Dio?


Lo meravigliava che qualche ora prima, sul lungofiume, l'avesse rifiutato con ribrezzo e che dopo il racconto sul suo passato, invece, dopo aver visto la sua pelle, ossia la vera ragione per cui avrebbe dovuto provare ribrezzo, l'avesse baciato lei per prima. E dire che aveva temuto di scatenare ancora di più il suo odio. Ma ormai la conosceva. Era una forma sporca di pietà. Si stava approfittando di lui nel momento in cui era più vulnerabile. Voleva una rivalsa?

Le sue gambe gli dicevano di sì: rivalsa, rivalsa, rivalsa.

Le sue gambe erano sempre state forti e resistenti, le gambe di un predatore, anche adesso che s'era sciupata e non toccava cibo sano da mesi, e le braccia le si erano assottigliate, e il seno s'era fatto un po' più cadente, come si addiceva a un corpo reale sferzato dalla realtà, ma le gambe...

Verena affondò il viso nella sua spalla e continuò a muoversi convulsamente su di lui.

A un certo punto, proprio quando Sonne era riuscito a entrare in contatto con il suo godimento, un dolore nell'incavo del collo gli fece esplodere una nube di terrore bianco dietro le orbite.

Le viscere gli si ribaltarono e la mano corse di riflesso a stringere il collo di Verena per staccarla da sé.

Lei sgranò gli occhi e rallentò, tornando con la schiena dritta.

«Che... ti prende...?» boccheggiò, nella sua stretta che pareva volesse soffocarla.

L'aveva morso.

L'aveva morso.

Il cerchio che i suoi denti gli avevano lasciato nella carne pulsava impazzito. Gli sembrava un miracolo che dalle sue labbra non stesse gocciolando sangue.

«Non farlo mai più» disse soltanto, con la voce impastata.

«Va... va bene...»

Poi lasciò ricadere la mano, fiacco, come se quell'unico slancio gli fosse costato metà del tempo che gli restava da vivere.



(Vuole uccidermi.

C'è una parte di lui che vuole ancora uccidermi.)

Che reazione esagerata per un morso innocente, a Richard non ha mai fatto male...

Avvertì la sue dita ruvide premute sulla gola anche quando ne fu liberata e il respiro le tornò regolare. Non sarebbe più riuscita a venire. Ci aveva sperato, all'inizio. Aveva avuto la sensazione di poter di nuovo scoppiare di piacere come un tempo. Ma non dopo quella reazione. Qualcosa si era definitivamente, irrimediabilmente spento.

Né Sonne né Richard avevano alcun interesse a darle piacere.

Non avrebbero neanche tentato – la davano per spacciata.

Lo capì quando propose a Richard di prenderla da dietro mentre continuava a cavalcare Sonne. Voleva vedere se, sperimentando la doppia penetrazione, gli orgasmi potessero tornare. Ma Richard aveva ridacchiato, come se stesse scommettendo con se stesso se avrebbe avuto la faccia tosta di chiederglielo oppure no, e aveva fatto spallucce. «Ok, proviamo.»

Era stato avvilente, per i primi istanti, sapere che avevano una nottata intera dinanzi a sé e che lei non ne avrebbe ricavato nulla, se non essere sbattuta qua e là sul letto in posizioni scomode. Ma non per questo era disposta a rinunciarvi. Anche se non era più la stessa persona, non se la sentiva di togliere questa soddisfazione alla vecchia Verena. Era la prima volta, ma si stavano comportando come se fosse un'ultima volta, tutti e tre. Perciò stavano resistendo, ognuno stringendo i denti per le proprie ragioni, e perciò si sarebbero presi ogni attimo necessario per esplorare tutto ciò che andava esplorato.

Prima di mettersi in ginocchio dietro di lei, Richard le afferrò le guance e le diede un bacio che sapeva di rabbia e sarcasmo. Verena si dimenò e lottò per bloccargli le mani, ancora seduta su Sonne, con la sua erezione tra le gambe, ma finì col baciarlo di rimando, in uno di quei loro baci affamati che Sonne aveva sempre amato in silenzio con una scintilla nello sguardo.

Anche Richard dovette lubrificarsi con la saliva, in assenza d'altro. Non avevano neanche più comprato dei preservativi nell'ultimo periodo. Quando si fece largo tra le sue natiche, prima con due dita e poi con il membro, Verena drizzò i muscoli e si resse forte a Sonne. Rivolse un gemito sonoro al soffitto.

«Ti piace?» le chiese Richard all'orecchio, con voce roca, stabilendo il ritmo per tutti e tre. Delle spinte oscillanti, non troppo rapide.

Questo la rincuorò un minimo.

«S-sì...» rispose.

«Abbassati un po' di più.»

Verena annuì, e fu di nuovo più vicina al volto di Sonne, sì appagato, ma anche stirato in una specie di rassegnazione. Le portò i capelli su un lato solo, di fianco alle loro teste come una coltre fitta, e poi le passò il pollice sul graffio che si era fatta sullo zigomo.

Si domandò se loro due si sentissero attraverso di lei. Era di certo un nuovo modo di entrare in comunione, di aprire un cancello su una quarta dimensione nascosto dentro il corpo. Se si fosse aperto, avrebbero potuto sentire non solo i pensieri l'uno dell'altra, d'ora in avanti, ma anche le sensazioni, il caldo, il freddo, il dolore, ammesso che provassero tutti dolore allo stesso modo, fino ai sussulti degli organi interni, e così il ritorno a uno sarebbe stato completo. Mai più separati. Per sempre prigionieri l'uno dell'altro. Addio amata libertà.



(La carne intrappola.)

(La carne spaventa a morte.)

(Se solo si potesse essere una mente senza corpo.)



Gli era mancato fare sesso con lei senza sentirla piangere dopo dieci minuti.

Adesso l'ostinazione le stava permettendo di durare e godere di più, o forse era solo la presenza di Sonne, che tanto aveva detto di disprezzare, lei che in quei mesi gli aveva proibito di vederlo e persino di parlarci.

Sei un'ipocrita, Reni.

Però ti capisco. È la nostra debolezza, la nostra condanna, cos'altro possiamo fare?

Quella voglia di dispetto che gli sguazzava nelle vene lo spinse ad aumentare la velocità delle spinte. Lei emise un singulto di sorpresa, allora la prese per i fianchi e la attirò ancora di più verso di sé.

Lo faceva impazzire abbassare lo sguardo e vedere i loro genitali incastrati come costruzioni, le loro sei gambe intrecciate in una struttura inedita e inaspettatamente funzionale, le sue, magre e pallide, quelle morbide di Verena, divaricate, e quelle massicce e più pelose di Sonne.

Lo spettacolo migliore, però, era guardare lui sotto di lei.

Gli rivolse un sorrisetto, tra gli ansiti, come a dire: voglio che dopo lo fai anche a me. Stai guardando? Voglio questo. Esattamente questo.

Sonne dovette intuire e per un istante parve scettico di quello che gli stava chiedendo. Questo gli fece montare una frenesia ancora più strafottente in corpo. Richard si rendeva conto di essere l'unico dei tre a desiderarlo davvero. Sonne e Verena lo stavano facendo per motivi diversi, qualunque essi fossero. Più che intristirlo, la cosa lo faceva incazzare.

D'un tratto Verena si sollevò e sfilò via da entrambi, la pelle ricoperta da un velo di sudore, di nuovo del suo odore ferino, assai simile a quello tra le sue cosce. «Cambiamo» disse.

Sonne si alzò su un gomito. Non tolse gli occhi di dosso a Richard, in attesa di quello che avrebbe pronunciato.

«Posso mettermi io al centro?» domandò lui, allontanando i capelli che gli erano finiti sul viso.

Sonne annuì dopo un attimo di silenzio.

Richard gli sorrise. «Bene. Lavora di saliva perché è tutto ciò che abbiamo.»

«E inizia prima con le dita» suggerì Verena.

Si stesero tutti e tre, l'uno che dava le spalle all'altro, e Richard in mezzo come concordato. Si appoggiò al petto di Sonne con la schiena, assorbendo all'istante il calore che sprigionava. Prima di cominciare, Sonne si prese qualche secondo per abbracciarlo, accarezzarlo, posargli un bacio su una spalla. Richard credette di affondare da qualche parte, nelle profondità di un fiume dove l'acqua era calda e limpida, perché illuminata dal sole di mezzogiorno – sì, dal sole anche di sera, a ogni ora. Quando sarebbe stata l'alba, quel giorno, il quattro ottobre, i raggi che avrebbero fatto capolino dalla finestra li avrebbero trovati già risplendenti di una luce abbacinante interna alla stanza, perché il sole non se n'era mai andato.

Sonne lo stuzzicò timidamente con le dita, il che lo fece già mugugnare di piacere e lo portò a pensare che, cazzo, Verena aveva ragione, non avrebbe resistito a lungo.

Infine, quando Sonne lo penetrò, aiutandosi con una mano, Richard reclinò la testa all'indietro in preda all'estasi. Neanche lui sapeva per quanto tempo avesse bramato quel momento. Come poteva, l'altro Richard, non aver desiderato Sonne altrettanto intensamente? Come poteva essergli passato davanti nel piazzale e nelle aule dell'università per settimane, mesi, senza accorgersi di quanto Sonne si stesse struggendo per lui? Era stato così fortunato, e così stupido.

Ma la morte non era riuscita a separarli.

Entrò di nuovo in Verena, l'erezione più turgida che mai. Per la prima volta dopo un'eternità, si sentì di nuovo felice di vivere nel proprio corpo. Non era il clone di nessuno. Era soltanto se stesso, tra le loro braccia.



Non era poi molto diverso, con un uomo e con una donna.

Il piacere era molto simile, le sensazioni sulla pelle pressoché indistinguibili.

Tutta una vita a preoccuparsi, a reprimere quella curiosità sconveniente e a fare congetture, per poi scoprire che, nell'essenza, cambiava ben poco. Cambiava solo ciò che il mondo ci aveva costruito attorno.

Per un secondo le figure di Meier e di Oskar, o almeno una sua versione adulta e nebulosa, si materializzarono nei suoi pensieri.

Con leggero affanno, continuò a spingersi dentro Richard, aggrappato alla sua carne bianca: lo tirò per un fianco, per un braccio, per fare leva, ostacolando involontariamente il suo ritmo su Verena. Schiacciato tra loro due, Richard vibrava di godimento. Sembrava sempre più al limite, al limite di sopportazione umana, a un certo punto emetteva un verso strozzato, allora rallentava per un istante e si imponeva di resistere, grugniva, e poi riprendeva con i suoi colpi d'anca irrequieti che facevano sbattere contro il muro la testiera del letto. Con le mani però non vacillava un secondo, voleva toccare tutto di loro.

Forse temeva che non sarebbe accaduto mai più.

O era solo ingordo dell'amore per cui era venuto alla luce, che in un certo senso gli era stato promesso.

Sonne era così concentrato su di lui che non sentì neppure quando gli chiesero: «Vuoi provare anche tu?»

Glielo fece ripetere, e si dimenticò all'istante di chi dei due avesse pronunciato la frase. Si bloccò.

«Volete...?» domandò, allontanandosi di riflesso sul materasso di qualche spanna, a carponi come chi gattona da poco, ma la voce gli uscì a stento.

Loro si misero a sedere con le gambe stese di traverso e fissarono quello spettacolo umiliante, cosa che era stata sin dall'inizio, senza rispondere, senza alcuna misericordia negli occhi.

No, non glielo stavano chiedendo. Lo stavano esigendo, a modo loro.

(Non vi basta tutto questo? Perché non vi basta?)

Se da un lato una parte di lui avrebbe voluto dirgli di no, un'altra, il suo rovescio che desiderava fondersi a loro una volta per tutte, si lasciò abbracciare senza la minima protesta, con la stessa impotenza di chi osserva precipitare nel vuoto qualcosa che gli è scivolato dalle dita sull'orlo di un crepaccio.

Ricominciò così, tre corpi in ginocchio tra le lenzuola che formavano una piramide di pelle al centro del letto. Di nuovo baci appiccicosi sul petto, sulla schiena, nell'incavo del collo, così asfissianti da mozzargli il fiato. Avrebbero continuato a infierire su di lui se avesse perso i sensi? La cosa peggiore era che riusciva a immaginarsi tutto di Richard e Verena, ma non fin dove potessero spingersi. Premuto contro di loro – loro premuti contro le sue immonde cicatrici, le sue squame – guardò per un attimo verso il soffitto alla ricerca di un aiuto divino.

(Non capisco... non capisco se questa è una ricompensa o una punizione...)

Tornarono l'uno sull'altro, l'uno accanto all'altro, l'uno dentro l'altro.

A dire il vero, perse presto la concezione di spazio, secondo quali leggi si collocassero i corpi nello spazio e cosa li tenesse insieme, come aveva perso ore addietro la misura del tempo. Da quanto stavano andando avanti? Una fitta pungente, mista a un piacere ruvido, gli risalì formicolando lungo la spina dorsale. Richard. Le sue ginocchia nei fianchi e le gambe di Verena avvolte intorno alla vita. Lo stritolavano. Li sentiva palpitare come se la palpitazione provenisse dall'interno di sé. La stessa energia, gli stessi impulsi elettrici li animavano. Probabilmente se il cuore avesse smesso di pompargli il sangue nelle vene, anche il loro si sarebbe fermato all'istante, stroncandoli tutti e tre mentre erano immersi l'uno nell'altro, in quegli anelli di carne che rappresentavano uno dei pochi accessi alla caverna segreta di brutture e meraviglie che era il corpo.

Presto non riuscì più a capire di chi fossero le mani, di chi le gambe, ogni cosa che toccava era sua e gli provocava una sensazione tattile – eppure era convinto che quel gomito fosse di Richard, quel piede di Verena, ma a sentire il contatto era stato lui, dunque erano loro che lo stavano toccando con le sue mani, stavano respirando con il suo naso, gemendo con la sua laringe – come se tutto facesse parte e si stesse protendendo all'infuori dal suo corpo, delle mostruose estensioni da divinità induista. Non contava più quante braccia avesse. In effetti, con la sua carne in eccesso avrebbe potuto farne almeno altri due corpi interi.

Anche questo era il sesso, in fondo, non solo qualcosa di gretto e prosaico: la voglia di superare i limiti imposti all'uomo. Valicare un confine.

Richard e Verena aspiravano a toccare il confine tracciato da Dio.

(Se un Dio oltre lui esisteva, glielo stava permettendo.)

(C'erano confini e spaccature anche nella morte?)

Non c'era nulla di leggero. Non era come levitare. C'era una pesantezza tale in ogni loro movimento... una spossatezza dei corpi, contro cui erano determinati a non arrendersi... Continuavano a plasmarsi in un unico essere: se loro avevano imparato qualcosa della scrittura era grazie a lui, e se non era anche quella una forma di scrittura, un'opera compatta che stavano creando insieme in uno spasmo fruttuoso... Impastavano come artigiani la materia grigia, la materia oscura, la materia di luce che colava sui loro volti...

Non poteva essere già l'alba. Ma c'era luce dovunque, diafana e lattescente, con all'interno filamenti simili a quelli che talvolta galleggiano nelle cornee, come vermiciattoli gelatinosi nel campo visivo, mai del tutto reali, ma più che reali per l'occhio che li vede.

Scomparso il letto, quella luce divenne la superficie su cui poggiavano. Un lago trasparente d'una sostanza psichica, che era anche uno specchio: proiettava sottosopra la stessa scena che stavano vivendo, ma una scena in cui erano molto più felici, senza legami di potere, solo tre persone che si sono trovate e amate, e lui esonerato dal fardello della divinità, leggero e fresco come un uccellino.

Sonne si domandò se non fosse stato risucchiato anche lui dalla realtà e non fosse finito nella sua stessa immaginazione, un luogo che a Richard e Verena era di gran lunga più familiare e che lui neanche sapeva percorrere. Ce l'aveva fatta, era sparito con loro? O forse era finito nell'immaginazione di qualcun altro?

Vennero attraversati da quella luce nel frusciare delle lenzuola e il cigolare delle molle. Era un'ulteriore forma di combustione. La pelle si fece traslucida, finché i loro corpi non parvero fatti completamente d'una resina argentea che mostrava il reticolo di vasi sanguigni al di sotto (i suoi molto più spessi, affaticati e intricati dei loro), come uno schema che, se studiato a fondo e con il giusto spirito, avrebbe condotto alla soluzione dell'enigma supremo. Se prima non fossero esplosi in particelle di vetro: ma Sonne era certo che la loro versione felice, sotto la superficie del lago, sarebbe sopravvissuta.

In quel momento, un sussurro appena percettibile, con una nota troppo sconosciuta perché fosse di Richard o Verena, lo percorse da un timpano all'altro.

Basta così, ne hai avuto abbastanza.

Strabuzzò gli occhi, e nello stesso istante una scarica violenta di piacere lo scosse nei lombi riversando il suo orgasmo dentro Verena, senza dargli nemmeno il tempo di farsi domande.

Si rese conto solo adesso di essersi accasciato su di lei e di starla ammaccando con il proprio peso.

Un dolore nelle gengive, nelle meningi, in tutti gli ossicini che reggevano la faccia, gli fece realizzare che anche quello gli sarebbe rimasto marchiato a fuoco come una bruciatura dietro la fronte, d'ora in avanti, per sempre.



Se avesse saputo che stava per venire, l'avrebbe fermato e l'avrebbe fatto uscire.



Se avesse saputo che stava per venire, si sarebbe lasciato andare nel suo stesso, esatto momento.



Sonne si scollò da entrambi come se il collante che li univa, secreto dalle loro ghiandole, fosse diventato di colpo inefficace, e si stese a pancia in su al centro del letto, privo di forze, spezzando bruscamente il loro piacere. Non li guardò neanche più. Si coprì gli occhi con l'avambraccio.



Quanto tempo è passato?

È già mattina... Sento i primi tram che attraversano la città...

Si pentì di aver tolto le tende dalle finestre. La luce da cui si nascondeva adesso era reale e acerba. Lo irritava, con pizzichi qui e lì.

Ma non era sicuro che fosse davvero il giorno dopo la festa della riunificazione. Potevano essere trascorse settimane su quel letto, per quanto ne sapeva.



Interdetto, Richard guardò Verena e Verena guardò Richard.

L'erezione, arrossata, gli faceva male per quanto si era trattenuto. Con un cenno d'intesa, lei gli concesse di continuare.

Come i vecchi tempi, con Sonne accanto – che tuttavia non li considerò neppure, quasi fossero diventati evanescenti.



Verena lo fece stendere di nuovo su di sé, passandogli le braccia sotto le ascelle.

Eppure si sentiva improvvisamente insensibile e distaccata nonostante gli strascichi di eccitazione.

Fissò il vuoto mentre Richard affondava le ultime spinte secche dove Sonne aveva appena versato il suo seme viscoso.

Non sapeva perché, ma permise anche a lui di svuotarsi dentro di lei.



Il più rumoroso in quel silenzio sacrale era stato lui, senza dubbio. Anche alla fine non riuscì a soffocare del tutto i suoi versi di godimento. Una volta venuto, si mise a sedere con la testa tra le mani, poggiando i piedi sul pavimento.

Diamine.

È stato bello, anche se non bello come tante altre volte.

Abbiamo sbagliato qualcosa?



Non ci avrebbe neanche provato, a toccarsi, per venire da sola.

Non sarebbe successo.

Adesso vorrei soltanto...



... un po' di buio.



... accendermi una sigaretta, ascoltare un po' di musica.

Dove ho lasciato il walkman? Sarebbe azzeccata quella cassetta dei King Crimson... Three of a Perfect Pair.



... fare una doccia, e poi mangiare qualcosa.

Qualcosa di buono, soffice e caldo.



... oppure dovrei semplicemente provare a dormire.



Dormite, ora.

Dormite.

Quanta energia avete ancora in corpo?

Basta.

Mi avete prosciugato.



Ma alla fine si stese accanto a Sonne, nello spazio che aveva creato il suo braccio destro, il più eroso dal fuoco. Si mise a pancia in giù e appoggiò il mento sul suo petto che s'alzava e abbassava lento. Lui non la rifiutò, ma non la cinse neppure.



Richard andò ad occupare il cantuccio formato dall'altro braccio, guizzando accanto a lui come un'anguilla, accarezzandogli l'addome in punta di dita.

Sperava di richiamare la sua attenzione, ma così non fu.

Chissà a cosa stava pensando, o se gli era piaciuto.

Forse stava fingendo di dormire.



Verena, da quella posizione, poté contemplare con più calma e senza più alcuna pulsione erotica l'architettura del suo corpo. Era un palazzo con le fondamenta a vista.

Era...



... la colonna portante di un edificio.

L'albero maestro di una nave.

Un condominio sovietico in stile brutalista.



... una casa abbandonata in una foresta.

Una chiesa data alle fiamme.



... la fine dei bombardamenti su Dresda.

Un giovane grattacielo nel cuore di Amburgo.

Un ponte sull'Elba e sul Weser.



(Il mio corpo è una finestra sul vuoto che ci aspetta.

Chi guarda il sole troppo a lungo rimane accecato.)



Si strinse di più a lui, appropriandosi della parte destra del suo corpo.

Casualmente, aveva avvicinato il volto al suo orecchio.

Verena corrugò la fronte. Cos'era quel suono di cristalli che sentiva provenire da lui?

Si allungò per sentire meglio e appoggiò il proprio orecchio al suo, come avrebbe fatto per ascoltare il rumore del mare in una conchiglia. All'inizio le sembrò che somigliasse al fischio delle sparizioni, acuto, continuo, e il cuore accelerò all'impazzata. Ma poi capì che si sbagliava, era un suono diverso. Gioioso o lugubre, non sapeva dirlo. Di campanelle di luce che annunciavano qualcosa. Si premette ancora di più all'orecchio. Più premeva, più il rumore diventava forte. La paralizzò per qualche secondo finché non ebbe il coraggio di alzare la testa.

«Lo senti anche tu, Richie?»

«Cosa?»

«Mettiti così.»



Quando le loro orecchie si sfiorarono, Richard sobbalzò.

Ma che...?

Si scostò per un attimo da Sonne e lanciò un'occhiata stranita a Verena. «È il fischio?»

«No, ascolta bene...» lo incitò, senza curarsi della reazione di Sonne, come se non fosse neanche senziente, come se fosse un mostro marino arenato, trovato sulla spiaggia deserta da due ragazzini, che ancora mandava qualche impulso vitale. Era un bene che stesse fermo.

Richard accostò di nuovo l'orecchio. Non riusciva ad associare quel suono a nulla di noto. Se doveva sforzarsi, lo immaginava come il suono delle galassie che si muovevano nella sua testa, che lui stesso aveva avuto modo di ammirare a bocca aperta.

Anche Verena si riaccostò a lui. Con la faccia nascosta, al buio, e le orecchie riempite da quel suono, sembrava di essere di nuovo cullati da un limbo che prometteva qualcosa oltre la realtà, la vita e la morte insieme.

Prima che potessero fare altri commenti o rialzarsi, sentirono il petto di Sonne che veniva scosso dai singhiozzi.



Pianse per qualche minuto un pianto intimo, privato, e loro non osarono sollevarsi per guardarlo.

Solo quando smise, Verena riemerse dall'ombra che si era ritagliata nella sua spalla – la stessa spalla che prima aveva morso – piantando un gomito nel letto. Lo guardò.

Sonne ricambiò il suo sguardo, fermo e impassibile.



Incredibile. Nelle sue sclere non c'era traccia di lacrime, così come sulle guance asciutte.

Sembrava che...



Era come se...



... non avesse mai pianto.



È finito il nostro momento di grazia.

Devo rimettervi al vostro posto.

Sonne fece per sollevarsi con il busto; Verena si era già scostata, mentre Richard era rimasto appoggiato con la testa alla sua spalla. Gli ficcò due dita nelle costole per farlo spostare.

«Ahia.»

Si alzò raccogliendo le proprie spoglie e ciò che rimaneva di lui.

Si allontanò in tutta tranquillità verso il salotto, adesso che era tutto passato, seguito dai loro sguardi che non osavano domandargli: dove vai?

Agguantò i vestiti che avevano abbandonato sul parquet, indossò di nuovo i boxer, i pantaloni, s'infilò la camicia. Si sentì subito meglio, di nuovo saldo in se stesso.

Finì di abbottonarsi mentre rientrava nella camera da letto. Non appena lo videro ricomparire sotto l'arco della porta, Richard e Verena rizzarono la schiena, in attesa.

«È stato insopportabile» disse, dopo aver infilato l'ultimo bottone nell'asola. Fu una confessione pacata, eppure loro reagirono come se li avesse schiaffeggiati con la propria voce. Trovava francamente assurdo che si dovesse patire tutto quel caos solo per espellere un misero getto di sperma. Ecco. Aveva finalmente espresso quel pensiero nella maniera più sincera e lineare possibile. Non gli importava più che fosse un sentimento anormale. Non gli importava di mortificarli. Le cose stavano così. «Non si ripeterà mai più. Chiaro? Ora fatevi una doccia e rivestitevi. Non reggo più neanche la vostra nudità.»

Il modo in cui glielo ordinò li fece afferrare istintivamente il lenzuolo per coprirsi. Richard se lo accartocciò in grembo, Verena se lo portò con una mano ai seni.

Sonne li guardò dall'alto per qualche altro istante.

Gli avevano insegnato tante cose, entrambi.

Infine, lui aveva insegnato loro la vergogna.







Note d'autrice:

Aspettavo da tanto di scrivere questo capitolo, di cui avevo già in mente la struttura a più voci... un po' inusuale, lo so, ma credo fosse la più funzionale (con i limiti di Wattpad, chiaro ahahah) a esprimere l'effetto che volevo ottenere. Spero vi sia piaciuto, anche se a mio avviso racconta una scena abbastanza pesante e delicata. Non a caso è molto diversa da tutte le scene di sesso che ho scritto in vita mia :') Volevo proprio che fosse triste e "scompensata" al massimo, niente affatto erotica. 

Insomma, c'era chi aspettava questa benedetta threesome dal capitolo uno... e nessuno dei tre si è divertito. Che dire.

A presto! ♥


Ps: il titolo, Körper, significa corpo, che è probabilmente anche la parola più ricorrente del capitolo ahahah




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