XXXIX. Das gebrannte Kind

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N E B E L

XXXIX.

Das gebrannte Kind



La prima cosa che Sonne pensò quando la rivide, nel salotto di casa, il luogo in cui era riapparsa con più frequenza, era che sarebbe stato molto meglio se non fosse mai esistita.

Se fosse venuto alla luce solo Richard, a quest'ora sarebbe stato felice.

Doveva averlo fatto apposta. Doveva essersi allontanata di proposito per sparire dall'altra parte e rovinargli il momento di gioia profonda che gli era stato concesso. Aveva creduto che quei discorsi di riconciliazione sul lungofiume avessero smosso qualcosa anche dentro di lei, ma si era sbagliato. Aveva mai sorriso, Verena, da quando era tornata da lui? Era proprio un animale riottoso.

Di certo non sorrideva adesso. Venne loro incontro non appena li sentì aprire la porta di casa, con un viso cupo e teso. Aveva una leggera abrasione sullo zigomo.

Sonne non fece in tempo neanche a elaborare il suo ritorno o a scagliarle contro un «Come ti è saltato...», che lei gli domandò in fretta tra i denti: «Cos'è successo a tuo padre?»

Quelle parole gli fecero venire immediatamente l'istinto di fuggire. Si voltò e andò in cucina a riempirsi un bicchiere d'acqua. Lo trangugiò in un solo sorso, cercando di non farlo scivolare nel palmo sudato e dando loro le spalle, poi lo posò con un rumore secco sul ripiano.

Fuori rimbombavano ancora gli scoppi degli ultimi fuochi d'artificio.

«Stai bene?» le chiese intanto Richard, distaccato.

«Sto bene. Quello che ha qualcosa che non va è lui.»

Seguì un silenzio denso.

Seppe che si erano messi a fissarlo entrambi. Gli stavano perforando con gli occhi un punto in mezzo alle scapole.

«Non vi riguarda» disse, girandosi per affrontarli, con la gola ancora asciutta.

Persino Richard sembrò contrariato da quella risposta.

Verena inarcò le sopracciglia. «Certo che ci riguarda. Tutto ciò che siamo dipende da quello che sei tu. O è troppo sconveniente da dire ad alta voce, per i tuoi gusti? Come minimo dovresti...»

«Non sono obbligato a raccontarvelo. Non potete chiedermi questo.»

«Comodo. Tu sai tutto di noi e noi non sappiamo un cazzo di te, e pretendi anche la nostra fiducia.»

Sonne si allontanò di qualche passo, nervoso, e costeggiò il tavolo. Lo innervosiva anche che fosse Verena a imprecare e non Richard. Era un altro segno da aggiungere agli innumerevoli segni di quanto fosse diventata implacabile. Non aveva alcuna intenzione di arrendersi.

«Un tempo eravamo d'accordo sul non condividere le parti più dolorose del nostro passato.»

«Io non sono più d'accordo. Tu, Richard?»

Richard guardò Sonne con le braccia lungo i fianchi. Parlò dopo qualche secondo. «Se è così importante... vorrei saperlo anch'io. Non piace nemmeno a me l'idea che tu mi tenga nascosto qualcosa, ed è avvilente non conoscere dei pezzi fondamentali di te.»

Sonne sospirò di frustrazione e si passò una mano sulla fronte. Era quello, il colpo di grazia, ricordarsi che per quanto Richard potesse essere più accomodante nei suoi confronti, era pur sempre della stessa natura di Verena.

«Cosa hai visto dall'altra parte?» chiese a lei.

«Te da bambino e tuo padre, nella cella di un manicomio. Te l'ho detto.»

«C'ero... c'ero anch'io?»

«Sì. Tuo padre è davvero... così? O è una distorsione della tua immaginazione?»

Sonne guardò fuori dalla finestra, verso la città ancora illuminata a festa, con la sensazione di essere una nave che veniva spinta da una bufera a schiantarsi contro una scogliera. «Ha un grave ritardo da quando è nato.» Quello non era un segreto, eppure non l'aveva mai pronunciato a chiare lettere davanti a loro.

Richard gli si avvicinò, esitando. «E... vai a trovarlo quando vai a Dresda, giusto? Sta davvero in un manicomio?»

«In una clinica psichiatrica, sì.»

Avrebbe voluto già fermarsi. Temeva che, un'informazione dopo l'altra, gli avrebbero tirato di bocca a forza tutto ciò che non aveva mai osato dire a nessuno, nemmeno a se stesso. Si appoggiò con una mano al muro, colto da una leggera nausea.

«Come ci è finito? Perché c'eri dentro anche tu?» domandò Verena, quella che più aveva intenzione di indagare a fondo, che forse era nata proprio per quello: scavare dentro di lui. Non c'era mai stato nulla di rassicurante nella sua presenza, ma adesso stava diventando sempre più una minaccia.

Sonne si staccò e camminò fino in salotto.

«Oh, smettila di scappare!» insisté lei. «Abbiamo sempre avuto solo il mondo della tua immaginazione per conoscere qualcosa di te e del tuo passato, ma adesso... non basta più, lo capisci? Siamo stanchi di sforzarci di comprendere. Raccontacelo tu, che sei tanto bravo con le parole.»

Non osò più guardarli in faccia. Scappava, sì, era la parola più indicata. Scappava dalla loro fame di lui, che li aveva contraddistinti da quando avevano messo piede in quell'appartamento. Lo volevano tutto. Volevano la sua casa, il suo affetto, il suo corpo, il suo sguardo, il suo passato. E ad ingrassare era stato lui. Di chi era il prendere più famelico?

Ricordava di aver desiderato, due anni prima, che lo lasciassero in pace prima che fosse troppo tardi. Adesso aveva desiderato di riaverli di nuovo con sé. L'hai voluto tu. Lo sapeva, che avrebbe dovuto fare dei sacrifici perché potessero stare ancora insieme, avrebbe dovuto rinunciare anche al proprio spazio vitale: l'aveva accettato perché qualsiasi cosa sarebbe stata meglio della disperazione in cui aveva vissuto senza Richard e Verena. Conosceva la loro fame, e la loro rabbia. A lui spettava placarli.

«Non ho mai avuto parole per questa storia...» tentò di dire, cominciando a tremare. «Non ne ho mai parlato ad anima viva.»

Doveva spalancare quella parte di sé per riottenere la loro completa fiducia. Lo capì con una morsa allo stomaco. Se avessero saputo, forse, l'avrebbero perdonato del tutto. O l'avrebbero odiato ancora di più.

Richard lo raggiunse e lo condusse verso il divano per farlo sedere. Sonne si sentì inaspettatamente docile sotto la sua mano. «Questo è un buon momento per iniziare, sai. Non ti giudicheremo.»

Verena non sembrava dello stesso avviso, ma non aggiunse nulla.

Sonne intrecciò le dita in grembo fino a farsele sbiancare. Aveva atteso per mesi il loro ritorno solo per arrivare a questo momento? Era il pegno definitivo da pagare per poter stare con loro, nella stessa vita? Provò a immaginare l'atmosfera che si sarebbe creata d'ora in avanti se si fosse rifiutato di parlare. Immaginò di vederli andare di nuovo via, e il cuore gli si annodò in petto all'istante.

Non l'avrebbe sopportato una seconda volta. Una terza volta. Non avrebbe permesso che succedesse di nuovo ciò che era successo con sua madre: che la persona che amava di più al mondo smettesse di amarlo per colpa di un suo errore.

Scoprì di essere disposto a tutto pur di legarli di nuovo a sé.




La bocca del camino li fissava.

Stefan se ne stava mezzo sdraiato sul tappeto con intorno dei pupazzi di quand'era più piccolo, che ogni tanto andava ancora a recuperare dalla cesta di vimini nella sua stanza. Tra le mani stringeva Sandmännchen, con il cappotto azzurro, il cappello a punta e la barbetta bianca di fili di lana. Per la sua immaginazione in quel momento non era neanche Sandmännchen, l'omino dei sogni, bensì un personaggio di una storia che aveva appena ideato: l'unico mago capace di sconfiggere il drago che si nascondeva tra le vivaci fiamme del camino.

Suo padre stava sul divano dietro di lui a rovistare maldestramente in una scatola di cianfrusaglie da cucito, piena di bottoni, gomitoli e merletti, da cui Petra si era premurata già da un po' di rimuovere ago e forbici. Sapeva che il marito amava quella scatola a fiori e che di tanto in tanto andava a prenderla dall'armadio a muro in corridoio. Ogni volta era lei a riavvolgere le stoffe e a rimettere in ordine i fili che sparpagliava in giro – glieli toglieva con delicatezza anche dai capelli, dal maglione –, non sempre con la stessa pazienza, ma non lo rimproverava mai, né aveva allontanato la scatola dalla sua portata.

Stefan si era accorto della scintilla di allegria che era balenata nello sguardo di Gregor non appena era andato a sedersi con la scatola in grembo. L'aveva assecondato con un sospiro e si era messo a giocare davanti al camino per tenerlo d'occhio, visto che aveva già finito gli esercizi di tedesco. Sua madre sarebbe rientrata dal lavoro entro un'ora, quando l'ambulatorio avrebbe chiuso, e gli aveva chiesto di badare a suo padre per quel pomeriggio di gennaio che Frau Albers non sarebbe passata a dare una mano. «Ormai sei un ometto grande» aveva detto. Stefan si era sentito davvero grande. Era già da un paio di mesi che Petra gli affidava quel compito: significava che si fidava di lui, molto più di quanto si fidasse di Gregor. Lo riteneva persino più adulto.

Di sicuro gli voleva più bene.

Gregor ridacchiò e biascicò qualcosa di incomprensibile mentre rovesciava un sacchetto di velluto con dei bottoni sul tavolino da caffè. Qualcuno cadde a terra e rotolò fino ai piedi di Stefan. Gregor ne afferrò uno dal tavolino e se lo mise in bocca. «Nooo» lo ammonì Stefan, cantilenante. «Non si mettono in bocca.» Non si mettono in bocca, papà, avrebbe detto fino a un paio di anni prima. Adesso non lo chiamava più papà. Non lo chiamava neanche per nome, non lo chiamava e basta.

Sapeva che non li avrebbe ingoiati, che si limitava a succhiarli un po' tra i denti, ma credeva che fosse un suo diritto sgridarlo. E questo lo faceva sentire ancora più grande. Ma cosa ci trova in quella scatola...?, pensava ogni volta. Pareva che per suo padre fosse una meraviglia senza precedenti. Stefan lo guardava con insofferenza, ma nel profondo si domandava se, negli oggetti che venerava, ci fosse davvero qualcosa di misterioso e solo a lui visibile. Gregor si contrariava da morire quando gli venivano negati, come se gli avessero tolto la cosa più preziosa che possedeva. Stefan provava un atroce senso di ingiustizia all'idea che Gregor conoscesse un qualche segreto strabiliante che non si era rivelato a nessun altro all'infuori di lui.

Non parlava mai a nessuno di suo padre. All'esterno di quelle mura faceva finta che non esistesse, o, se qualcuno accennava alla sua esistenza, diceva che era un lontano parente di cui Petra doveva prendersi cura, un ospite in casa loro.

Purtroppo le voci circolavano lo stesso. «Chissà se anche il figlio di Gregor non ha qualcosa che non va» aveva sentito dire la scorsa primavera dalla madre di un compagno di classe, all'uscita da scuola, davanti ad altre mamme. Lui doveva essersi imbambolato nel cortile mentre cercava Petra, e si era accorto solo dopo un po' che quelle donne lo stavano guardando di sottecchi. Si era arricciato intorno a un dito il fazzoletto rosso che portava annodato al collo, a disagio, poi si era avviato a casa da solo affrettando il passo e con la cartella che dondolava sulla schiena. L'ultima cosa che aveva sentito era stata: «Comunque dovrebbero metterlo in una clinica per i malati di mente... La povera Petra tra qualche anno non ce la farà più», «Perdonami, ma ha scelto lei di sposarlo e farci un figlio o sbaglio? Ma tanto secondo me il figlio non è veramente suo. Non può aver... Dài.»

Aveva pianto di rabbia appena era stato abbastanza lontano, senza sapere quale fosse il reale motivo per cui stava piangendo.

Alle maestre, almeno, Stefan piaceva: non credevano che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui. Lo riempivano sempre di complimenti quando sua madre andava a parlare con loro. «Che bambino ordinato, pacato e intelligente. È molto maturo per la sua età. Dovrebbe solo imparare a fare più amicizia

Il fatto era che lui stava bene senza amici. Amava i giochi solitari, la lettura, e gli piaceva parlare soltanto con quelli studiosi come lui. C'erano alcuni che in quarta non sapevano ancora fare le moltiplicazioni, e lui li prendeva segretamente in giro tra sé. Dall'altro lato, non erano in molti ad avvicinarglisi. Specialmente le bambine. Non rivolgeva una parola a una bambina all'incirca dall'inizio dell'anno scolastico. Forse gli stavano alla larga proprio perché sapevano di suo padre.

Quante volte aveva desiderato che non ci fosse.

«Non è colpa sua, Stefan» aveva ribadito sua madre proprio l'altra sera, quando lui si era lamentato di Gregor che era entrato gridando nella sua stanza per fargli vedere cosa si erano messi a fare degli operai in strada, e non aveva smesso finché non l'aveva spinto fuori alla porta. «Lo sai perché fa così. Vuole coinvolgerti nel suo mondo. Ricordati che ti vuole bene.»

Stefan non ci credeva abbastanza. Era abituato alla sua presenza ingombrante, alla sua mente inceppata, che con gli anni era diventata anche confortante, in qualche modo, ma riteneva anche che un po' di colpa dovesse avercela. Non poteva essere davvero scagionato da tutto.

«Non possono curarlo?» le aveva chiesto, mentre Petra gli spalmava l'olio di noce sui capelli, sotto la luce giallina del bagno. Lei stava seduta sul bordo della vasca in pigiama e vestaglia, quella vestaglia morbidissima che profumava di buono, e Stefan stava tra le sue gambe rivolto verso lo specchio. Aveva sbadigliato. Le carezze sul capo gli facevano venire una certa sonnolenza.

«Non c'è niente che vada curato. Papà è così. Se tu fossi nella sua testa, crederesti di dover essere curato? E per cosa? Per vivere il mondo in maniera diversa da noi altri?»

«Ma ho sentito che c'è un posto in cui curano i malati di mente.»

«Ah sì? Chi te l'ha detto?»

Non era stato molto specifico per non darle un dispiacere. «Ne ho sentito parlare a scuola...»

Petra era rimasta in silenzio per qualche secondo. «Sì, esiste» aveva detto, poi. Era sempre onesta con lui. Non gli nascondeva le tristi verità della vita degli adulti, quando Stefan le domandava qualcosa. «Ma non è il posto di papà. È un posto che a volte peggiora le cose invece di migliorarle, in cui la società può sbarazzarsi delle persone che non riesce a controllare, abbandonandole lì per sempre. Se tu fossi come lui, non saresti terrorizzato all'idea che qualcuno venga a prenderti, nell'indifferenza di tutti, per rinchiuderti in un luogo in cui non vuoi stare, lontano dai tuoi cari e dalla tua casa?»

«Come il carcere?»

«Proprio così. Ma in questo posto non ci mandano le persone che devono scontare una pena perché hanno commesso un crimine. Ci mandano le persone che devono scontare la propria differenza.» Dopodiché, gli aveva posato un bacio su una spalla. Stefan, dallo specchio, aveva notato la sua espressione stanca e spiegazzata come l'involucro di una caramella. Eppure, di solito, dopo essere tornata con Herr Gilbert o altri vicini dalle riunioni serali del partito, era di gran lunga più reattiva e piena di vigore. «Aspettiamo che si asciughi e poi andiamo a dormire, va bene?»

«Mamma?»

«Mh?»

«La prossima volta posso venirci anch'io alla riunione?» aveva chiesto, speranzoso di poter scoprire cosa si svolgesse di tanto misterioso in quella parte della sua vita a cui non aveva accesso.

Petra, pur tentennando, aveva sorriso. «Si parla di politica, Stefan, lo sai. Mi piacerebbe molto portarti, ma è presto.»

«E quando, allora?»

«Tra qualche anno. Però sono contenta che tu me l'abbia chiesto. Per me significa moltissimo. Ora a nanna, su.»

Non dormivano insieme. Petra dormiva con Gregor nel letto matrimoniale, come tutte le mamme e i papà. A volte, la sera, li sentiva ridere attraverso la parete. Erano le sere in cui Petra era abbastanza in vena da assecondare i suoi giochi – per qualche strano motivo, le ombre cinesi li facevano morire dalle risate: il cane, l'aquila, il maiale, il dinosauro, accompagnati da versi e vocine ridicole... Stefan a volte li osservava sulla soglia della porta senza farsi notare, ipnotizzato per metà dalle loro figure rannicchiate tra i cuscini e per metà dalle loro ombre giganti sul muro, ma poi tornava sempre nel suo letto, con un senso di malessere profondo che somigliava alla paura e al disgusto uniti insieme. Correva, scalzo, a rifugiarsi sotto le coperte e sperava che un giorno Gregor facesse qualcosa di così imperdonabile da spingere Petra ad allontanarlo per sempre. Le loro tenerezze gli facevano venire il mal di pancia.

C'era un'inspiegabile sintonia tra loro, da quando erano bambini: sua madre gli aveva raccontato un'infinità di volte quanto avesse imparato a volergli bene sin da subito, di come fossero cresciuti insieme in campagna, scorrazzando nei campi d'orzo e arrampicandosi sugli alberi, di quanto fosse inconcepibile per lei l'idea di vivere senza di lui. Entrambi si erano ritrovati a vent'anni senza genitori, per motivi diversi. Il padre di Gregor era morto in guerra e la madre, che non era riuscita ad avere altri figli dopo di lui, di tubercolosi. Per quanto riguardava i nonni materni, Petra non gli aveva mai raccontato molto. Stefan la sentiva soltanto emanare un enorme risentimento quando accennava a loro.

L'ha scelto lei, pensava e ripensava Stefan, che non aveva più dimenticato la conversazione delle mamme fuori scuola. Aveva scelto lei di restare senza genitori, lei di sposare un ritardato. È lei la vera pazza.

Si riscosse. Gli capitava spesso di perdersi nei propri pensieri fino a estraniarsi dalla realtà. Gregor si stava ancora svagando con i bottoni.

Stefan distolse l'attenzione da lui e rifletté su come far progredire la storia del mago e del drago, che pian piano si dipanava tra le sue mani. La prova finale del mago sarebbe stata ammazzare il drago per salvare il regno, solo che nella sua testa aveva già deciso che qualcosa sarebbe andato storto e alla fine il mago si sarebbe trasformato nel drago. Impugnò Sandmännchen con più decisione e finalmente lo fece avvicinare al fuoco.

Una scarica di adrenalina gli fece vibrare il petto. Si rese conto di star sorridendo, di un sorriso che non riusciva mai a frenare. Il tappeto davanti al camino era il suo posto preferito per giocare, d'inverno. Con una scusa o un'altra, si metteva sempre lì, davanti alle fiamme. Gli gettavano sul viso un calore quasi insopportabile che gli saliva fin nelle narici. Ma erano bellissime. Si ritrovava a fissarle senza volerlo anche altrove, come quelle dei fornelli, però lì nel camino erano più maestose che mai. Avevano un canto tutto loro, che nessun altro oltre a lui pareva ascoltare. E una luce da cui non si poteva scostare lo sguardo.

Ciò che amava di più era il rito d'accensione. Seguiva sua madre in salotto ogni volta che la vedeva passare in corridoio con la legna, al tramonto, nel periodo in cui cominciava a nevicare e le notti diventavano troppo rigide. Petra indossava prima dei guanti di pelle, poi si chinava davanti al camino e, dopo averlo pulito, iniziava a posizionare i grossi ciocchi che le portava gentilmente Herr Gilbert, insieme a qualche rametto secco e due o tre fogli di giornale accartocciati. Spesso aggiungeva delle pigne, che a sua detta rendevano il fuoco più vivo e profumato. Infine si armava di accendino e attizzatoio.

Non di rado Stefan aveva offerto piccoli sacrifici alle fiamme.

Erano due le cose che lo elettrizzavano: il potere del fuoco di ridurre qualcosa in uno stato completamente diverso da quello precedente, di creare in modo irreversibile una nuova versione di quella stessa cosa, a differenza degli altri elementi, acqua, aria e terra – un mucchietto di cenere dove prima c'era un fumetto pieno di disegni e parole, ad esempio –, e il potere che lui aveva nel decidere di consegnare qualcosa al fuoco.

Trattava il fuoco come il suo pericolosissimo, incantevole animale domestico. Ne era attratto come dal richiamo di una sirena, e quando si ritrovava da solo era libero di avvicinarglisi senza far preoccupare sua madre.

Non che non ne avesse timore. Però il timore era seppellito da altre emozioni più forti, o era proprio il timore, una paura silente che scivolava sottopelle, ad amplificarle.

Si era sempre impegnato a non farsi scoprire. Quel pomeriggio c'era Gregor alle sue spalle, ma la sua presenza non contava poi molto.

Così si avvicinò ancora di più al camino, finché non sentì le guance scottare e la gola pizzicargli. Cosa poteva gettare nelle fiamme, quella volta? Ne avrebbe approfittato per creare un collegamento con la storia. Ma cosa poteva renderla più spettacolare? Si guardò intorno. Il pupazzo di un gatto, un orsacchiotto, un soldatino schiaccianoci. Guardò Sandmännchen nelle proprie mani.

Finse di farlo camminare fino al bordo del camino. «È giunta la tua ora, drago! Ora non spaventerai più i poveri abitanti del regno!» gli fece pronunciare. «Non mangerai più tutti quelli che provano a ristabilire la pace e l'armonia!» aggiunse, soddisfatto della battuta che gli era venuta in mente.

Doveva esserci qualche magia. Qualche effetto speciale. Il mago sarebbe dovuto diventare un drago oppure no?

Decise di sì.

Lanciò il pupazzo tra i ceppi ardenti, ansioso di vedere cosa sarebbe successo. Come se non lo sapesse. (Ma lo sapeva molto bene.)

Sandmännchen non prese fuoco subito. Inerte e accasciato su un ciocco di legno con un braccio a penzoloni, rimase per qualche istante a fissare Stefan con i suoi occhietti neri e la faccia senza bocca. Poi la barbetta e il cappotto s'incendiarono.

Stefan trattenne il respiro. Si mise più comodo sulle proprie ginocchia per assistere alle conseguenze di quel gesto. Del suo potere. Per i minuti successivi fu talmente estasiato che non riuscì più a muoversi da lì. Non aveva mai dato un oggetto così grande in pasto alle fiamme. Un oggetto dalle sembianze umane. Un oggetto a cui era affezionato – non aveva mai avuto il coraggio di sacrificarne uno, e ora scopriva che quel legame speciale raddoppiava l'emozione nelle sue viscere. Gli era sempre piaciuto veder bruciare le cose. Anzi, vederle trasformarsi. Adesso più che mai.

A un certo punto, però, tutta quell'eccitazione si ribaltò nella sua pancia in un sentimento completamente diverso, in un crampo. Stefan smise di sorridere.

La faccia di plastica di Sandmännchen si stava sciogliendo. Stava gocciolando sul fondo, mentre i suoi occhietti neri continuavano a fissarlo.

No, no, la storia non poteva finire così. Meritava una svolta ancora più strabiliante. Il mago che risorge dalle ceneri! Chi era più potente di qualcuno che risorge? E poi il bene vinceva sempre sul male. (E poi, voleva davvero bene a quel pupazzo. Gliel'aveva regalato sua madre quando aveva compiuto sei anni. Non ricordava un dono per cui era stato altrettanto felice: aveva visto Sandmännchen diventare realtà, esistere davvero, dopo averlo salutato in televisione ogni sera da che ne aveva memoria, insieme a tutti gli altri bambini della DDR. Petra si sarebbe arrabbiata da morire se avesse scoperto che l'aveva gettato nel camino.)

«Ah ah, credevi di avermi annientato» fece dire al mago, ma la voce gli uscì un po' spezzata.

Infilò alla velocità della luce la mano destra nel camino e afferrò Sandmännchen per il braccio penzolante, che stava per staccarsi dal resto del corpo. L'aveva già fatto una volta. Aveva già infilato la mano nel camino per recuperare qualcosa, una foto di sua madre da giovane che aveva desiderato bruciare qualche mese prima solo perché avevano litigato a causa di Gregor. Non sarebbe successo niente di grave se fosse stato abbastanza svelto. Era comprovato.

Ma stavolta, forse, aveva gettato il pupazzo troppo lontano, o aveva perso troppo tempo.

«Ahia!» gridò. Ritrasse di colpo la mano senza riuscire a tirarlo fuori di lì.

Fu sul punto di scoppiare in lacrime dallo sconforto, ma la sua attenzione venne attirata da qualcos'altro.

La manica del maglione aveva preso fuoco.

Stefan sobbalzò.

Scattò all'impiedi e caracollò all'indietro in mezzo ai pupazzi, incespicando nel tappeto. Urtò contro il tavolino circolare accanto alla libreria, che si rovesciò insieme a tutte le chincaglie. Solo a quel fracasso Gregor alzò lo sguardo su di lui, con un'espressione di curiosità.

Il dolore arrivò subito. Stefan, in panico, cominciò ad agitare il braccio su e giù per spegnere le fiamme. «Papà, fa' qualcosa!» urlò. «Aiutami! Brucia!»

Gregor rimase immobile sul divano, un bottone ancora tra le dita, e sbatté le palpebre. Poi si mise a ridere. Lo puntò allungando l'indice, e, con la sua bocca larga e bavosa, si mise a ridere.

Rise di gusto. Come se fosse uno scherzo. Come se fosse uno spettacolo organizzato tutto per lui.

Stefan piombò nel terrore assoluto. Saltellò per la stanza cercando di sfilarsi il maglione, ma ormai il fuoco si era fatto strada ben oltre la manica, come su uno dei campi d'orzo in cui sua madre e suo padre correvano da bambini.

Nel giro di un attimo si ritrovò inghiottito dalle fiamme.

Gridò. Di un gridare senza pause, un picco unico.

Non riuscì più neanche a correre, solo a contorcersi su se stesso.

Mentre suo padre rideva. Rideva del figlio che stava bruciando davanti ai suoi occhi, incapace persino di andare a chiamare aiuto. Incapace persino di capire.

Passò un'infinità di tempo, in cui ogni secondo conteneva una sua infinità.

Perchénonvavia perchénonvavia perchénonvavia?

Stefan voleva soltanto strapparsi quel dolore dal corpo.

Ma non c'era difesa. Il fuoco lo stava punendo per essere stato cattivo. O lo amava a tal punto da essergli saltato al collo, premiandolo per la sua venerazione. Era questo che si provava a essere toccati dalle fiamme, era questo di cui gli adulti avevano paura quando dicevano che non si gioca con il fuoco?

Presto non vide più nulla, se non sprazzi tra le fiamme del volto diabolico di suo padre. Più si dimenava, più il dolore affondava in lui. Stava friggendo nei suoi stessi vestiti. Gli si erano incollati addosso insieme al fuoco, che ora addentava la carne viva. Stefan continuò a urlare sapendo di essere già morto. Sapeva cos'era la morte. Non avrebbe mai pensato che potesse accadere a lui. Non sapeva come evitarla. Era diventato una fiamma umana. Avrebbe fatto la stessa fine del pupazzo. La pelle gli sarebbe gocciolata a terra dalla faccia.

Si sgolò chiamando la mamma.

Voleva lei. Non un padre difettoso che lo stava facendo morire. Se ci fosse stata sua madre, lì, avrebbe saputo cosa fare, e l'avrebbe stretto forte a sé dopo che tutto era finito. Era certo che si sarebbe buttata anche lei nelle fiamme, se fosse stato necessario a salvarlo.

Per un istante tornò a vedere.

Davanti a lui, nella stanza, galleggiava una grossa sfera di fuoco dai raggi accecanti, immobile sul proprio asse. Il Sole. Il Sole nel salotto di casa sua, che lo reclamava.

«Sonne...» udì Stefan, un suono che non proveniva da nessuna parte, o forse proprio dal Sole, o forse dalle sue stesse labbra, o forse lui e il Sole stavano diventando un'unica entità. Per un istante i rumori si ovattarono. Restò solo la luce che, propagandosi tutt'intorno, gli mostrava lo scheletro dorato delle cose. Un nuovo modo di vedere. Che realtà sublime era quella? Poteva tuffarcisi e dimenticare quel dolore? Così anche lui avrebbe emanato una sua luce. In fiamme per sempre, ma senza bruciare. Poiché il fuoco trasforma, avrebbe lasciato questa vita per trasformarsi nel Sole.

Il suo corpo cominciò a levitare in aria, via via verso l'alto, come se stesse attraversando un ponte verticale.

Poi si accasciò al suolo privo di sensi, nell'esatto momento in cui qualcuno spalancò la porta di casa e impedì a suo padre di diventare un assassino.

Allora l'avevano sentito.




Ma Dio chi era?

Perché gli aveva rubato la mamma, che ora pensava soltanto a lui?

Stefan la sentiva parlare da sola attraverso la parete della sua stanza, come un tempo ascoltava il vociare senza senso di suo padre. Preferiva parlare da sola piuttosto che con il figlio. O con i suoi compagni. Si era allontanata anche dal vicinato. Se qualcuno del quartiere di Klotzsche provava a bussare alla porta di casa per offrire un po' d'aiuto, con un pasto caldo tra le mani o un po' di spesa, lei lo bloccava all'istante sulla soglia e lo rimandava indietro senza particolare gentilezza. Per quanto ammirasse Petra, la gente non era disposta a farsi trattare così. A sprecare tante energie per qualcuno che non vuole essere salvato. Così, dopo mesi di rifiuti, non era venuto più nessuno.

Neanche Herr Gilbert si era fatto più vivo. A volte Stefan lo vedeva dalla finestra mentre saliva sulla sua Trabant verde sbiadito, identica a quella di Petra, solo più malandata. Altre volte lo incrociava sul vialetto di casa mentre andava a scuola, e lui gli faceva un cenno col capo – impossibile capire con precisione, sotto quei baffi così spessi e la visiera del cappello, che espressione si celasse. Stefan ricambiava il saluto deglutendo, con il cuore che galoppava. Non importava che fosse stato lui a salvargli la vita due anni prima, era ancora la persona di cui Stefan avesse più paura in assoluto. Non conosceva nessuno con una stazza simile. Chissà se faceva davvero parte della Stasi, se continuava a spiarlo.

Gli avevano raccontato – non ricordava più chi – che era entrato in casa non appena aveva sentito le urla, aprendo con la copia delle chiavi che gli aveva consegnato Petra per le emergenze. Gli aveva gettato un secchio d'acqua ghiacciata addosso riempito in fretta e furia dalla vasca, gli aveva tagliato i vestiti e l'aveva trasportato in ospedale sui sedili posteriori di quella Trabant, avvolto da un lenzuolo bianco, come se fosse già morto, mentre la pelle gli si staccava dal corpo a brandelli. Aveva lasciato l'incarico a Frau Hurst, la panettiera, di restare con Gregor e avvisare sua madre.

Un po' di tempo dopo l'accaduto, Petra gli aveva chiesto di restituirle le chiavi. Questo non significava necessariamente, però, che Herr Gilbert non li spiasse più. Solo che aveva troncato i rapporti con sua madre. Che non l'avrebbe cercata più con la stessa insistenza, come aveva fatto da quando era rimasta sola. Che non ci sarebbero più state voci sul loro conto.

Voci, voci, dicevano di tutto su di loro e su quello che era successo. Alle orecchie di Stefan ne arrivava solo una minuscola parte, che pure bastava a fargli desiderare di essere sordo.

«Petra è depressa da quando hanno rinchiuso il marito.»

«Ha anche rinunciato a fare il delegato politico di quartiere... alle riunioni del SED diceva che ci teneva tantissimo.»

«Il piccolo Stefan sta crescendo tutto da solo... Non è mai un bene quando un bambino si ritrova a essere l'unico adulto in casa.»

«E con quello che ha passato, poi...»

Voci che raccontavano la vita di qualcun altro senza sapere un bel niente.

«L'ho sempre saputo che Gregor era pericoloso.»

Ma la voce che più lo turbava era proprio quella di sua madre, oltre la parete.

Da qualche mese non andava più a lavoro. Stefan non sapeva come l'avessero presa, all'ambulatorio, Petra non gli diceva niente. Usciva dalla camera da letto solo per andare in bagno, o per cucinare qualcosa che poi non mangiava. Era l'unica premura che ancora aveva nei suoi confronti, oltre alle visite in ospedale a cui lo accompagnava. Dopo la scuola, di solito, gli lasciava un foglietto sul tavolo con una lista esigua di cose da comprare al minimarket del quartiere e qualche banconota. Stefan ci andava perché non aveva scelta. Herr Möbius, che lavorava al minimarket, gli infilava sempre di nascosto qualche regalo nelle buste, un pacco di Russisch Brot o una tavoletta di cioccolata, e poi gli chiedeva come stesse. «B-bene adesso» balbettava puntualmente lui. «E tua madre?», Mia madre? Lo chieda a Dio, Herr Möbius, «Così così.»

Di certo Dio doveva essere un abile conversatore, o perlomeno un ottimo ascoltatore. Stefan accostò l'orecchio al muro e riuscì a captare: «... non ho nessun altro come Te che... dopo questo miracolo... non torna nulla, ma non ho le prove... non so se è peggio avere torto o ragione... almeno Tu perdonami se sto sbagliando...»

Nulla di nuovo. Tornò a sedersi sul letto, sulla coperta a quadri che era sempre stata la preferita di Petra tra tutte le coperte che conservava nell'armadio, e di cui ora non le importava più. La accarezzò con il palmo.

Sua madre diceva spesso quella parola, miracolo. Si riferiva al suo risveglio dopo l'incidente. L'avevano dato tutti per morto, persino i medici. In quel senso era stato un miracolo. Aveva riaperto gli occhi dopo tre giorni come dopo un lungo sonno, nel reparto di chirurgia per i grandi ustionati, giusto in tempo per mettersi a ululare per un dolore sconosciuto che lo lacerava in tutto il busto.

Il tempo era trascorso così lentamente, da allora. Ma ricordava ogni singolo istante.

Sua madre era sempre accanto a lui nella stanza sterile, con camice monouso, calzari, cuffietta e mascherina, da cui emergevano solo gli occhi distrutti. Era lì che aveva cominciato a pregare, su quella sedia che all'improvviso era diventata il fulcro della sua vita, al suo capezzale. Non gli era permesso toccarlo. Le infezioni erano un pericolo sempre in agguato con le ustioni gravi, gli avevano detto. Per questo disinfettavano qualsiasi cosa dovesse toccare. Era stato fortunato per così tanti motivi, gli avevano detto. Le gambe erano state quasi del tutto risparmiate dalle bruciature, ne aveva solo un po' lungo l'anca e la coscia destra. Anche il volto era illeso. Le mani chiazzate solo da qualche ustione leggera.

Per il resto, era tutto ricoperto di bende e garze dalla vita in su. Una mummia in miniatura.

All'inizio, sua madre cercava di distrarlo e di chiacchierare un po' con lui. Lui, più che altro, con la pelle che si gonfiava e staccava, non faceva che piangere e lamentarsi e cercare di rigirarsi sul lettino. Ma anche sollevare un braccio richiedeva uno sforzo disumano. «Non muoverti, tesoro, così è soltanto peggio...» Nei giorni successivi erano arrivati altri due ustionati, adulti, che piangevano e si lamentavano come bambini – pareva che uno dei due si fosse versato dell'olio bollente sui piedi – e che l'avevano solo fatto agitare di più.

All'inizio, nessuno aveva costretto Stefan a parlare. Poi, dal nulla, era giunta la domanda fatidica, in presenza dei medici: «Cosa è successo, Stefan?»

Era rimasto per qualche secondo in silenzio, fulminato dalle possibilità che si erano aperte davanti a lui. Avrebbe dovuto raccontare di quanto gli piacesse bruciare le cose nel camino? Del Sole che l'aveva guardato dritto nelle pupille? Eppure gli era venuta in mente solo la risata di suo padre.

Da quando aveva risposto a quella domanda, da quando aveva scoperto, cioè, che potere possedessero le parole, sua madre non era più stata la stessa.

Da quel momento era stato lui a cercare di farla parlare. «Mamma... mi racconti quella storia...»

Era rimasta lì accanto a lui, certo, ma trasfigurata, come se fosse diventata un libro di pagine vuote, un ingranaggio che aveva smesso di funzionare. Stefan era al contempo allarmato e indispettito. Perché non lo coccolava più, come faceva a casa?

La situazione non era cambiata nelle settimane successive. Era stato un periodo di attese e nient'altro. I medici attendevano di sapere il grado e la profondità delle ustioni. Attendevano le risposte delle analisi del sangue e dei prelievi di pelle, ogni volta con nuove provette alla mano. La pelle, capricciosa, attendeva delle cure che le andassero a genio. Sua madre attendeva la sera, quando abbassavano le luci nella stanza, per mettersi a pregare a fior di labbra. Stefan attendeva di stare meglio. Ma più di ogni altra cosa attendeva che sua madre tornasse la stessa di sempre. Forse era l'ospedale a renderla così triste. Forse quando sarebbero tornati a casa si sarebbero sorrisi a vicenda, più leggeri, e d'ora in avanti lei l'avrebbe fatto dormire nel lettone per proteggerlo e assicurarsi che non accadesse mai più un orrore del genere.

Aveva trascorso tre o quattro mesi, in quel reparto. Per quel lasso di tempo, la sua sopravvivenza non era mai stata una certezza. Non che glielo avessero detto, ma non era uno stupido, l'aveva capito. Dal tono con cui pronunciavano certi numeri. Dagli sguardi che gli rivolgevano gli infermieri. (Tutto ciò che gli avevano detto era quanto fosse stato fortunato. Che fortuna, sì, prendere fuoco.)

Le ferite non si decidevano mai a rimarginarsi. Quando dovevano cambiargli le bende, Stefan notava ancora dei rivoli di sangue che gli colavano addosso come le venature di una pietra, o come lava tra le crepe della crosta terrestre. Aveva visto qualcosa del genere in un'immagine sul libro di scienze. La prima volta che si era guardato l'addome, il respiro gli si era accelerato a tal punto che i medici avevano dovuto calmarlo con una puntura. Aveva pensato: che schifo. Aveva pensato: non tornerò mai più normale.

Ed era stato così. Niente era più tornato normale. Né lui, né sua madre, né tutto ciò che li circondava. Talvolta Stefan credeva di star vivendo una seconda vita, o di aver abbandonato per sempre la vita, e che quello dunque fosse una sorta di luogo di transizione in cui doveva superare delle prove prima di sparire per sempre. Decisamente non era la stessa vita. Il fuoco aveva segnato un confine. Il fuoco aveva segnato un confine sul suo corpo. Adesso c'erano due Stefan, e uno non esisteva più, se l'era preso il Sole.

(Dio era il Sole?)

Quando era tornato a casa – su una sedia a rotelle, perché non si affaticasse troppo – suo padre non era più lì.

Sua madre neppure: al suo posto c'era una donna che non riconosceva. Lo ignorava. Gli stava lontana il più possibile, come se non riuscisse a guardarlo in faccia.

«Mamma?»

La mamma si andava a mettere a letto senza avergli rivolto la parola per tutto il giorno.

«Mamma?»

La mamma lo accompagnava a fare la fisioterapia, ché ancora non riusciva a piegare bene le braccia o a trasportare pesi, e annuiva assente ai progressi che elencava il fisioterapista, o a quell'avvertimento sottovoce, che eppure Stefan aveva distinto perfettamente, «Suo figlio avrà una crescita difficile. Continuerà a soffrire finché non avrà completato lo sviluppo, per via del corpo che cerca di allungarsi, sa, nonostante i danni che ha subìto ai tessuti. La terapia è fondamentale.»

«Mamma...?»

«Non grattarti, Stefan, o dovrò portarti di nuovo in ospedale.»

Gli era venuta la nausea, degli ospedali. Sognava fuoco e ospedali ogni notte. E lacci emostatici. E siringhe. E antibiotici. Ma il prurito a volte era talmente feroce... Quante visite avrebbe dovuto fare ancora? Quante umiliazioni avrebbe dovuto subire ancora, nudo e in lacrime davanti ai medici, che per controllarlo lo toccavano anche dove non voleva essere toccato, che gli facevano provare dolore anziché alleviarlo, che avevano reso sua madre una loro complice?

«Mamma...»

Dove sei? Perché non mi vuoi più bene come prima? Che t'ho fatto?

Non gliele faceva mai, queste domande. Lo sapeva cosa aveva fatto.

Dopo due anni aveva cominciato a chiedersi qualcosa di molto, molto più spaventoso: Adesso mamma mi odia?

Le sue cicatrici avevano assunto un colorito più normale ed erano diventate pelle liquida sul suo corpo che cresceva. A volte poteva giurare di vederle spostarsi lungo le spalle, le poche volte che si faceva coraggio e si andava a posizionare senza maglietta davanti allo specchio. Un giorno aveva pensato che sembrava proprio un mostro uscito dalle sue storie, e sua madre non era stata lì a consolarlo, a dirgli non è vero, tesoro mio, non pensarlo mai più. Così, quel pensiero aveva messo radici. Si era espanso sotto la sua pelle come un'ulteriore pelle, una certezza che l'aveva ricoperto centimetro per centimetro, finché non si era detto che sarebbe stato molto meglio evitare lo specchio, d'ora in avanti.

Ma tutti, nel quartiere, erano specchi viventi. Tutti lo guardavano come se non vedessero nient'altro che le sue cicatrici, anche quando si ricopriva di vestiti pesanti e riusciva a occultarle tutte. Tutti continuavano a trattarlo come se non fosse nient'altro che il bambino bruciato, anzi, a ricordargli che non avrebbe mai potuto essere nient'altro.

A scuola gli insegnanti lo trattavano con molta più condiscendenza, lo interpellavano poco, lo perdonavano subito per le sue mancanze, e non gli dicevano niente se stava imbambolato a fissare il vuoto anziché partecipare alla lezione. Aveva saltato più di un anno, perciò adesso invece della sesta frequentava ancora la quinta. I suoi nuovi compagni cercavano di parlargli. Gli offrivano la merenda, sotto suggerimento di Frau Schneider, l'insegnante di storia. Stefan si sentiva obbligato ad accettare. Alzava lo sguardo su Frau Schneider mentre addentava un biscotto, per vedere se fosse contenta, dietro la cattedra. Frau Schneider, una donna zoppicante sulla sessantina, lo teneva sempre d'occhio. Forse anche lei faceva parte della Stasi. Forse anche i suoi compagni erano stati reclutati uno a uno per sorvegliarlo. Una volta era corso in bagno con il gelo alle gambe, pensando: e se a furia di spiare scoprono che quello che ho detto è una bugia? E se mi portano in carcere? E se mi portano in manicomio?

A scuola quell'anno aveva conosciuto un bambino. Era l'unico che sembrava genuinamente interessato a parlargli, forse perché anche lui non aveva molti amici. E, soprattutto, con grande sollievo di Stefan, non gli importava un fico secco delle sue tragedie passate. Si somigliavano, quasi, solo che Oskar era più basso ed esile come un fuscello, ed era bravissimo nella corsa, tanto che il maestro di educazione fisica gli diceva che avrebbe dovuto iscriversi a qualche gara, in futuro. Ma Oskar sembrava molto più interessato ai libri. Gli aveva chiesto consiglio su cosa leggere, e Stefan aveva scoperto che in realtà aveva letto molto più di lui. Avevano iniziato a scambiarsi dei libri durante la ricreazione. Oskar ci metteva sempre molto meno tempo a finirli, e Stefan un po' lo invidiava, perché non riusciva a capire cos'altro potesse essere quello strano moto – piacevole, persino – che gli veniva al petto in sua presenza. Se aveva ancora un minimo di voglia di andare a scuola doveva ringraziare lui.

E proprio quando si era abituato a quella piccola, nuova sicurezza, Oskar aveva fatto qualcosa di inaspettato. Un pomeriggio, in cortile, dopo che tutti se n'erano ormai andati, l'aveva spinto contro il tronco di un albero e gli aveva dato un bacio sulla guancia. Poi era scappato via con la faccia tutta rossa e una risata sommessa, gridando: «Prendimi se ci riesci!»

Non l'aveva inseguito, ovviamente. Sarebbe stato inutile, per quant'era goffo e per quant'era veloce lui, con quelle sue gambette lattiginose. Era rimasto lì contro l'albero a tastarsi la guancia come se avesse assunto di colpo un'altra consistenza, in uno stato di shock ma anche di... euforia. Non aveva idea di cosa implicasse tutto quello.

Poi aveva scoperto che Frau Schneider li aveva visti e che aveva parlato con sua madre. (Mi spia davvero!) Petra gli aveva mostrato tutto il suo sdegno con un'indifferenza ancora più crudele. Allora sì che aveva capito che significato avesse avuto quel bacio. Si era pietrificato. No no no no non posso farmi odiare ancora di più da mamma.

Frau Schneider doveva aver parlato anche con la mamma di Oskar, perché dopo qualche giorno l'aveva fatto trasferire in un'altra classe. Stefan lo vedeva ancora per i corridoi, in cortile e in palestra, ma se Oskar provava ad avvicinarsi, lui gli rispondeva male, a voce alta, per assicurarsi che anche gli altri compagni sentissero che non voleva averci più niente a che fare con uno così. Un giorno Oskar era scoppiato a piangere dalla rabbia, e non aveva fatto in tempo ad asciugarsi le lacrime e il moccio con la manica della camicia che gli altri ragazzini intorno l'avevano puntato e avevano trovato il pretesto perfetto per prenderlo in giro per settimane. Alla fine Oskar si era arreso e non gli aveva più rivolto la parola. E dire che avevano ancora dei libri l'uno a casa dell'altro. Ma a Stefan non importava. Glieli avrebbe ceduti volentieri pur di non far credere alla gente che fosse come lui. Uno a cui piacciono i maschi invece delle femmine. Una cosa che non aveva mai sentito prima, che l'aveva lasciato sbigottito e confuso. Era possibile? Una specie di cortocircuito nella normalità.

Gli faceva torcere le budella l'idea che le persone potessero affibbiargli anche quell'anomalia quando aveva già un'altra mostruosità con cui fare i conti ogni giorno.

Non aveva mai smesso di amare il fuoco.

Era quella la cosa più tremenda, che cercava sempre di ricacciare in un angolo remoto della sua testa ogni volta che lo solleticava. No, non è vero, non mi piacciono più le fiamme. Non può piacermi qualcosa che mi ha fatto del male–– ma forse mi sono fatto male perché non sono stato abbastanza attento... e perché Gregor è rimasto lì impalato a ridere... Se lui mi avesse aiutato, a quest'ora starei bene...

Che oscuro significato aveva tutto quello? Cosa c'era di sbagliato in lui, che non c'era negli altri bambini? Perché il cuore faceva una capriola nel petto e gli prudevano i polpastrelli ogni volta che pensava al fuoco, perché si struggeva tanto per una cosa che gli aveva fatto penzolare la pelle dal corpo come uno straccio?

(Forse avevano ragione le mamme nel cortile della scuola: doveva pur aver ereditato da suo padre qualcosa che non andava.)

Da quel punto di vista, sua madre non sospettava nulla.

Non si accorgeva di come sobbalzava quando si accendeva una sigaretta davanti a lui, le poche volte che stavano insieme, e se lo notava lo attribuiva di sicuro alla paura, che pure non mancava.

Una sera a tavola, però, mentre lei fumava in silenzio e Stefan finiva di mangiare la zuppa con il capo chino sulla scodella, dopo le notizie di Aktuelle Kamera era partita una puntata di Sandmännchen allo zoo. Stefan non era riuscito a trattenere il pianto alla canzoncina di apertura, gli era esploso sulla faccia, e Petra l'aveva guardato, accigliata, con la sigaretta sospesa in aria.

«Che hai?»

Lui non aveva risposto, asfissiato dai suoi stessi singhiozzi. Si era coperto il viso, ma non era scappato in stanza come le sue gambe gli stavano suggerendo. Aveva atteso che la mamma lo abbracciasse, che lo circondasse proprio dove gli faceva male, gli sarebbe bastato solo quello e le avrebbe perdonato tutti i mesi di silenzio e tutto l'amore che gli aveva negato.

Ma lei, finita la sigaretta, si era alzata, aveva spento la televisione ed era andata a mettersi a letto. «Se non la mangi più, buttala nel lavandino» aveva detto.

Sua madre era sempre a letto. Era un'abitudine che si accentuava ogni giorno di più.

Eppure si alzava e si preparava di tutta fretta quando arrivava il giorno delle visite alla clinica psichiatrica. Se lui non era a scuola, gli artigliava il polso e lo trascinava con sé fino alla soglia dell'edificio. Non lo lasciava neanche se Stefan sosteneva la sua stessa andatura. Gli faceva male, ma non protestava.

La clinica non sembrava nemmeno poi così triste, all'esterno, aveva un bel giardino in fiore e una facciata curata. Sul retro, però, si notavano le sbarre alle finestre. Stefan provava a immaginare come sarebbe stato vivere lì per sempre: affacciarsi alla finestra ogni giorno e non vedere altro che i soliti alberi e un parcheggio pieno di Trabant, e un paio di ambulanze.

Un giovane infermiere accompagnava suo padre nella sala comune dove loro lo aspettavano, seduti a un tavolo rotondo. E se Gregor faceva i salti di gioia quando li rivedeva, l'infermiere eseguiva gli ordini e si assicurava che non si avvicinasse più del dovuto né alla moglie né tantomeno al figlio, quel figlio a cui aveva gettato un pupazzo nel camino e che poi aveva spinto nelle fiamme per ammazzarlo.

O almeno, questa era la versione che Stefan aveva raccontato.

La versione a cui solo sua madre non aveva mai creduto.

A nulla erano valsi i suoi tentativi di riportarlo a casa. Dicevano tutti che i bambini fossero la bocca della verità.




Sonne non aveva neanche ascoltato la propria voce. A un certo punto aveva iniziato a raccontare e non si era più fermato. Aveva parlato anche dei suoi nonni e del dolore che aveva provato con la crescita come gli era stato predetto dal fisioterapista, della scoperta della scrittura, della cicatrice sotto l'occhio e dell'incendio in cui Richard l'aveva salvato, per concludere la storia dei suoi tre incontri fatali con il fuoco.

Giunto alla fine, quando non seppe più cosa aggiungere, respirare gli sembrò molto più semplice per qualche istante. Provò la gratitudine che si prova per il primo vento fresco dopo una torrida estate. Ne sentì persino il tenero fruscio nelle orecchie.

Era finita.

Non sapeva neanche quando, di preciso, si fosse invertito con Richard e Verena. Adesso loro due erano seduti sul divano e lui stava in piedi a guardarli, di fronte. Avevano assunto una posa piuttosto rigida, ed erano ammutoliti.

Sonne rimase fermo e attese il loro responso, spostando lo sguardo dall'uno all'altra. Si stava rimettendo a loro. Ma nessuno dei due parlò.

Si umettò le labbra, di nuovo nervoso. «Dite qualcosa, vi prego.»

«Hai scelto di chiamarti Sonne per via di quella... allucinazione che hai avuto da bambino, quindi?» chiese Richard.

La curiosità. La curiosità andava bene. Era una buona reazione. Di gran lunga migliore di quello che si sarebbe aspettato – come la domanda che più lo terrorizzava, che era una domanda che lui stesso avrebbe posto spontaneamente se si fosse ritrovato dall'altra parte: quindi tuo padre sta in manicomio da anni anche se non ha mai fatto del male a una mosca, per colpa tua?

O forse: Tua madre aveva capito che hai mentito e non è più riuscita a guardarti con gli stessi occhi, perché le hai strappato la persona che amava?

No, peggio, c'era sempre una domanda peggiore.

Tua madre si è suicidata a causa tua?

E tutto perché sei un cazzo di piromane?

«Sì. Non ho fatto che pensarci, dall'incidente. Mi sono sentito chiamato dal Sole, con il nome del Sole. Non c'era nient'altro in cui riuscissi a rispecchiarmi, neanche in Stefan. Stefan non esisteva più, quando ho iniziato a scrivere.»

L'ultima volta che Richard era sparito, Sonne gli aveva promesso proprio che un giorno gli avrebbe spiegato l'origine del suo nome. Se lo ricordava bene. Ricordava bene ogni sua promessa. Ora, al loro cospetto, quella parola assumeva nuovi significati. Grazie alla loro venuta, Sonne adesso sapeva che il Sole gli aveva concesso un'investitura divina. Ecco perché si era manifestato a lui ed era diventato la materia che lo animava.

Non ci furono altre domande.

Il silenzio lo prese di nuovo alla gola.

Oh no, no. Parlate ancora. Distraetemi da questo peso, non posso sopportarlo.

Rimasero immobili per qualche altro istante, finché Verena non si alzò di scatto. Richard, come se si specchiasse nei suoi movimenti, il suo gemello d'inchiostro, si mise in piedi di riflesso.

Sonne deglutì e istintivamente fece un passo indietro.

Verena venne verso di lui. Si fece così vicina che Sonne non seppe se la scarica che lo attraversò fosse di paura o di fermento: non si era mai avvicinata di sua spontanea volontà da quando era tornata. Si era sempre tenuta a debita distanza perché lui non la toccasse. L'aveva sempre respinto, come quella sera. Sonne stava cominciando a credere che non fosse più rimasto alcun granello della sua luce in lei, che l'avesse sprecata tutta all'esterno di quelle mura convincendosi di poter amare altre persone con la stessa intensità con cui aveva amato lui. Ma era impossibile. Non si poteva amare più di così. Non esisteva amore più alto di quello che crea.

Verena gli si piazzò a un palmo dal naso, e alzò il mento per guardarlo negli occhi.

«Voglio vedere.»

Sonne non capì subito.

Capì soltanto quando Verena portò le mani al primo bottone della sua camicia e lo fece scivolare via dall'asola. Un gesto banale e rapido – troppo improvviso per essere fermato, di una semplicità inaudita – che gli capovolse lo stomaco.

Le afferrò il polso, e glielo strinse così forte da sentire i battiti del cuore nelle sue vene. Ma il suo cuore correva di più. «No» esalò, atterrito, arrabbiato.

Le gambe si fecero di piombo.

Non potevano spingersi a tanto.

Quel tipo di curiosità superava ogni limite.

Si voltò verso Richard, che intanto gli si era affiancato. Lo supplicò con lo sguardo.

«Voglio vedere anch'io...» disse lui, tuttavia, con un tono più morbido ma non privo di determinazione. «Voglio vederti per intero

«Ce lo devi» incalzò Verena. «Ci devi anche questo. Ormai non è più un segreto, non c'è niente da nascondere.»

Sonne schiuse le labbra per dire qualcosa, ma le parole gli si erano bloccate in fondo alla lingua. Si rese conto di star tremando e di non riuscire neanche a indietreggiare. O a pensare. La repulsione era sempre stata una cosa istintiva, del corpo, sopita nei suoi muscoli che avevano imparato presto ciò di cui dovevano avere disgusto. E ora, davanti a Richard e Verena, che erano la sua mente fatta carne, non aveva che il corpo. Quel corpo.

Quanto avrebbe desiderato il corpo pulito e sano del suo alter ego per spogliarsi senza vergogna, in quel momento, o quanto avrebbe desiderato la sua autorità per dire loro: non osate. Sono io che vi muovo. Io che decido. Voi non avete alcun potere su di me.

Richard gli sfiorò la mano libera con il dorso della propria. «Sonne... siamo solo noi. Non devi avere paura, d'accordo?»

Solo?

Solo?

(Lasciatemi in pace.)

(Fate di me ciò che volete, del mio corpo e del mio sangue, come io ho fatto del vostro.)

(... ma non osate...)

Verena si era liberata dalla sua presa. Riprese a sbottonargli la camicia, un bottone per volta, dall'alto verso il basso. Cercò di essere meno brusca. Sonne risucchiò un respiro a ogni bottone, finché non sentì bruciare i polmoni. Lei non lo guardò in faccia – guardò le proprie dita che sbottonavano, graffiate dalla caduta sull'asfalto, e i due lembi della camicia che d'un tratto aprivano uno spiraglio. Ma non la spalancò, né vi infilò le mani per toccarlo.

Si scostò appena per lasciar continuare l'opera a Richard. In qualche modo, sapeva che Sonne si fidava di più di lui.

Richard gli slacciò la cintura. Il suono delle fibbie gli causò un capogiro che gli offuscò la vista per un attimo. Poi gli sbottonò i pantaloni e abbassò la zip. A Sonne tornarono in mente le prime volte che aveva provato a fare sesso all'università. Abbassare la zip era il massimo che si concedeva. Non un altro lembo di pelle. Aveva preso le ragazze rigorosamente da dietro. Rigorosamente al buio. Non gli era mai piaciuto, perché non sarebbe dovuto essere così.

(Il piacere di dare qualcosa alle fiamme era sempre stato più intenso e più gratificante del sesso. Ineguagliabile. Proibito. Aveva dovuto reprimere, negli anni, quello che era il suo unico impulso vitale. Il suo istinto di distruzione. Di autodistruzione. Di trasformazione. Di creazione. Il suo amor proprio. La sua colpa.)

(Ma non l'aveva represso fino in fondo, no: era nelle sue storie.)

Adesso il buio non gli era concesso. Pur essendo notte, c'era troppa luce. I fuochi d'artificio avevano preparato il terreno lasciando tracce di fuoco ovunque, persino nei loro occhi.

In quel momento agirono in sincronia. Verena si chinò per togliergli le scarpe, poi gli tirò i pantaloni e le mutande verso il basso, suggerendogli un laconico «Alza i piedi» per sfilarglieli via. Richard aprì la camicia, quasi in una carezza. Gliela fece scivolare sulle spalle e la lasciò cadere a terra spiegazzata su se stessa.

Quando tutti i suoi vestiti furono in un mucchio disordinato sul pavimento, Richard e Verena arretrarono di qualche passo per poterlo osservare, nudo, nella sua interezza, per la prima volta.

Il bambino bruciato.






Note d'autrice:

Eccoci con un altro dei capitoli più importanti della storia ♥ Ho faticato un po' a scriverlo non solo per mancanza di tempo ma anche perché era molto delicato a livello di tematiche, e non volevo che risultasse solo un lungo (lunghissimo) spiegone. Spero con tutto il cuore che ve lo siate goduto, che vi sia arrivato, e che tutti i tasselli di Sonne e del suo senso di colpa (che muove tutta la storia, in pratica) adesso risultino al proprio posto.

Avevo disseminato parecchi indizi lungo la strada in merito all'incidente, forse qualcuno aveva già capito qualcosa, soprattutto rispetto al corpo di Sonne. 

Vi aspettavate che fosse successo questo alla sua famiglia, a parte le cose che avevo già raccontato?

Vi aspettavate che il nome Sonne fosse dovuto a qualcosa del genere? A livello simbolico, è la cosa che amo di più di Nebel, perché si collega a tutto: alla divinità, al fuoco, alla luce, alla distruzione/creazione, alla conoscenza, alla vista, al maschile, alla vita...

Cosa accadrà nel prossimo, secondo voi, ora che Richard e Verena hanno visto il suo corpo? Spero di aggiornare il prima possibile, tesi permettendo ♥

Il titolo del capitolo, Das gebrannte Kind, significa Il bambino bruciato.

A presto!



PS: di sicuro avrete notato il massiccio uso delle parentesi, in questo capitolo, so che ad alcunx non piacciono, ma io lo trovo lo strumento più efficace a esprimere nel narrato una sorta di "glitch", di pensieri che si vorrebbero rigettare e che invece emergono lo stesso nella coscienza del personaggio. 

PPS: io tristissima quando Sonne ha "ammazzato" Sabbiolino/Sandmännchen :(
Ho visto anche delle puntate su youtube (era un po' la Melevisione della DDR, in poche parole) e lo trovo di una tenerezza assoluta. Cioè, guardate che faccino pls:

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