XLIII. Fasten

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N E B E L

XLIII.

Fasten



Stavano entrambi seduti sul divano con le mani intrecciate.

Richard muoveva freneticamente una gamba su e giù. Ogni tanto gettava delle occhiate nervose alla stanza di Verena.

La porta era aperta. La vedeva stesa sul materasso nella penombra, con il volto affondato nell'avambraccio. Aveva portato la videocamera con sé, che la osservava impassibile dal mobile di fronte al letto, l'unica rimasta a non aver paura di lei.

Non riusciva neanche a guardare Sonne. Con la coda dell'occhio, sapeva soltanto che se ne stava immobile accanto a lui.

Nell'aria c'era ancora puzza di vomito e un silenzio che faceva fischiare le orecchie. Doveva essere trascorsa la mezzanotte.

Richard si sentiva sventrare a poco a poco da una lama sottile di panico. Cosa diavolo dovevano fare adesso? Qualche ora prima, Verena aveva tentato di ammazzare Sonne.

E aveva rischiato di ferire gravemente anche lui.

Non le era importato.

Dovevano lasciarla lì e attendere che prendesse di nuovo l'iniziativa? Dovevano allontanarla?

Qualsiasi soluzione gli risultava inconcepibile e sbagliata. Intanto, il tempo scorreva e sembrava voler far tornare tutto... normale. Il tempo non si curava di loro.

Una parte di Richard non riusciva nemmeno a incolparla, né osava rivolgere la parola a Sonne per chiedere spiegazioni.

(Cosa ci faceva, lui, tra quei due pazzi?)

Alla fine trovò un briciolo di coraggio per affrontarlo, quando credette che lei si fosse addormentata – se n'era convinto, più che altro, era molto probabile che in realtà fosse sveglissima, impegnata in una violenta lotta interiore con se stessa.

«È vero?» gli domandò a bassa voce e con lo sguardo puntato sulle scarpe, come un bambino troppo timido.

Sonne voltò meccanicamente la testa e lo fissò, vacuo. Sapeva a cosa si stava riferendo. Non rispose, il che equivaleva a un sì.

«Ma come... Come ti è saltata in mente una roba del genere?»

Era la prima volta che si sentiva sporco all'idea di essere stato generato dalla sua immaginazione, la stessa che aveva prodotto quella tragedia. Verena aveva ragione: lui era stato risparmiato soltanto perché, per crearlo, Sonne aveva pescato dal bacino del reale, dall'altro Richard. A lei, che era nata tutta da lui, erano stati destinati tutti gli orrori che covava dentro. Era la martire della sua fantasia.

Sonne parve sentirsi accusato. «Per l'amor del cielo, Richard, ancora una volta: non è qualcosa che posso controllare. Tu riesci a controllare i tuoi pensieri, le tue idee?»

Ma io non immagino che le persone intorno a me siano cannibali, avrebbe voluto dire. L'hai immaginato anche di me? Mi faresti diventare un mostro con uno schiocco di dita, se ne avessi la possibilità?

«No, ma...» Non continuò la frase.

«Mi è venuto in mente proprio l'altra sera, quando mi ha chiesto cosa avessi in serbo per il suo passato» rifletté Sonne. «L'idea era quella che avesse ucciso suo padre, ma non l'ho mai scritta, perché non ho mai finito il suo racconto, proprio come il tuo. Sai come doveva finire il tuo racconto? Con la mia morte. Non l'ho scritto. È rimasta un'idea. Per questo lei non lo ricordava e aveva questo buco dentro di sé. Ovviamente non gliel'ho detto per non darle questo peso. Ho mentito per il suo bene. Capisci? Non avrei mai voluto che lo scoprisse, ho fatto di tutto per scacciare questa idea da lei.»

Richard si torturò le dita di una mano, grattando via le pellicine intorno alle unghie.

«L'unica cosa che non sapevo era come fosse avvenuto. Ho fatto l'errore di mettermi a fantasticare, quella sera... e nel giro di poco ho avuto l'illuminazione. Non puoi neanche capire quanto sarebbe stato perfetto se l'avessi scritto. È stata l'idea a venire da me... Tutti i tasselli sono combaciati alla perfezione, come se fossero lì da sempre e avessi solo dovuto riordinarli... No, anzi, come se all'improvviso si fossero riordinati da soli, con un soffio di vento. Il terreno era già pronto per questa svolta. Ma tanto... cosa importava? Cosa diamine poteva significare un'idea in più, un'idea in meno, quando lei è qui in carne e ossa? Ero convinto di non poter modificare la realtà a posteriori. Ci ho provato con ricordi molto più felici, lo sai... C'erano tante altre cose che avrei voluto rendere reali. Non pensare... ti prego, non pensare in alcun modo che io l'abbia fatto apposta. Anche se è ciò che crede lei. Almeno tu... non pensarlo. Non so cosa sia cambiato o come possa essere successo.»

Richard cominciò ad agitarsi dinanzi al suo tono concitato.

Non sai mai niente. Che creatore sei?

Però aveva senso quello che diceva. Gli sembrava sincero.

«Forse...» gli venne spontaneo dire. «Forse è successo, stavolta... è diventato un ricordo vero perché, appunto, come hai detto tu... era tutto già lì disposto, in attesa che tu gli dessi il significato finale. Una cosa già radicata dentro di te. Alla fine le nostre menti sono sempre comunicanti, in qualche modo, no? Questa qui... cazzo, questa qui era una cosa troppo grande per restare nel tuo cervello e basta.»

Gli occhi di Sonne, sempre alienati, lo guardavano come da dietro una lastra di vetro opaco. «Una cosa già radicata dentro di me...» ripeté, mentre rincorreva chissà quale filo logico. Magari si stava ricordando di quanto la fame di Verena, dopotutto, l'avesse sempre inquietato. «Come se... come se lo sapessi già, in fondo, dici? Una verità che aspettava di essere attivata? Una sorta di serpente che si morde la coda?»

«Può essere.»

«Deve essere questo» rimuginò, annuendo. «Del resto, era una caratteristica fondamentale del suo personaggio. Non poteva restare sopita per l'eternità, se è questo il senso. Una volta, poco dopo il suo arrivo, ho fatto un sogno che ricordo ancora in maniera così vivida...»

Prima che tornasse a fissare il vuoto, Richard non perse l'occasione e lo interrogò di nuovo. «Ma quindi... cos'è che... cos'è che ha fatto di preciso?»

Sonne si alzò bruscamente dal divano e si allontanò di qualche passo. Gli specchi rifletterono tanti altri Sonne scossi e tetri, amplificando la sensazione di grottesco che aleggiava nella stanza.

«Devo saperlo. Devo sapere cosa sta passando» insisté lui, forse alzando troppo la voce. Verena si rigirò tra le coperte in quel momento, per poi tornare inerte. Da un lato, Richard sperava che stesse ascoltando tutto.

«Ti basti sapere che l'ha fatto per proteggere i suoi fratelli.»

«Proteggere? Da cosa?»

«Da lui. Il padre abusava di tutti tranne che di lei. Non ci eri arrivato?»

Richard trattenne il respiro. Porca puttana, Sonne, porca puttana, porca puttana. «E perché, dopo averlo ucciso, l'ha...?»

«È simbolico» ribatté lui, quasi stizzito.

«Simbolico.»

«Divorare il padre, capisci? A tavola con i fratelli. Poi loro, dopo anni di isolamento, l'hanno scoperto e lei è fuggita. Era così che doveva finire la storia. Con la sua emancipazione. Sarebbe stata l'unica a uscire dalla foresta.» Per un attimo sembrò sul punto di piangere. «Doveva essere un racconto, Richard... Non guardarmi così. La fantasia ha altre regole rispetto alla realtà, non bada ad alcuna morale, così come la letteratura. Te la prenderesti mai con i tuoi gruppi metal per le cose che scrivono? Che colpa ne ho, puoi dirmelo? Anche la scrittura, l'unica cosa innocente della mia vita, è diventata una colpa?»

A quell'ultima domanda, Richard si riscosse con una stretta al cuore. Perché l'aveva portato a pensare quello? Non se lo meritava. Non quando era tutto più grande di loro. Si alzò e gli si avvicinò, afferrandogli delicatamente i polsi. «Non dirlo neanche...» Sonne non si ritrasse, e Richard, allora, ritenne giusto abbracciarlo. Stava tremando. Gli accarezzò la schiena, lì dove giaceva la sua cicatrice uniforme. «Ti sei spaventato, prima, vero? Vieni qui... Mi sono spaventato tanto anch'io.»

«Se... se non ci fossi stato tu... Non... non riesco neanche a pensare c-che lei v-volesse...»

Richard lo strinse più forte.

Neanche lui riusciva a realizzarlo appieno. Verena aveva tentato e desiderato di uccidere Sonne, a costo di sacrificare tutti e tre. Chissà cosa sarebbe successo a loro, se lui fosse morto. Chissà se avrebbe pugnalato anche lui, se Richard non fosse stato abbastanza forte da respingerla.

Quella notte loro due, soli, andarono a dormire in camera di Sonne chiudendo la porta a chiave. Mentre si stendeva accanto a lui e intrecciava i propri piedi freddi ai suoi, Richard si accorse solo di sfuggita che aveva già cambiato completamente espressione, che si era chiuso di nuovo nel suo volto, come se fino a poco prima avesse soltanto recitato una parte.




Non accadde più nulla.

Verena stava tutti i giorni a letto, in una sequenza di due o tre posizioni, supina, o con le ginocchia abbracciate, o con il busto un po' sollevato. Non parlava, e aveva stampato in faccia uno sguardo cerchiato dalle occhiaie che Richard aveva il terrore di incontrare. Le uniche volte che si era azzardato a cercarlo, era stato attraversato da un brivido come nei momenti in cui, nei film horror, compariva dal buio la creatura satanica che guardava dritto negli occhi dello spettatore.

Era con la morte nel cuore che lui e Sonne entravano a intervalli nella sua stanza, per controllare che non fosse sparita. Sopravviveva grazie alla videocamera, ma non sarebbe sopravvissuta a lungo. L'errore era dietro l'angolo.

C'erano momenti in cui fingevano che non esistesse. Loro erano in cucina, in bagno, a letto, Sonne scriveva e Richard s'infilava le cuffie, e lei nascosta dietro un muro, sempre con lo stesso sguardo e sempre con lo stesso pigiama sgualcito.

Era proprio così che aveva immaginato il susseguirsi dei giorni. Con loro che la evitavano, perché non potevano fare altro. In un certo senso, in quell'aria tesa, si stavano fidando di lei. Stavano credendo con tutte le proprie forze che non le venisse un altro raptus di rabbia. Ma la verità era che semplicemente non sapevano che farsene.

Quando una mattina Richard la sentì vomitare, dietro la porta del bagno, gli venne l'istinto di bussare per sapere come stesse. Ma non lo fece. Si limitò ad andare in camera da lei più tardi e a domandarle sullo stipite della porta, grattandosi la nuca: «Sicura di non voler mangiare niente?»

Verena non aveva risposto e si era girata dall'altro lato sul materasso, con una mano sotto la guancia, la videocamera a riprendere tutto. Accanto ad essa giaceva una pila di cassette già consumate.

Tornò da Sonne per comunicargli il suo responso inesistente.

Per la prima volta, Sonne contò i giorni e si rabbuiò. «Non sta mangiando da quella sera.»

«E s'induce il vomito ogni volta che va in bagno.»

«Così vomita solo succhi gastrici. Si brucerà la gola.»

Per la prima volta, parlava di nuovo di lei con apprensione. Verena era pur sempre una sua responsabilità.

Eppure non faceva niente. Non facevano niente. La lasciavano lì, ad ammalarsi, a riprodurre quel male che a breve avrebbe colonizzato tutta la casa come spore – un regno che le somigliava.

Erano troppo codardi per affrontarla.

Anche quando cominciarono a sospettare che si stesse lasciando morire di fame, la reazione fu di impotenza assoluta. Così, loro pranzavano e cenavano a tavola, Sonne si abbuffava di cibo spazzatura che non doveva essere cucinato, e lei moriva piano nella stanza accanto, digiunando.

Richard non riusciva a biasimarla. Anche lui, al suo posto, non sarebbe più stato in grado di mettere alcunché sotto i denti. Però sapeva che da parte di Verena era anche una protesta. La sua determinazione, in qualche modo, li pungeva nell'orgoglio. Notare con che disciplina e rigore stesse attuando una decisione simile. Anche per questo si ostinavano a isolarla come se fosse il loro fantasma domestico. Non vederla era una consolazione.

Avrebbero continuato con quello stallo, forse, finché non fosse stato troppo tardi. Ma Sonne, chissà perché, sembrava fiducioso che il troppo tardi non sarebbe mai arrivato. Richard temeva che si fosse convinto che a Verena servisse solo un po' di tempo per metabolizzare, e che alla fine sarebbe tornata da lui, com'era sempre tornata. Dimmi che non sei così pazzo, che non sei disposto a perdonarla. Come faceva a illudersi così? Non lo sapeva, di essersi spinto troppo in là e che Verena non gli avrebbe concesso un'altra riconciliazione, che convivere con una consapevolezza del genere era impossibile?

Non sapeva come dirglielo, che era un ingenuo, un folle, e che pur essendo il suo creatore non la conosceva per niente.

Non sapeva cosa fare.

E intanto il tempo scorreva, e il corpo di Verena s'indeboliva. Lo vedeva farsi piccolo e magro, su quel maledetto materasso, d'un grigiore cadaverico. Aveva le labbra secche e spaccate come se le pellicine fossero l'unica cosa di cui si era nutrita. Lei, che tanto aveva amato la vita, si stava consegnando alla morte. La sua fame stava divorando se stessa dall'interno. Persino il suo sguardo, giorno dopo giorno, si faceva meno feroce. E si osservava allo specchio mentre si spegneva.

Era stanca.

Nemmeno si lamentava dei crampi allo stomaco.

Richard si muoveva sempre più agitato e a scatti, intorno a lei.

«Ti porto un po' d'acqua?», «Ti va di parlare un po'?»

Ma non insisteva mai.

Avrebbe dovuto?

(Ha tentato di ammazzare Sonne. È pericolosa. È ingestibile. È lei che ci ha divisi.)

Una mattina, però, notò che le era rimasta una sola videocassetta vuota tra le torri di videocassette in bilico sul mobile. Andò subito a riferirlo a Sonne, in preda all'ansia. Lui si illuminò da un istante all'altro distendendo la fronte.

«Bene» disse.

«Bene?»

«È adesso che tornerà da noi» spiegò, bevendo il caffè bollente dalla sua tazza. «Detesta l'idea di sparire e di tornare nella mia testa. Pur di restare da questa parte, dovrà affidarsi di nuovo ai nostri occhi. Dobbiamo solo aspettare.»

Richard sbatté le palpebre dinanzi alla sua tranquillità. (Quando aveva smesso di essere umano anche lui?) Non ne era sicuro, ma provò a dargli retta ugualmente.

Aspettarono. Nella stanza di Sonne.

Lui scriveva con foga alla scrivania e Richard lo osservava dal letto, inclinando anche un po' il capo. Era un privilegio che aveva avuto solo in quei giorni, e in un certo senso avrebbe preferito non averlo. Si domandò che tragedie stessero passando i personaggi del suo romanzo, i suoi fratelli mai incontrati. Ma ormai il libro era al finale. Doveva pur esserci una risoluzione per tutti. A un certo punto Sonne si interruppe e rimase a fissare la città al di là della finestra, ma senza guardare davvero, rintanato nella propria testa. Sembrava aver realizzato qualcosa di una certa malinconia.

«Che c'è?» gli chiese. «Ti mancano le parole?»

«No... Non è niente.»

Non aggiunse altro. Gli rivolse un sorriso tirato, incerto, che avrebbe voluto essere rassicurante, e riprese a pigiare i tasti, stavolta con più accortezza, come se le sue dita fossero diventate di piombo e avesse paura di rompere la tastiera, ma senza più esitare. La cosa più assurda di quegli anni vissuti assieme era proprio che Sonne non avesse mai rinunciato a scrivere, dopo che gli avevano ridato l'ispirazione, neanche quando avevano iniziato a sparire.

Aspettarono.

Aspettarono Verena nel pomeriggio, dopo pranzo, con un torpore che si prendeva un po' delle loro energie, ma dovevano resistere, presto lei sarebbe venuta da loro. Magari sarebbe comparsa sotto l'arco tra la cucina e il salone e sarebbe venuta ad abbracciarli, e tutto sarebbe tornato come prima, come Sonne immaginava, e avrebbero affrontato il domani ricominciando da capo – e con il libro completo di Sonne da leggere, la causa della loro venuta al mondo.

Al tramonto, erano ancora in cucina ad aspettarla. Richard si rese conto che Sonne non si sedeva più da giorni al posto in cui si era seduto quella fatidica sera, a capotavola. Una luce arancio sfiorava i loro visi provati. Stavano parlando di qualcosa di totalmente irrilevante, con il senno di poi, quando sentirono il rumore.

Un rumore né vicino né lontano.

Un oggetto di medie dimensioni, non poi così fragile, che si sfracella in strada scomponendosi in tutte le sue parti.

Sonne e Richard si guardarono in faccia con gli occhi sbarrati. Si alzarono di scatto dalle sedie e si fiondarono in camera di Verena, a una velocità che mozzò il respiro a entrambi.

Vennero investiti da una corrente fredda, nonostante il sole che incendiava la città. Ai lati della finestra aperta, le tende fluttuavano, si attorcigliavano e si gonfiavano come se fossero animate da una volontà propria.

Lei era lì.

In piedi sul davanzale, un po' ricurva, con i capelli smossi dalla stessa brezza.

Con una mano si reggeva alla cornice della finestra, mentre finiva di issarsi come una ladra che si arrampica su un tetto per fuggire, dopo aver gettato la videocamera sotto di sé. Non si voltò verso di loro, anche se li aveva sentiti.

Anzi, proprio perché li aveva sentiti si affrettò, intenzionata a non finire di nuovo tra le loro grinfie. Doveva essere questione di un attimo, ma evidentemente aveva sbagliato i calcoli.

Incredibile come in quel momento sembrasse più viva che nelle ultime settimane, con una misera canotta e le gambe nude, in mezzo al pulviscolo dorato che brillava controluce, pronta a saltare nel vuoto. Sembrava quasi un gesto di liberazione.

Sonne fu più rapido di lei.

L'istante prima che si lasciasse cadere dal terzo piano, le afferrò la vita con entrambe le braccia e la tirò via da lì.

Verena urlò.

Prima un grido lungo, lacerante.

Subito dopo una sfilza spezzettata. «No! No! No! No!» strillò, fuori di sé, con la disperazione di chi sapeva benissimo di aver sprecato la sua unica occasione.

Sonne indietreggiò di qualche passo mentre il suo corpo scalciava in aria, le braccia tendevano al rettangolo di cielo in fiamme, alla finestra tra il di qua e il di là, poi la scaraventò sul letto. Verena fece per rialzarsi, ma lui la immobilizzò mettendosi a cavalcioni su di lei e bloccandole i polsi.

«Lasciami! Lasciami!»

Gridava, gridava forsennatamente e si ribellava sotto di lui, ma senza riuscire a spostarlo di un centimetro. Era troppo debole. Non aveva mangiato per giorni e questo era il risultato. La sua tenacia si era ritorta contro di lei.

«Chiudi la finestra!» gridò invece Sonne a Richard, come se ce l'avesse con lui – no, con entrambi.

Richard eseguì. Si mosse per inerzia, la testa riempita dai lamenti strazianti di Verena che ora echeggiavano in casa. Il vento si interruppe, le tende cessarono di dimenarsi, lui si voltò di nuovo a guardarli, lì impalato, incapace di fare altro. Anche il suo corpo era debolissimo. Imbalsamato d'ovatta, un pupazzo che agiva al suo posto.

Sonne avvicinò il volto a quello di Verena, fu così vicino che le labbra le sfiorarono una guancia, che lei tentava di allontanare contorcendosi. Ma più si divincolava, più spariva sotto la sua stazza. «Non azzardarti mai più a fare una cosa del genere. Credevi di fottermi, così? Pensavi di buttare all'aria tutti i miei sforzi per farvi restare accanto a me come se niente fosse? Sputa pure sul dono che ti ho fatto, da brava ingrata che sei. Tu non puoi morire. Non se non l'ho deciso io. Hai capito?» le ringhiò in faccia, paonazzo, con le mascelle che vibravano e dei ciuffi di capelli sudati a pendergli sulle tempie.

Non l'aveva mai visto in quello stato.

Richard era spaesato da ogni nuovo frammento che si andava ad aggiungere alla scena. Non poté fare a meno di chiedersi, con totale candore: ma non sarebbe meglio, per te, se morisse? Perché vuoi trattenerla qui se ti causa tutte queste sofferenze?

Verena cominciò a piangere a singhiozzi.

Sonne le diede un violento scossone. «Hai capito?» ripeté.

Richard non capiva. L'aveva ignorata per giorni, aveva finto anche che non si stesse già lasciando morire, una cosa che lui invece stava provando ad accettare con un certo rispetto e in completa solitudine, abbandonato a se stesso, e adesso tornava a preoccuparsi per lei soltanto perché aveva preso un'iniziativa che andava al di là dei suoi schemi. Persino il tentativo di ammazzarlo rientrava nei suoi paradigmi per lei, ma non quello.

No, non era preoccupazione, la sua.

E quella di Verena, cos'era? Forse era semplicemente giunta alla conclusione che eliminare Sonne non sarebbe servito a eliminare la parte di Sonne che viveva dentro di lei; per eliminare Sonne da sé, insieme a tutte le sue colpe, vecchie e nuove, doveva eliminare se stessa.

Dopo qualche minuto smise di lottare.

La sua guancia giaceva rigata di lacrime sul materasso, gli occhi stravolti e lontani da Sonne. Ma Sonne non la lasciò.

«Ricordi che ti ho fatto una promessa?» disse lui, d'un tratto ingentilendo il tono, come se si fosse reso conto di aver esagerato. Strofinò il naso contro l'altra sua guancia. «Non posso lasciarti andare così. Come pretendi che io non faccia niente davanti alla tua distruzione? In quanti modi vuoi provare a farmi male? Non m'importa di ciò che sei diventata. In fondo è come se lo avessi sempre saputo. Lo vedi, fino a che punto ti amo?»

Verena tirò su con il naso. Non rispose. Sonne le sussurrò qualcos'altro che Richard non captò.

Non seppe come fu possibile, ma lentamente quella scena mutò, si smussò, cambiò significato. La presa di Sonne divenne più un abbraccio, e il pianto di Verena uno sfogo catartico. Anche lei ricambiò aggrappandosi al suo maglione, come si abbraccia qualcuno di cui si sono perse le tracce, forse come avrebbe stretto suo padre se fosse ricomparso dopo tutto quel tempo, una bambina e la sua roccia, che sarebbero potute rimanere congelate in quella posa per l'eternità.

Richard faticò a credere ai propri occhi. Sembrava, effettivamente, che si stessero chiedendo scusa.

Quindi ci avevi visto giusto?

Sonne, dopo, lo invitò a sedersi sul letto accanto a loro. Non sentirono il bisogno di parlare. Calata la sera, Verena crollò tra i due come se quella giornata non fosse mai esistita, ritrasformandosi in un bozzolo d'essere umano. Richard non si azzardò a toccarla. C'era una stortura, nell'aria, che non lo faceva rilassare e gli gelava le ginocchia. Attendeva qualcosa di indefinito, e Sonne con lui.

Quando si fu accertato che Verena stesse dormendo, dopo aver aspettato per un po' steso su un fianco, con una mano a reggere la testa, si alzò. Serio e composto, si avvicinò alla cassettiera, nel buio rischiarato appena dalla luce che proveniva dal salotto.

Richard drizzò la schiena. Ecco. Stava accadendo? «Che fai?»

«Dammi una mano» disse laconico.

Richard si mise in piedi e si accostò a lui, un'espressione interrogativa a corrucciarlo. Aveva aperto un cassetto. Un cassetto in cui erano gettati alla rinfusa calzini, slip, una vecchia scatola di preservativi mezza vuota, il dildo di vetro con l'estremità a forma di cuore e... due spesse corde nere, che Sonne sfilò in tutta calma.

Quella visione lo fulminò.

Si sentì accecare da una terribile, lampante consapevolezza: Sonne l'aveva ingannata. Di nuovo, impersonando qualcos'altro.

A Richard nemmeno venne in mente di potersi tirare indietro.

(Piuttosto guarda tu fino a che punto ti amiamo, Sonne.)

La mattina successiva, Verena si svegliò legata al letto per i polsi.







Note d'autrice:

Buonsalve! Sono riuscita a finire questo capitolo prima della fine del mese, le cose stanno andando inaspettatamente secondo i piani ahahah

Sarò breve perché sono di corsa: altro capitolo tosto, in cui si dipanano le conseguenze dell'"epifania" di Verena, che a loro volta ci condurranno al finale della storia. Fatico a realizzare che mancano solo 5 capitoli (5 e mezzo in realtà, ma vedrete). 

Cosa succederà, secondo voi, ora che Sonne ha intrappolato Verena non solo simbolicamente ma anche fisicamente?

Quale sarà il ruolo di Richard? Continuerà a essere il complice di Sonne?

Siete più dell'idea che Sonne abbia una parte di responsabilità nell'aver reso Verena una cannibale oppure che, come dice lui, l'immaginazione e la scrittura non possono e non devono essere controllate?

Soprattutto, anche se è passato in sordina, cos'è che secondo voi impensierisce Sonne mentre sta scrivendo l'ultimo capitolo del suo romanzo?

Come al solito, se avete riflessioni di qualsiasi tipo non esitate a scrivermele nei commenti o in privato, sono curiosissima di sentirvi su questi spunti (e non solo) ♥

Il titolo del capitolo, Fasten, significa digiuno.

A presto!


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