XLIV. Das letzte Wort

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N E B E L

XLIV.

Das letzte Wort



Aveva dovuto infilarle un panno appallottolato in bocca.

La mattina in cui si era svegliata con le corde ai polsi, Verena aveva cominciato a sbattere le gambe sul materasso e a urlare come una belva uscita di senno. Qualcuno, in strada, avrebbe potuto sentirla. Era stato necessario.

Non che Sonne si aspettasse una reazione diversa.

La sopportò senza particolare turbamento. Non aveva paura di guardarla in quegli occhi iniettati di sangue. Non riusciva a farlo sentire in colpa. Vedeva la situazione in maniera perfettamente lucida, e sapeva benissimo di aver adottato delle misure estreme, se non criminali, per far fronte al problema. Ma non c'era alternativa.

Si prendeva comunque cura di lei. Questo avrebbe potuto apprezzarlo. Stava facendo tutto ciò perché non morisse. Per il suo bene. Nonostante avesse provato ad ammazzarlo. Nonostante fosse una cannibale squilibrata. Era ancora crudele, da parte di Sonne, un trattamento del genere?

Almeno Richard sembrava capire.

Era lui a sorvegliarla, quando Sonne si allontanava per prendere del cibo, dell'acqua o la padella per i bisogni, che le aveva fatto usare anche nel periodo di convalescenza dopo l'intervento all'utero, e che era costretto a usare anche Richard pur di non allontanarsi. Cercava di lasciarli soli il meno possibile. Se Verena avesse tenuto gli occhi chiusi troppo a lungo, avrebbe rischiato di far sparire Richard. Per questo tornava da loro in fretta, con un'ansia a scorticarlo sottopelle.

Ma erano sempre lì.

Per giorni rimasero lì, l'uno di fronte all'altra. Richard sulla sedia e Verena con le braccia spalancate contro la testiera del letto. Se lei non avesse gettato la videocamera dalla finestra sarebbe stato tutto più semplice. Erano dovuti tornare alla simbiosi assoluta. Ciò che faceva realmente paura era domandarsi per quanto sarebbero potuti andare avanti così.

Sonne evitava di pensarci. Si chiedeva, piuttosto, perché Verena si fosse liberata della videocamera. Riflettendoci, si era reso conto che non era affatto un'operazione indispensabile per il suo suicidio. Anzi, era stato proprio il rumore ad allertarli. Doveva averla buttata solo per fargli un dispetto, per sottrargli il suo terzo occhio.

Le urla e i ringhi e i calci erano durati meno a lungo di quanto aveva preventivato. Dopo qualche ora, quella mattina, aveva perso ogni energia residua. Si era accasciata in una posizione quasi innaturale al centro del letto e così era rimasta, sopraffatta e con il viso pietrificato, per tutte le ore a venire. Prima o poi il materasso l'avrebbe assorbita e inglobata come sabbie mobili. Sarebbe stata la sua tomba, se avesse continuato a digiunare.

Di tanto in tanto sembrava guardare Sonne come se volesse dirgli: D'accordo. Vuoi che muoia così? Morirò comunque, stanne certo. Respirava in respiri profondi dal naso, con la bocca otturata e il petto che si sollevava lento. Ognuno di essi poteva essere l'ultimo, per quanto ne sapeva.

Già dal secondo giorno le portò da mangiare. Una zuppa di verdure in scatola riscaldata al microonde. Le sfilò il panno dalla bocca come un mago che tira fuori un foulard da un cilindro, mentre lei gli rivolgeva uno sguardo adirato, e le avvicinò il cucchiaio ricolmo alle labbra, appoggiando un ginocchio al materasso, attento a non versarglielo addosso.

Verena girò il volto dalla parte opposta.

Non pareva neanche lontanamente tentata dalla fame.

«Verena» disse lui, il cucchiaio sospeso tra loro. «Mangia.»

Richard si agitò sulla sedia. «Dài, Reni. Vedrai che un po' di cibo ti farà stare meglio. Appena tornerai in te metteremo fine a quest'assurdità e ti sembrerà che sia stato solo un brutto sogno...»

Sonne socchiuse gli occhi, contrariato.

Metteremo fine a quest'assurdità? Ci credi davvero, Richard?

Avrebbe tanto voluto comunicarglielo con il pensiero. Talvolta aveva ancora l'istinto della telepatia e si rammaricava di non poterne fare uso, da questa parte. Infilarsi in loro a tal punto, anche quand'erano faccia a faccia con lui, sarebbe stato comodo. Si voltò per scoccargli un'occhiata d'ammonimento, poi tornò a guardare lei.

«Va bene» le concesse Sonne. «Decidi tu quando mangiarla. Fammi un cenno quando sei pronta. Te la lascio qui sul comodino, vedi?, vicino all'acqua. Però devi mangiare, in un modo o in un altro.»

Ma che altro modo c'è?

In quel momento seppe che, a breve, avrebbe dovuto obbligarla a nutrirsi. Si stava già comportando come un rapitore con la sua preziosa prigioniera: una crudeltà in più di certo non avrebbe reso la situazione più grave.

Le infilò di nuovo in bocca, quasi senza sforzo, il panno tutto umido di saliva.

Non era condiscendenza, la sua. C'era ancora fin troppa ostinazione in lei. Semplicemente, con lo scorrere del tempo stava diventando troppo debole per fare qualsiasi cosa. Dalla sua pelle iniziava a emergere la sagoma delle ossa. Tutte le risorse che il suo corpo riusciva ad attingere dal grasso e dai muscoli andavano al cuore, ai reni, al cervello, cercando disperatamente di far funzionare l'organismo. Una volta esaurite sarebbe morta. Era un'equazione scontata.

I giorni successivi non furono migliori. Verena non mangiava né beveva. Sonne la guardava dall'alto e pensava: perché vuoi farmi ricorrere alle maniere forti? Sei tu che mi costringi. Tu che mi rendi cattivo.

Tutto il cibo che non ingeriva restava a raffreddarsi sul comodino. Il bicchiere d'acqua pieno. Un pacco di fazzoletti con cui avrebbe voluto asciugarle delle lacrime, e pulirla se si fosse sporcata.

Somigliava tanto al comodino di sua madre nelle ultime settimane di vita.

Ecco che dirompeva all'improvviso, approfittandosi di un suo momento di debolezza: il collegamento che finora aveva finto di non vedere girando la testa dall'altra parte.

Tutto gli ricordava Petra.

La donna che si lascia morire su un letto. La donna che lo odia. La donna che sa di cosa lui è capace.

«Quanto siamo diventati inetti alla vita, io e te.»

Avrebbe dovuto impedire che accadesse di nuovo. Invece entrambe si erano ritrovate in quella situazione a causa sua. Era stato lui, in un certo senso, a permettere a sua madre di ripresentarsi nelle sembianze di Verena e a condurre qui la morte come se fosse un'ospite gradita.

Era stato lui a ridurle così.

Non era naturale che lo odiassero con ogni fibra del corpo e che fosse stato questo veleno a farle deperire?

Anche Sonne le odiava. Era una liberazione, ammetterlo. Un sollievo, scoprire che non c'era nessuno a giudicarlo per questo. Anzi, se ne sentiva persino giustificato: era Petra ad avergli insegnato che l'amore poteva essere anche odio – che era possibile passare da una cosa all'altra senza neanche accorgersene.

Per quanto tempo non aveva capito. C'erano incognite che non capiva tuttora. Petra era sempre stata incomprensibile sia per Stefan che per Sonne. Non capiva perché avesse rifiutato di lasciare la DDR insieme ai propri cari. Perché avesse sposato un ritardato. Le cose che faceva in segreto senza dirgli nulla. La sua improvvisa fede cieca in Dio. Perché avesse preferito la morte al figlio.

Una volta nonna Luciane era stata sul punto di rivelargli com'è che era morta davvero, l'aveva chiamato a tavola di pomeriggio proprio per parlare, erano rimasti solo loro due in quella casa dopotutto, ma Sonne ricordava soltanto di aver cambiato stanza con la coda tra le gambe fingendo di avere da fare, e che il discorso non si era mai più ripresentato.

Aveva rifiutato l'unica possibilità di capire tappandosi le orecchie.

Ma con Verena era ancora peggio.

Anche se era una sua creazione, si era spinta troppo in là, e c'era un'oscurità troppo vasta in lei perché potesse sondarla. D'altronde non era neanche capace di guardare in se stesso. Richard e Verena gliene avevano dato occasione per il solo fatto di esistere, ma poi si era tutto complicato a dismisura e non era più stato in grado di fare chiarezza, né di scindere sé da loro.

Forse aveva soltanto fantasticato più del lecito di essere desiderato come sua madre aveva desiderato Dio, che alla fine un dio lo era diventato davvero. E una sostituta di sua madre lo aveva venerato, per un certo tempo.

Non sarebbe mai voluto giungere a questo. Se avesse potuto sbarazzarsi di quella veste divina e abbandonarla sul pavimento da qualche parte – o bruciarla in un camino – l'avrebbe fatto seduta stante, sicuro che si sarebbe sentito infinitamente più leggero, come staccandosi chili e chili di carne da dosso.

Se il legame tra loro non fosse stato quello, Sonne era certo che a quest'ora sarebbero stati ancora felici, insieme.

Per come stavano le cose, però, non poteva rinunciare a interpretare il proprio ruolo.

La terza sera, quando Verena si addormentò, chiese a Richard sottovoce: «Quanto può sopravvivere una persona senza mangiare?»

Richard finì di lavarsi la faccia nella bacinella che gli aveva portato, appoggiata sulla cassettiera, e ne riemerse con il mento gocciolante. Quel rumore d'acqua era l'unica cosa ad aver smosso il silenzio, ad aver creato un paradossale senso di delicatezza nella brutalità. Si tamponò il viso con un asciugamano pulito, poi se lo mise sulle spalle. «Non più di un mese, credo. Senza bere, poi, al massimo due settimane.»

«Allora dobbiamo affrettarci a convincerla. Non abbiamo molto tempo.»

Richard annuì mesto e andò a mettersi sulla poltrona che avevano trascinato dal salotto. Vi si stese in orizzontale con le gambe oltre il bracciolo, per dormire quelle due o tre ore che gli spettavano. Sonne, invece, si posizionò sulla sedia di fronte al letto e si preparò a un'altra lunga nottata. Non poteva distogliere gli occhi da loro nemmeno per un secondo. L'ansia di perderli bastava a non fargli venire colpi di sonno. Da un lato, però, lo seccava dover dormire così poco: era fondamentale che almeno lui rimanesse vigile e funzionale durante il giorno, e di questo passo non lo sarebbe stato ancora per molto. La settimana di insonnia, un incubo che non voleva ripetere, glielo rammentava. Si meravigliava che non gli fosse già venuta una delle sue emicranie bestiali.

Involontariamente fece oscillare un tallone su e giù a ripetizione, e l'altro se ne accorse.

«Vorrei dirti che ci riusciremo, che non la perderemo, ma non ne sono così sicuro» gli disse Richard, le mani intrecciate sull'addome, con un tono molto vicino alla rassegnazione.

Sonne non rispose.

«Hai provato a metterti nei suoi panni? Lo sai fare, quando scrivi. Ecco, è impossibile salvare qualcuno che non vuole essere salvato. Che vorrebbe solo un po' di pace invece di continuare a soffrire. Tenerlo in vita a forza equivale un po' a una violenza. È una sorta di accanimento terapeutico... Come dire, non sempre la vita è un bene. Me lo dicesti anche tu tempo fa, e ora ci vedo un'accezione nuova: salvare la vita a qualcuno può essere un atto terribile.»

«Non sono nervoso solo per lei, al momento» rivelò Sonne per tagliare corto, troppo stanco di tenersi dentro quell'ulteriore segreto con cui stava convivendo da un po', e allarmato dalla posizione di Richard, che gli stava suggerendo di lasciarla andare. Ormai li aveva feriti in tutti i modi possibili. Tanto valeva dirglielo. «Stavo pensando che potreste sparire entrambi, a breve.»

«Beh, non accadrà se stiamo attenti... E se dovesse capitare...»

«Intendo per sempre, Richard.»

Richard si bloccò. Il silenzio pesò di nuovo come una cappa su di loro.

«Per sempre?»

«Sì.»

«Ma cosa vuol dire? Non ne abbiamo mai avuto paura prima, perché adesso–?» Ma si interruppe da solo. «Oh.»

Sonne avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non poteva, non poteva.

«Hai finito il libro, non è così?»

«Sì.»

Richard si mise a sedere dritto e lo guardò spaesato, con gli occhi grandi e lucidi. Connetté da solo i punti che doveva connettere. Aveva preferito la scrittura alla loro sicurezza. A loro, in generale. Prima di quel momento, Richard non aveva mai realizzato che la fine del romanzo potesse significare questo. E pensare che nemmeno due settimane prima avevano brindato a quel traguardo. In verità, neanche Sonne era riuscito a gioirne perché troppo occupato con Verena – l'aveva del tutto accantonato, l'aveva chiuso di nuovo nel cassetto come se non esistesse, e dava la colpa a lei e al suo tempismo per avergli tolto la possibilità di godersi quella soddisfazione a cui agognava da mesi.

La voce di Richard, adesso, risalì dalla gola di gran lunga più rotta, triste, delusa. «Perché l'hai... perché l'hai finito, se avevi... se avevi questo sospetto? Non poteva restare inconcluso?»

«Mi dispiace, Richard. Dovevo mettere la parola fine al lavoro di una vita, e accettarne le conseguenze.»

«Ma cosa stai dicendo? Ho capito che è il tuo lavoro, ma era davvero più importante di noi? Di me

Sonne si alzò e gli si parò di fronte, per afferrargli con entrambe le mani il volto ancora fresco e molle. La scrittura non è solo un mestiere. Ormai dovresti averlo capito. «Aspetta, questo non significa che sto rinunciando a voi. Dobbiamo solo stare attenti, attentissimi. L'abbiamo fatto finora. Non vedo perché non possiamo proseguire così. Non vedo perché non possa cercare un compromesso e far coesistere entrambe le cose, voi e il romanzo. Non l'ho vissuta come una scelta, perché non è qualcosa che si può scegliere. Dobbiamo solo impegnarci al massimo delle nostre forze. Anche per questo Verena non deve morire... Senza di lei rimarremmo in due, e sarebbe insostenibile per me cercare di non farti sparire.»

Hai capito, Richard?

Devi stare ancora dalla mia parte, se vuoi continuare a vivere anche tu.

Non farti venire strane idee.

Sarebbe stato molto più semplice dirglielo con quelle esatte parole, ma Sonne sapeva che ci era arrivato da solo.

Richard si sottrasse bruscamente alla sua presa. Comparve, nel suo cipiglio d'angelo, una rabbia che aveva soppresso troppo a lungo. Era giusto che fosse arrabbiato con lui. Chiunque lo sarebbe stato, al loro posto. Sonne non li biasimava. Ma doveva tenerli ancora sotto controllo. Era diventata una questione di principio.

Tuttavia Richard fu più ragionevole di quanto avrebbe sperato e non diede modo alla rabbia di divampare. Abbassò la testa. «Va bene» biascicò con un filo di voce, «farò attenzione.»

«Fa' attenzione a lei» ci tenne a ribadire. Poi si chinò per posargli un bacio sulla fronte. «Adesso dormi. Ci penso io a voi.»

Sonne tornò alla sua postazione, Richard provò a dormire schiacciandosi un cuscino dietro la testa. Si domandò cosa sentisse, adesso che aveva scoperto di essere con un piede nella fossa. Forse un sentimento simile a quando si riceve la notizia di una malattia terminale da un medico. Quanto a Verena, era impossibile capire se fosse sveglia o addormentata, se fosse viva o morta. Giaceva in mezzo al letto come una vittima sacrificale in attesa della sua ora.

Non c'era altro che stesse facendo: stava aspettando.

Sonne li guardò intensamente, com'era costretto a guardarli sempre. Chissà quando avrebbe potuto farsi di nuovo una bella dormita. Non avrebbe mai immaginato che il suo sonno potesse causare la morte di qualcun altro.

La morte? Se spariscono per sempre muoiono? O dov'è che vanno?

Si sentì avvolgere il cuore da un guanto d'angoscia e malinconia.

Poco importava come lo interpretasse. Richard e Verena erano destinati a una conclusione nonostante tutto. Contenevano in sé la promessa della propria fine, come qualsiasi libro.

Come qualsiasi vita.




Il giorno successivo, al mattino, provò con il pane.

«Vedi? Un tozzo di pane. Nulla di più» le disse, avvicinandoglielo alla bocca.

Per la prima volta, Verena ebbe di nuovo l'ardire di rispondergli.

«Vedi? Vedi?» gli fece il verso. «Non sono cieca.»

Sonne sbatté le palpebre. Non se lo aspettava. Poteva essere un buon segno, in un certo senso. «Non ti sto chiedendo tanto.»

«Ah no, certo.»

Che voce strana che aveva. Quella di una malata. Quella di una radiolina gracchiante.

Doveva supplicarla?

«Lo sai che non posso lasciarti morire.»

Verena si aggrappò alle corde con le dita per ritrarsi ancora di più, e ritrasse anche le gambe tra le lenzuola. «Non lo voglio. Finiscila di insistere e di ripetere sempre le stesse cose.»

Non aveva idea di cosa le avesse fatto tornare la voglia di parlare. Nell'aria c'era ancora la stessa pressione che li comprimeva da settimane, la stessa gravità che li schiacciava da ogni direzione come se vivessero all'interno di un buco nero. In lei, qualcosa di diverso, ma non in positivo.

Aveva un cattivo odore dalla testa ai piedi, che si era mescolato a quello rancido del cibo e non spariva neanche se aprivano la finestra. Aveva la faccia esangue e due occhiaie verdognole. L'intero suo aspetto avrebbe dovuto avere un potere respingente su di lui, ma per qualche motivo neanche quello, il sudiciume, riusciva a farlo desistere.

«Almeno l'acqua» ritentò.

«No.»

In fondo non era cambiato un bel niente.

Sonne raddrizzò la schiena e abbandonò con un gesto di stizza il pezzo di pane sul comodino, insieme al resto del cibo ormai gelato. Si voltò per tornare in cucina e nel farlo incrociò lo sguardo perso nel vuoto di Richard. Incredibile come ogni azione di Verena avesse tolto vitalità anche a lui. Gli aveva regalato due cadaveri al posto di uno. E Sonne aveva contribuito a scoraggiarlo ancora di più, con la notizia della sparizione imminente. Sudava freddo come se avesse un fucile puntato in faccia che nessuno sapeva quando avrebbe sparato.

Fu sul punto di attraversare la porta, ma poi si voltò di nuovo, proprio sullo stipite, vibrante di una frustrazione che lo faceva fumare.

Un solo istante calcolato di silenzio.

«A differenza di Richard, mi hai reso la persona più infelice della terra» le disse, guardandola negli occhi. «Voglio che tu lo sappia. Hai fallito nel tuo unico scopo.»

Se possibile, Verena si rabbuiò ancora di più. «Io non sono venuta al mondo per rendere felice te.»

«Invece sì. Non essere stupida. Siete venuti alla luce solo ed esclusivamente in mia funzione, lo sai benissimo.»

Fece per andarsene, ma lei richiamò la sua attenzione. Non voleva dargli l'ultima parola. A lui, allo scrittore.

«Sai cosa? Forse hai ragione. Siamo venuti da te solo perché siamo tuoi personaggi. Questo è innegabile. Perché se non fossimo tuoi personaggi a quest'ora non saremmo di certo qui. Non ti avremmo mai amato né avremmo provato fascino per te. Beata questa versione di noi, che si sarebbe accorta subito di quanto sei disgustoso, e avrebbe voltato i tacchi con un po' di imbarazzo se pure il caso ci avesse fatti incontrare» parlò, trovando la forza di alzare il mento dopo giorni e giorni di mutismo. Sonne strinse i pugni d'istinto, dettaglio di cui lei, visibilmente, si compiacque. «Sbaglio o Richard Wagner non ti ha mai considerato di striscio? Eri tu a essere ossessionato da lui. Lui probabilmente ti evitava o era del tutto indifferente alla tua esistenza.»

«Reni, questo è troppo...» tentò di intervenire Richard, ma Verena lo ignorò come se facesse parte del mobilio e non ci fosse nessun altro nella stanza.

«Onestamente, chi si addosserebbe la responsabilità di farti da crocerossina, di farti cambiare? Credi che alla gente normale gliene fotterebbe qualcosa, credi che qualcuno all'infuori di noi avrebbe mai preso il tuo caso tanto a cuore? E in nome di cosa? Ma che ce ne doveva fottere a noi di cambiarti, di renderti una persona migliore, di liberarti dai tuoi blocchi e di ridarti un po' di gioia di vivere! Tutta la nostra gioia di vivere! Ci credo che tua madre si è suicidata, ci aveva visto lungo. Nessuno sopporterebbe di vivere con una persona come te.»

Il suo corpo si mosse da solo.

La testa, per una volta, andò in blackout.

Si ritrovò ad afferrare rabbiosamente il tozzo di pane e a mettersi in ginocchio sul letto per ficcarglielo in bocca.

Verena serrò le labbra e soffocò un grido in gola.

«Adesso lo mangi» le sibilò digrignando i denti, mentre con una mano reggeva il pane e con l'altra tentava di aprirle la mandibola, ma lei divincolava la testa a destra e a manca per sfuggirgli, e lui cercava invano di arrestare quel balletto. Entrando di nuovo in contatto con la sua carne, si accorse di quanto fosse diventata, al tatto, dura come pietra. «Stai ferma, cazzo!»

Seguì una serie di tonfi sul materasso. Il pane gli cadde di mano e rotolò al suo fianco, per poi finire abbandonato a terra.

Verena colse quell'occasione d'oro per restituirgli l'oltraggio con cui lui aveva sancito il suo dominio su di lei tempo addietro.

Gli sputò in faccia.

Il rivolo di saliva gli colò al lato del naso, poco sotto all'occhio, in quei due secondi di immobilità che seguirono, dopodiché Sonne se lo pulì strisciando un palmo sulla guancia.

Non ci vide più. Le afferrò le mascelle, infuriato, così forte da sentire i suoi denti al di sotto. Premeva per farle male, per piegare la pietra, per ristabilire il suo potere con la capacità di infliggere dolore – se era l'unico modo che restava.

«È inutile che smetti di mangiare e che tenti di ripulirti. Non ti ricordi di quello che hai fatto? Proprio tu, che hai aperto in due tuo padre, vuoi redimerti? Nemmeno ti rendi conto di quanto ogni tuo sforzo sia pateti–»

Quella sequela di parole gridate fu interrotta da un grido più feroce.

Un dolore lancinante – un'esplosione di chicchi di riso luminosi – gli offuscò il campo visivo.

Verena era riuscita a divincolarsi e gli aveva azzannato il pollice della mano che la stava stringendo. Il pollice della mano destra.

Lo serrò tra le due arcate di denti con una forza inaudita, con le sole forze che le rimanevano, che mai avrebbe pensato potesse tenere ancora sopite da qualche parte in quel corpo atrofizzato. Voleva staccarglielo.

Sonne tentò di tirare via il dito, ma la sua presa era troppo ferrea. Aveva conficcato i canini proprio nelle giunture. Gridò, cercò di riprendersi la propria mano, il proprio pollice, prima che lei lo mozzasse.

«Reni! Reni!» sentì Richard gridare sopra di lui, mentre si avvicinava a loro senza sapere cosa fare.

Con l'altra mano premette sopra la sua faccia perché affondasse nel cuscino e si separasse da lui, e nonostante ciò Verena non mollò la presa.

Allora le diede un pugno sullo zigomo. Fu liberatorio, facile. Le sue nocche subirono il contraccolpo nell'impatto con la pietra, come se stesse colpendo una statua di marmo. Poi gliene diede un altro. E così lei lo lasciò.

Sonne caracollò all'indietro fino a mettersi in piedi. Arretrò, reggendosi il pollice rigido e insanguinato come se avesse tra le mani un esserino ferito. Pregò un'entità indistinta che non gliel'avesse danneggiato per sempre.

Anche sui denti di lei c'era una traccia di sangue. Aveva la testa crollata da un lato e seminascosta dai capelli scompigliati dalla colluttazione, ma la vedeva, aveva voluto guardare proprio lì, nella sua bocca, dov'era stato intrappolato.

Ci mise qualche momento per accorgersi che Richard era scoppiato a piangere.

Verena stava guardando lui da sotto i capelli.

«... perché cazzo piangi, Richard?» gli chiese, piena di disprezzo, seppur nell'affanno, dopo che non gli aveva rivolto la parola per giorni – non solo per affermare la propria volontà, come nei confronti di Sonne, ma per farlo sentire insignificante.

Lui non rispose, né riuscì ad arrestare i singhiozzi. Si coprì la faccia per non farsi vedere da loro, anche se essere visto era tutto ciò che doveva fare per non dissolversi nel nulla.

Verena tornò a guardare Sonne. «Che c'è? Prima vuoi costringermi a mangiare e poi mi neghi il mio piatto preferito?»

Sonne non capiva se fosse sarcastica o se stesse dicendo sul serio.

«Sei tu ad aver voluto tutto questo. Vuoi che mangi carne umana? Vuoi che viva? Bene. Fatti mangiare, allora.»

Si strinse più forte il pollice nell'altra mano. «Tu vorresti... mangiarmi?» scandì lentamente, dando voce a quel terrore che da tempo gli sguazzava nelle budella, senza neanche badare a quanto assurda suonasse quella frase, o al fatto che fosse lui l'aguzzino e lei quella legata.

Verena fece un sorriso storto chiudendo gli occhi. «Lo sapevo che mi avresti presa alla lettera. Non capisci mai niente. Di me non hai capito mai niente. Io non avrei fatto una cosa del genere, a mio padre e ai miei fratelli. Per come sono venuta al mondo, non sono un'assassina. Né per come sono adesso. Non avrei mai agito così, se non me l'avessi inculcato tu. L'hai forzato dentro di me solo perché ti spaventava la mia fame di vita e l'hai interpretata così, come violenza. Come se dovesse esserci per forza qualcosa di terribile alle mie spalle, giusto? Non era possibile che fossi una donna normale e basta, no. Dovevo essere cattiva. Una fame così grande è cattiva per forza. Allora ecco, fammi essere cattiva fino in fondo. Stavolta, però, lo decido io.»

Sonne trovò ancora più alienante sentire un discorso così lungo da parte sua dopo quel periodo di mutismo. Per un secondo pensò che avrebbe preferito se fosse rimasta zitta e ignorante, come un vero animale. «Stai farneticando. Non importa cosa avresti o non avresti fatto. È la tua natura. Io ti ho costruita così perché fosse la tua natu–»

«Non osare contraddirmi quando parlo di me» disse, raddrizzandosi e alzando la voce. Sullo zigomo cominciava già a fiorire una macchia. Il suo sguardo si appannò di nuove ombre, come un oracolo che si prepara ad annunciare il responso di un dio – non lui, qualcuno di più grande, più remoto. O forse no. Una maledizione. «Con ogni gesto, con ogni parola, non fai che dimostrarmi che sono il tuo tormento più grande. Lo sarò sempre, ovunque andrò. In qualsiasi forma. Morirò con questa consolazione. Dillo anche alla Madre, quando verrà a prenderti.»

La Madre?

Sonne venne scosso da un brivido. Non capì a cosa si stava riferendo, né perché l'avesse detto. Sapeva solo che era una sorta di anatema, e che prima o poi, in qualche modo, si sarebbe avverato.

Cercò una via di fuga.

Stralunato, con una serie di lamenti che gli sfuggivano dalle labbra, voltò i tacchi e sbandò fino al salotto, al divano, dove crollò seduto.

Si rese conto solo ore più tardi che alla fine era stata davvero lei ad avere l'ultima parola su quella storia. Gli aveva lasciato il suo testamento. Qualcosa in cui lui non avrebbe mai potuto mettere bocca.






Note d'autrice:

Salve! Con questo capitolo il countdown scende a -4 cwc Qualcuno mi prepari psicologicamente per scrivere i prossimi due. 

Per fare un po' il punto della situazione: Sonne, quindi, teneva nascosto a Richard e Verena il fatto che avesse finito il romanzo. Questo potrebbe comportare la loro sparizione definitiva, ma nonostante ciò Sonne non ha rinunciato a concluderlo. Richard ne è molto deluso e triste, anche perché se vuole continuare a vivere deve per forza continuare a fare il secondino di Sonne e a tenere intrappolata Verena. 

La scena della seconda parte credo sia abbastanza forte, ma era necessario che si arrivasse a questo punto. Mi piacerebbe fare tutto un discorso sulla violenza di Sonne, ma magari lo rimando a storia conclusa. Avevo bisogno, in ogni caso, che questo capitolo fosse dalla sua prospettiva. Soprattutto per quanto riguarda il parallelismo con la madre.

A proposito, una chicca che mi piaceva tanto era l'accostamento tra il corpo di Verena che sembra farsi di pietra (per la strenua resistenza a cui si sta sottoponendo) e il nome della madre di Sonne, Petra. Inoltre, Sonne la descrive come se stesse diventando una statua, un po' come il mito di Pigmalione e Galatea al contrario (lo ricordate? ♥).

Insomma, Verena rivendica la propria voce e rifiuta con tutta se stessa il destino che Sonne ha pensato per lei. Credo sia il suo picco massimo di agency. Cosa pensate che intenda, quando gli parla di questa fantomatica Madre

Per le ultime risposte, ci vediamo presto con i capitoli finali ♥ Sono terrorizzata, ancora una volta ahahah

A presto!


Ps: il titolo del capitolo, Das letzte Wort, significa L'ultima parola.

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