XLVIII. Mutter

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N E B E L

XLVIII.

Mutter



Lo stavano aspettando.

Erano tutti lì per lui. Aveva lanciato un'occhiata rapida al piano interrato della libreria, dalla cima della grande scala a chiocciola, e li aveva visti, seduti tra le file di sedie pieghevoli, alcuni persino in piedi, tra cui un fotografo, tutti rivolti verso la scrivania dove a breve si sarebbe accomodato.

Si era chiuso in bagno. Aveva dovuto accedervi con una moneta da un marco. Adesso si reggeva al lavandino, le braccia rigide come se si fossero cementificate, le ginocchia vacillanti.

Lo prendo, si stava ripetendo. Non ho scelta.

Si era anche già arrotolato la manica della camicia fin sopra il gomito. Nella piega, i buchi delle iniezioni non erano più così evidenti. La sua cicatrice frastagliata era tornata liscia e rosea.

Guardò la borsa a tracolla che aveva con sé, afflosciata a terra.

Adesso lo prendo.

Ne aveva portato una dose di emergenza apposta, insieme al resto del kit: siringa, laccio emostatico, cerotto. Sapeva che ne avrebbe avuto bisogno. Era sopravvissuto per settimane senza metadone, diminuendo di volta in volta la dose finché non se n'era privato del tutto e resistendo ai sintomi dell'astinenza finché non erano spariti, ma ora non sopportava l'idea di vivere uno dei momenti più importanti della sua vita in preda alla paura. Ci aveva provato. Aveva messo piede in libreria con le migliori intenzioni, anche se avvertiva malesseri corporei da due giorni, da quando era arrivato a Dresda, ma poi aveva visto quanta gente fosse venuta alla presentazione. Non ce l'avrebbe fatta senza un po' di anestesia. Questo avrebbe vanificato tutti gli sforzi compiuti sino a quel momento, ma d'altro canto una sola dose non gli avrebbe certo fatto tornare la dipendenza.

Lo prendo.

Se lo ripeteva già da qualche minuto, eppure non si era ancora mosso. Forse stava solo cercando di rassicurarsi. Di sfidarsi. Fissava il borsone, a cui sarebbe bastato aprire la zip per rivelare la fonte di ogni suo sollievo, sotto la camicia di ricambio e il taccuino con gli appunti che aveva portato.

C'era in lui una sensazione che non gli era appartenuta nemmeno nei momenti più drammatici della sua vita, il terrore profondo di qualcosa che non riusciva a identificare con precisione, e che per questo appariva anche stupido, in una certa misura. Se avesse ceduto al metadone, avrebbe affossato con le proprie mani le emozioni più genuine mai venute a galla negli ultimi mesi.

Una parte di lui lo stava supplicando di custodirle. Aveva tutto il diritto di assaporare la felicità che avrebbe provato se la presentazione fosse andata bene. Nella sua vita non potevano capitare soltanto eventi nefasti, dopotutto.

Inspirò forte dal naso, si abbassò la manica della camicia, raccolse la borsa a tracolla e uscì dal bagno.

Era stupito della sua stessa determinazione.

Già al piano di sopra qualcuno parve riconoscerlo. Avevano piazzato una sua fotografia sul volantino della presentazione. Leben di Sonne Rothberger, prima tappa, Dresda, 9 febbraio ore 18. Scese le scale senza guardare nessuno, in fretta. Camminò in mezzo ai due blocchi di sedie con lo sguardo puntato a terra e le labbra strette, forse un'espressione inclemente. I suoi passi risuonarono tutt'intorno.

Fu accolto da un verso unanime che si sollevò dalla massa di presenti, riscossi nella loro attesa, eccolo, è arrivato, e da un breve applauso. Il fotografo gli dedicò il primo scatto mentre stava ancora attraversando la sala – avvertì il click e il flash sulla nuca, come se gli avessero scagliato un bicchiere di acqua ghiacciata alle spalle.

Si sedette al proprio posto, di fronte a tutte quelle persone, ma neanche allora alzò gli occhi, né osò fiatare. Sistemò la borsa a terra, ne estrasse una bottiglina d'acqua, sistemò l'asta del microfono da tavolo perché fosse alla sua altezza, sistemò la copia di Leben sul supporto in plexiglass. Ce n'erano altre impilate lì accanto. Con sua somma sorpresa, altre erano già nelle mani di alcuni spettatori. Si era concesso una sbirciata. Una donna sulla sessantina in seconda fila teneva il segno con il dito a due terzi del libro: come se lo stesse studiando prima del suo arrivo. Questo gli confermò che c'erano persone in carne e ossa che stavano effettivamente saggiando il frutto del suo lavoro, che stavano posando i loro occhi innocenti sull'oggetto per la cui esistenza aveva sacrificato ciò che gli era più caro al mondo. Neanche immaginavano cosa significasse davvero tenere quel libro tra le mani, o quanto fosse maledetto.

Sonne non aveva mai incontrato i suoi lettori prima d'ora. Li aveva sempre considerati un'entità astratta di cui poteva non preoccuparsi – in fondo, non aveva mai scritto per loro. Sentiva di ingannarli, in un certo senso, anche adesso. Pensavano di avere davanti a sé un artista. Una parte di lui non avrebbe mai voluto trovarsi faccia a faccia con il suo giudice. Temeva persino di ascoltare le loro interpretazioni. La cosa peggiore sarebbe stata scoprire che avevano frainteso tutto quello che c'era scritto, che avevano letto oltre, troppo oltre, dando significati che non gli appartenevano. Ma su questo, sugli effetti imprevedibili della lettura, non aveva alcun potere.

Erano davvero venuti fin lì per lui. Più ci rifletteva, più gli sembrava un fatto sbalorditivo. Avevano finito il turno di lavoro, portato a spasso il cane, fatto uno spuntino o sbrigato qualche telefonata, si erano dati una sciacquata, si erano messi in macchina o avevano preso il tram ed erano venuti da lui. Per ascoltarlo. Non erano bastate le parole scritte, no, volevano la sua voce, l'intera persona dietro le pagine, per carpire chissà cosa, forse per stabilire se ne valesse la pena fino in fondo. Per questo non gli era mai piaciuta l'idea di incontrare gli autori dei suoi romanzi preferiti, lo metteva a disagio la possibilità di restarne totalmente deluso e di vedere l'opera, elevata, essere rovinata per sempre dalla banalità umana, a cui nemmeno il migliore degli esteti sarebbe mai sfuggito. Separare l'arte dall'artista non era un'opzione, per lui. L'arte non abitava un limbo incontaminato e sacro separato dall'umano, dal quotidiano, dal triviale, anche se gli sarebbe piaciuto che fosse così. Leben era lui, era un pezzo fresco della sua carne che aveva faticato a staccare.

Eppure vederlo in libreria gli ricordava quanto ormai gli fosse estraneo. Lo diventava sempre più giorno dopo giorno, si allontanava dalla sua origine per poter esistere nel mondo. Lì, sul reggilibro, a stento lo riconosceva. Gli pareva quasi assurdo che avesse quell'aspetto e quella forma, fuori da lui. All'inizio, la volta che gliel'avevano spedito in anteprima, a Natale, non gli aveva fatto quest'effetto; era piuttosto una sensazione che si era amplificata nel tempo, man mano che lo lasciava andare.

In prima fila, all'estremità destra, c'era suo padre. Fu il solo che distinse chiaramente nel mare di volti dinanzi a sé. Era sulla carrozzina, accompagnato da Felix, e sembrava agitato. Non entrava in un luogo così affollato da più di vent'anni, da quando Petra lo portava in giro per la città a braccetto. Era stato costretto ad abituarsi alla vita in una bolla, e ricordargli che fuori da quella bolla esisteva una vita infinitamente più vertiginosa e variopinta era ogni volta traumatizzante. Non faceva che scattare a ogni stimolo che riceveva, in modo eccitato e spaventato al contempo, la bocca aperta e due occhi grandi in cui si rifletteva la luce calda delle lampade. Forse non era stata una buona idea portarlo lì, sottoporlo a un viaggio del genere, pagarlo anche per Felix e lasciarli a loro stessi nella stanza d'albergo per gran parte del soggiorno. Tra padre e figlio, nessuno aveva chiuso occhio, quella notte. Sonne aveva vomitato la cena, Gregor si era fatto prendere dalla smania e non ne aveva voluto sapere di mettersi a letto, finché, verso l'alba, non si era messo a guardare sospettoso fuori dalla finestra. Temeva che l'avesse scortato fino a Dresda per rinchiuderlo di nuovo? Sonne gli aveva messo una coperta sulle gambe e poi aveva preso delle gocce per lo stomaco.

Sì, era stata decisamente un'idea egoista, che andava contro il bene di Gregor sotto ogni aspetto possibile, ma Sonne aveva bisogno di lui. Era facile ammetterlo, ormai. Senza suo padre, nulla avrebbe avuto senso tra le mura di quella sala.

Gli sarebbe piaciuto che ci fosse anche Meier, quel giorno. La sua assenza era la più grave nota stonata di tutta quella faccenda. Gli aveva mandato l'invito non appena aveva saputo la data e il luogo – di comune accordo con l'ufficio marketing della casa editrice, la prima città sarebbe dovuta essere la sua città natale, nell'Est –, ma lui aveva declinato con una lettera di risposta, com'era nel suo stile, congratulandosi per l'uscita del libro e dicendogli che sarebbe stato presente volentieri alla presentazione di Amburgo, qualora ne avessero organizzata una.

In quei pochi minuti nessuno venne a disturbarlo o a metterlo a proprio agio, neanche il responsabile della libreria. Lo lasciarono in pace lì, dietro la scrivania, a rimuginare, come se emanasse un'aura troppo temibile per essere avvicinato. In realtà, Sonne non sarebbe mai voluto apparire così.

Stava giusto pensando che Kramer era in ritardo, quando comparve dalle scale, aggirò il pubblico e venne a sedersi accanto a lui, al posto vuoto, nel suo completo marrone chiaro un po' trasandato. Lo salutò a bassa voce con una leggera pacca sulla spalla. «Caspita, c'è il pienone.» Il suo sorriso intendeva essere incoraggiante, ma al di là del lavoro che avevano svolto insieme sul testo, non erano poi così in confidenza perché Sonne si fidasse di lui. Kramer, così come i suoi colleghi e i suoi superiori, lo considerava soltanto un successo editoriale. Tuttavia si era affezionato al romanzo, e Sonne non avrebbe immaginato una persona più adatta ad accompagnarlo in quella performance: era di sicuro il redattore più spigliato di tutta la Trennwald, oltre che il più giovane e assetato di riscatto che avesse mai conosciuto. Aveva apprezzato molto la bozza di discorso che gli aveva mandato. Si soffermava a lungo sui personaggi, anziché sull'ambientazione e sulle sue idee politiche, che era di sicuro ciò che tutta quella gente si aspettava di sentire, o ciò per cui era venuta. Prevedibilmente avrebbero finito per estorcergli una serie di frasi che avrebbero preso per dichiarazioni provocatorie e che i giornali di destra e sinistra avrebbero poi spalmato nei loro titoli senza contesto.

Kramer si guardò l'orologio da polso. «Direi che possiamo iniziare» disse, facendo cenno al tecnico di attivare i due microfoni.

Sonne si arrese solo a quel punto, dinanzi all'irreversibilità delle cose, come nell'istante in cui si riceve una sentenza.

Kramer salutò il pubblico e presentò Sonne. Non era previsto, nella prima parte della presentazione, che lui parlasse.

Gli spettatori sembravano fin troppo ben disposti nei loro confronti. Doveva pur esserci qualcuno che stava macchinando un tranello per far fallire tutto, pensava Sonne. Ma Kramer faceva apparire ogni cosa gestibile, con la sua attitudine professionale e rilassata.

Sonne tenne lo sguardo basso, anche perché la palpebra gli tremava in modo evidente, e le mani intrecciate sulla scrivania, quasi come se fosse in preghiera. Sapeva già come sarebbe proseguito il discorso.

Kramer parlò brevemente della trama – «Un ribaltamento della Storia, per continuare a riflettere sul presente» – e poi di com'era stato lavorare al libro, di quanto si fosse sentito coinvolto nelle vicende dei personaggi, non solo dagli avvenimenti esterni ma anche dalla loro vita interiore.

Disse i loro nomi.

«Quando Richard e Verena si incontrano per la prima volta...»

Li pronunciava in modo del tutto spontaneo, con una naturalezza quasi inammissibile, ciascun suono esattamente dove doveva essere. A sentirlo, Sonne avvertiva ogni volta una scarica inspiegabile lungo i lati del collo. Li aveva nominati anche durante le loro chiamate in fase di revisione, Richard e Verena questo, Richard e Verena quest'altro, e Sonne si sforzava di ricordare altre volte in cui qualcuno li avesse chiamati davanti a lui, ma non gli veniva in mente niente. Adesso i lettori avrebbero fatto la loro conoscenza come se avessero davvero potuto incontrarli di persona.

Non gli sembrava possibile, ma il clima si fece sempre più disteso. Ci furono delle battute che gli arrivarono ovattate e incomprensibili, delle risate sommesse, non era poi tutto così formale e asfissiante, e questo perché Kramer recitava alla perfezione il suo ruolo. Stava constatando che la gente prendeva la letteratura molto meno sul serio di lui e che forse era questa la condizione necessaria perché si potesse vivere la propria vita normalmente.

Il pubblico prese addirittura a ignorarlo, dopo un po', come se neanche ci fosse, o come se il fatto che era l'autore del libro fosse diventato d'improvviso irrilevante. Si era trasformato in una figura di sfondo, confuso tra le immagini stampate sul pannello dietro di lui che annunciava gli eventi del mese. A cosa serviva, allora, la sua presenza? Stava soltanto spiando persone che parlavano del suo romanzo.

Questo pensiero, che non mancò di pungerlo nel vivo, gli fece venire per la prima volta il desiderio di intervenire.

Si umettò le labbra e si asciugò con il dorso della mano il sudore che si stava rapprendendo sulle tempie.

Presto Kramer gli cedette la parola.

Sonne sistemò ancora una volta l'asta del microfono e si schiarì la voce. Per un paio di secondi ci fu silenzio. «Innanzitutto» esordì, «volevo ringraziarvi personalmente per la vostra presenza. Leben non è stato un romanzo facile da far venire alla luce, ed è proprio su questo che mi piacerebbe concentrarmi oggi: il cavare qualcosa dalla fantasia nella realtà. Il senso che ha la scrittura per me. Manfred ha già sviscerato alcune delle questioni principali del romanzo con grande sensibilità e occhio analitico, ma ha lasciato a me quella più spinosa, perché forse solo uno scrittore – non necessariamente l'autore in sé – può provare a spiegare il rapporto che intercorre tra vita e scrittura.»

Era cosciente di essere un po' ingessato, del fatto che tutti lo stessero guardando mentre lui rivolgeva gli occhi a un punto imprecisato tra le teste delle persone, poco sopra lo scalpo, per non doverne incontrare lo sguardo. Trovava piuttosto straniante ascoltare la propria voce restituita dalla cassa, più dell'unica altra volta in cui aveva avuto occasione di parlare attraverso un microfono, alla sua discussione di laurea.

«Vi sarete chiesti, e forse vi sto anticipando sul tempo: perché resuscitare la DDR proprio adesso che ce ne siamo liberati. Cercherò di rispondervi, anche se probabilmente non è la risposta esaustiva che immaginavate. Da un lato ha a che fare con le mie origini, che finisco sempre per riportare in vita nei miei scritti. Non la definirei nostalgia. È qualcosa di più viscerale e ineluttabile, un desiderio titanico di riscrivere il passato, di correggere il tempo e rimediare agli errori commessi. Un anelito fallimentare per natura, direi anche fantascientifico. Del resto l'ucronia fa parte del genere della fantascienza, ma, come accennava prima Manfred, parla pur sempre al presente. Leben ha parlato, per primo, a me. Mi ha aperto in due. Ri-aperto, anzi. Quante volte questo paese ci ha spaccato? Per questo la riunificazione è stata un sollievo per tutti noi. Era una promessa di completezza, di integrità. Ha generato infinite possibilità immaginative per il futuro, facendo credere di poterci lasciare finalmente il passato alle spalle.»

In un attimo di pausa, si rese conto che le parole cominciavano a venir fuori dalla sua bocca più fluide e cariche di significato. Ma non era tranquillo. Cercava di sbrigarsi, anche se sapeva di dover seguire un ritmo accettabile, di dover almeno fingere di essere un bravo oratore, oltre che un bravo scrittore.

«Però il passato è sempre con noi» proseguì. «Ci costituisce, ci circonda, nelle strade delle nostre città e nelle nostre case, fungendo al contempo da eredità e da fantasma. L'atto di nasconderlo sotto al tappeto, per così dire, può essere giudicato più o meno immorale, ma io lo ritengo innanzitutto dannoso. Spesso oggi si parla della DDR e del socialismo come se appartenessero già a una dimensione lontana e sepolta per sempre, come se gli effetti della riunificazione, nell'Est, fossero qualcosa di inevitabile e necessario che prima o poi verrà superato... Come se non ci fosse alternativa a ciò che la Germania è diventata oggi, o quantomeno un'alternativa più desiderabile di questa. Con questo romanzo, mi piacerebbe ricordare quanto sia importante ridisegnare o reimmaginare i confini della realtà. Nessuna apologia di questo o quell'altro regime: solo, cambiare prospettiva, ribaltare le certezze, sconfinare. È una parola che ho sempre apprezzato moltissimo, e che mi ha aiutato a dare un nome agli sconfinamenti vissuti sulla mia stessa pelle. Ricordo ancora chiaramente una lezione di teoria letteraria all'università che ha segnato per sempre il mio modo di vedere la letteratura. In sostanza, secondo alcuni teorici, la fantasia è ciò che il reale preclude con i suoi sbarramenti, talvolta però può essere attraversata. Grazie alle pratiche artistiche, ad esempio. Cosa accade allora, quando si tocca la fantasia, o quando la fantasia viene portata nella realtà, dilatandola? Entropicamente si scatenano nuove energie. Cominciamo a riconsiderare la realtà, o a comprenderla meglio, a vederne le potenzialità e le storture. Cominciamo a pensare noi stessi e gli altri diversamente. La letteratura ha un'influenza enorme sul reale, più di quanto ci soffermiamo a riflettere: plasma e riformula in continuazione il nostro immaginario, epoca dopo epoca, e l'immaginario a sua volta muove uomini, popolazioni e civiltà intere, e tutto per il nostro bisogno ancestrale di raccontarci storie – di comprendere l'esistenza guardandoci allo specchio, ma anche gettando uno sguardo nell'ignoto. Numerosi autori prima di me hanno indagato il legame solidissimo tra la letteratura e la morte. Nonostante ciò, a me piace considerare l'immaginario una forma pulsante di vita, che a volte ci illudiamo di controllare, ma che non appartiene soltanto a noi, e in più dipende da mille fattori diversi, tra cui il nostro vissuto personale e l'ideologia del paese in cui ci capita di nascere. Il compito più onesto per gli autori dovrebbe essere perciò quello di generare scosse e turbamenti nell'immaginario e nella realtà: la letteratura non può permettersi di essere confortante, di farci amare il mondo così com'è, o aiutarci a darlo per assodato e immutabile. Lo scrittore ha una responsabilità, in questo. La sua lingua crea, pescando simultaneamente dall'immaginario individuale e da quello collettivo. Crea nuove possibilità di vita che solo all'apparenza ci sono precluse. Io, con Leben, con Richard e Verena, ho provato a mostrarvene alcune. Grazie dell'attenzione.»

Ci fu un nuovo applauso, stavolta più lungo.

Sonne si concesse di respirare. Il discorso non era la parte che lo preoccupava di più, eppure fu un sollievo, concluderlo – perché significava aver estrinsecato dal petto un'altra cosa su cui aveva lavorato in solitudine e che gli era pesata dentro come una pentola piena d'acqua fino a quel momento. Condividere quelle parole era il vero sollievo. La possibilità che avessero senso anche per qualcun altro. In qualche modo, aveva affermato ad alta voce che Richard e Verena erano vivi e nessuno aveva battuto ciglio. Forse la catastrofe che aveva temuto davvero finora era di passare per matto.

Bevve un sorso dalla bottiglina.

«Possiamo procedere con le domande, se per voi va bene» stava dicendo intanto Kramer. «Date pure sfogo alle vostre curiosità, sono sicuro che ne avete parecchie.»

Sonne non ebbe neanche il tempo di aggiungere alcunché che un uomo dal fondo della sala alzò il braccio di scatto. Kramer richiamò l'attenzione del tecnico, che andò a portargli un altro microfono collegato a un lunghissimo filo.

L'uomo si mise in piedi. Aveva l'aria da giornalista, una malizia celata nell'espressione. Sonne si costrinse a mantenere il contatto visivo.

«Ritiene che questo romanzo possa essere un esempio di Ostalgie? Molti cittadini dell'Est hanno provato un grande senso di perdita dopo l'iniziale euforia della riunificazione e ci sono già alcune opere che trattano questo tema. Sicuramente ha sentito parlare del suo collega Thomas Brussig... Potrebbe diventare un vero e proprio filone, un giorno.»

La risposta gli venne inaspettatamente naturale. «No, non credo di far parte di questo filone. Come leggerà, lo stato in cui si riunifica la Germania alla fine del romanzo non è esattamente la DDR. Ne riprende alcuni aspetti, e ne migliora molti altri. Come spiegavo prima, poi, quest'opera non ha niente a che fare con la nostalgia. Non mi considero un cittadino dell'Est, ci ho vissuto soltanto fino ai miei quattordici anni. In un certo senso, non mi considero neanche un cittadino dell'Ovest. Sento di essere rimasto bloccato su una soglia, perciò non mi rispecchio appieno in questo sentimento. Tuttavia ho provato anch'io un senso di perdita con la riunificazione, so di cosa parla: forse perché, con la riunificazione, anche quella soglia è venuta a mancare. Se vuole sapere se il romanzo mi ha aiutato a superare questa condizione... in parte sì. Non del tutto, ma sì.»

L'uomo lo ringraziò per la risposta con un cenno del capo e si risedette.

Le domande furono almeno una dozzina.

Alla resistenza che Sonne aveva opposto per tutta la giornata seguì un graduale rilascio, come all'appianarsi della tensione nell'ultimo capitolo di un buon libro. Gli chiesero delle sue influenze letterarie, dei suoi studi, del rapporto con i suoi racconti precedenti, dove trovasse l'ispirazione, tutte questioni che era preparato ad affrontare e che era quasi elettrizzato di riuscire a gestire. Non ci furono altre provocazioni sulla DDR, in compenso una studentessa di Lettere che aveva già terminato la lettura, colta e sfacciata, avanzò un'interpretazione psicanalitica per l'assenza delle madri di Richard e Verena, usò il termine fallogocentrismo e gli suggerì di approfondire gli studi di genere per le prossime opere, dato che trovava i personaggi femminili il suo punto debole.

Sonne fu tentato di mettersi sulla difensiva, ma alla fine la ringraziò, senza nessuna traccia di sarcasmo. All'università si era sempre disinteressato di quell'ambito, pur avendo sentito parlare tante studentesse come lei, ma adesso, da quella nuova prospettiva, si rendeva conto d'improvviso delle proprie lacune. Quel discorso aveva acceso una spia da qualche parte dentro di lui. Quantomeno la volta successiva avrebbe saputo come controbattere adeguatamente. «Senz'altro ci rifletterò. Non ci avevo mai pensato in questi termini.»

Con lo scorrere fluviale dei minuti avvertì sempre più il caldo. Al piano interrato non c'erano finestre. D'istinto si arrotolò un po' le maniche della camicia, ma poi si accorse che le cicatrici erano diventate, in parte, visibili, e fu tentato di coprirsi di nuovo. Non era mai stato così negligente prima d'ora. Alla fine si disse: a chi mai dovrebbe importare?, e lasciò le maniche sollevate.

Se qualcuno ci fece caso, non lo diede a vedere.

L'angoscia, che si era poi trasformata in euforia, divenne infine una sensazione di calma dilagante, di pieno controllo. Era andato tutto liscio. Si sentiva inscalfibile – niente e nessuno avrebbe mai potuto ferirlo, in quel momento. L'ultima domanda della presentazione fu posta da una ragazza con dei folti ricci e un dolcevita bianco che forse aveva appena superato i diciott'anni. Quando le passarono il microfono si mise in piedi e chiese, con voce alta e chiara: «Che significato ha l'epilogo?»

Anche lei aveva già finito il romanzo, e non aveva vergogna di chiedere spiegazioni all'autore, anzi, quasi sembrava pretenderle. Nella sua ingenuità, non appariva affatto ingenua. Chiunque avrebbe dovuto reclamare una soluzione agli enigmi della vita con lo stesso ardore, invece di accettare la propria ignoranza mortale.

Sonne, per la prima volta dopo molto tempo, sorrise.

In fondo era la domanda che più stava aspettando.

«La spiegazione è in realtà banale e forse anche un po' stucchevole. Semplicemente, mi sono calato nella storia per poterli incontrare un'ultima volta.»




Sonne Rothberger.

Non aveva allenato molto la propria firma, forse perché non avrebbe mai pensato di dover autografare così tante copie del romanzo di fila. Non era mai stata più di una fantasia. Adesso il suo stesso nome gli suonava cacofonico, niente affatto maneggevole, con tutte quelle lettere. Avrebbe dovuto sperimentare le sole iniziali.

Con affetto, S. R.

Buona lettura, S. R.

A Sarah, ad Angelika, a Franz, a Joseph, a Paul, S. R.

Sollevava la copertina di Leben, chiedeva il nome, firmava, restituiva il libro con un sorriso accennato, ma gentile – che non scoprisse i suoi denti piccoli –, anche se ogni tanto Kramer, il tecnico o uno dei librai gli diceva qualcosa di divertente e a lui veniva genuinamente da ridere, allora sì che mostrava i denti, accorgendosene solo quando era troppo tardi. Stavano in piedi accanto a lui, Kramer appoggiato di schiena alla scrivania, mentre Sonne ultimava il firmacopie. Tra una dedica e l'altra, si massaggiava il polso destro.

La fila continuava a sfoltirsi, le luci si erano un po' abbassate o forse era solo un'impressione, una percezione che aveva sulla pelle, e suo padre se ne stava più tranquillo con Felix che gli stava facendo fare un giro della libreria. C'era un'atmosfera surreale, come di una storia a cui viene finalmente messo un punto. Una dolcezza diffusa lo riempiva fin nelle gambe, dove gli aveva sciolto il sangue in linfa fresca. Dopo che la penna avesse solcato la pagina per l'ultima volta, la vita, anche la sua vita, sarebbe andata avanti.

(Se avesse alzato lo sguardo e frugato tra i presenti rimasti, non li avrebbe trovati lì. Per la prima volta accettava davvero la loro assenza.)

Alzò lo sguardo, incontrò quello di un suo coetaneo dal viso intelligente e i capelli neri, morbidi, che gli cadevano sulla fronte. Lo riabbassò subito per firmare la sua copia, ritrovandosi a pensare di sfuggita che fosse una persona attraente. «Come si chiama?»

«Oskar.»

Le dita di Sonne si bloccarono. Fissò per un istante la pagina bianca, come se potesse trovare lì la risposta del presentimento che gli era frizzato dentro, e poi guardò di nuovo l'uomo che aveva di fronte. Ripercorse il suo volto, la sua fisionomia agile – fu nella linea delle spalle e dei fianchi, nella struttura, che lo riconobbe.

«Oskar Fehlmann?» chiese, la bocca impastata, gli occhi inchiodati su di lui.

I tratti di Oskar si aprirono all'istante in un'espressione calorosa e al tempo stesso furbesca, come quella di un ragazzino che sta per compiere una marachella. «Proprio io, Stefan Radnitz, anche se forse non dovrei chiamarti così.»

Sonne si mise in piedi in un movimento rapido ma goffo, che fece stridere la sedia sul pavimento. Senza sapere bene come comportarsi, gli tese la mano. Adesso, proprio adesso che era necessario e che non sarebbe voluto apparire così serio, era troppo spiazzato per sorridere. «Non fa differenza» gli disse, anche se non era vero. «Oskar, ma certo. Che coincidenza. Non ti ho riconosciuto perché ero concentrato sul libro, ma se ti avessi visto con più calma, forse...»

Oskar gliela strinse. Lo osservò in tutta la sua altezza. «Beh, non ti biasimo, siamo cambiati molto. A dire il vero neanche io avrei riconosciuto te se ti avessi visto da qualche altra parte.»

Di norma sarebbe stato amareggiato da quell'osservazione, ma si rese conto che il tono non era denigratorio, tutt'altro. Era più... un complimento. Non fu mai felice come in quel momento di aver perso peso negli ultimi mesi.

«Come facevi a sapere chi sono, allora?»

«Nessuna coincidenza. Ho letto i tuoi racconti un paio di anni fa. Nella biografia della prima raccolta era ancora specificato il tuo vero nome. Ricordo benissimo che pensai: Stefan, certo, se non aveva lui la stoffa per diventare scrittore! Così, quando ho visto che avresti fatto una presentazione a Dresda mi sono detto che non potevo mancare. Ammetto che ero curiosissimo di vedere come fossi diventato. E di leggere il libro, ovviamente. A proposito, congratulazioni per tutto. Non solo per la pubblicazione, anche per la scrittura in generale. Trovo che le tue storie abbiano qualcosa di... vivo, e di magnetico.»

Sonne sbatté le palpebre, imbarazzato. Si sentiva sciocco persino a tenere le braccia dritte lungo i fianchi. Era totalmente impreparato alla sua apparizione, che da sola bastava a riesumare centinaia di istantanee dal passato – le briciole della merenda sui banchi di scuola, il fango sotto le scarpe dopo che avevano corso in cortile, lo sguardo di sdegno di Petra, la ginocchiata nelle costole che un compagno di classe aveva rifilato a Oskar nell'ora di educazione fisica e l'indifferenza glaciale di lui dinanzi a quell'atto, di Stefan, che da un giorno all'altro aveva deciso di non averci più niente a che fare, senza dargli l'ombra di una spiegazione. Non riuscì ad assimilare le sue parole fino in fondo. Più tardi, seduto sul letto dell'albergo, rivolto alla parete spoglia, si sarebbe sforzato di ricordarsele e ripetersele a mente una a una.

Realizzò che Oskar doveva leggere ancora tantissimo per aver scovato i suoi racconti.

«Io... Grazie, Oskar, mi fa davvero piacere. È passato così tanto tempo... Non so perché, ma credevo che non avrei mai incontrato qualche vecchio conoscente, qui. Sei rimasto a Dresda?»

«Sì. Per restare vicino alla mia famiglia, principalmente.»

«Capisco. E per lavoro, suppongo.»

Oskar per un attimo abbassò gli occhi, quei suoi occhi scurissimi in cui quasi non si distingueva la pupilla dall'iride, e scosse la testa divertito. «Non proprio. Si dà il caso che anch'io scriva. Ahimè.»

Lo stupore durò soltanto una frazione di secondo. Poi, come lui, Sonne pensò che Oskar in un certo senso era sempre stato uno scrittore e che non se lo sarebbe figurato a fare nient'altro. Non lo vide sotto una luce diversa; semplicemente, in quel momento seppe con assoluta certezza di avere davanti a sé un proprio simile, come aveva saputo in un lampo a undici anni. Anche allora era consapevole di quanto un incontro del genere fosse un piccolo miracolo.

Si rammaricò di non averlo mai sentito nominare, come autore, ma era già sicuro che avesse un grande talento. «Davvero? Non ne avevo idea. Che cosa scrivi?»

«Oh, anch'io narrativa, ho esordito con un romanzo l'anno scorso e adesso sto lavorando al prossimo» minimizzò lui, rivelando d'improvviso una traccia di timidezza che lo rendeva ancora più familiare agli occhi di Sonne, la stessa timidezza che da bambino lo coglieva tutt'a un tratto quando doveva parlare di sé. Si guardò alle spalle, in direzione delle altre quattro o cinque persone che stavano in fila per il firmacopie, e preferì non dilungarsi. «Non voglio farti perdere tempo, comunque.»

«Aspetta, non ti ho più firmato la copia.» Sonne si chinò sul libro ancora aperto per lasciargli una dedica, mentre pensava a qualcosa da dire per trattenerlo anche solo un altro minuto. Gli sarebbe dispiaciuto vederlo sparire di nuovo nel nulla, come se fosse stato soltanto un'allucinazione. «Non mi accorgo neanche del tempo che passa, quando parlo di queste cose.» Gli sembrò una frase stupida nell'istante stesso in cui ebbe finito di pronunciarla.

Oskar fu più capace di lui, in quella situazione. Lo era sempre stato, su tutti i fronti. «In realtà... se non sei di fretta, pensavo che potremmo andare a prendere qualcosa da bere, dopo. Ne abbiamo di cose su cui aggiornarci.»

Sonne sentì il proprio volto tornare a distendersi, a essere modellabile a suo piacimento. Fu invaso da una curiosa gratitudine. Almeno qualcuno aveva perdonato i suoi errori d'infanzia. «Sì... Voglio dire, no, non sono di fretta. Mi piacerebbe.»

Oskar gli sorrise, riprendendosi la copia di Leben. «Perfetto. Allora ti aspetto fuori, all'uscita.»

«Va bene.»

«A dopo.»

«A dopo.»

Lo vide risalire la scala a chiocciola con il cappotto sottobraccio, piacevolmente frastornato. Dovette obbligarsi a tornare con la mente al firmacopie non appena si ritrovò davanti la persona successiva della fila.

La sala al piano interrato si era ormai quasi del tutto svuotata. Due inservienti stavano già ripiegando e accatastando le sedie in un angolo prima di riportarle in magazzino. In qualche modo, lo confortava partecipare a quella routine. Per i librai non era altro che una chiusura come un'altra, in una giornata più movimentata del solito. Gli diede un senso di quotidianità e di pace. A breve, ognuno sarebbe tornato a casa, o avrebbe incontrato i propri cari, un amico, un amante. Era bello immaginare che nessuno fosse solo, in quella città.

Firmò le ultime copie assorbito da quello che lo circondava, del tutto intero per ciascuna di quelle persone, ciascuno di quei sorrisi. Vide che Felix e Gregor si stavano riavvicinando alla sua postazione. Lo stavano aspettando. Avrebbe dovuto dirgli che i piani per la serata erano cambiati e che avrebbero dovuto cenare senza di lui.

«Ti dispiace se mi avvio, Sonne?» gli chiese Kramer. «Si è fatto più tardi del previsto.»

«Figurati, nessun problema. Anzi, grazie per essere rimasto.»

Si ringraziarono di nuovo a vicenda, Kramer gli diede un'altra pacca sulla spalla e Sonne si alzò per salutarlo. Si dissero che si sarebbero visti la settimana successiva, a Lipsia.

Mentre si allontanava, l'ultima persona della fila venne verso di lui, muovendosi lenta.

Prima ancora di rivolgerle lo sguardo, Sonne avvertì con un guizzo di inquietudine che l'aria era cambiata.

Si irrigidì di colpo.

Fu come accorgersi solo allora che in sottofondo stava suonando un violino scordato. Impossibile dire da quanto e perché non ci avesse fatto caso prima. Deglutì, ansioso che qualcosa al di là della sua comprensione stesse rovinando quella serenità – ansioso che fosse stata tutta un'illusione crudele e che qualcuno avesse appena fatto calare il velo.

Quando guardò la ragazza, la sensazione si allargò di scatto e mutò in un presagio oscuro. Non appena si specchiò nel suo volto, venne afferrato alla gola dall'istinto fulmineo di piangere.

Non poté impedirlo. Due lacrime pesanti gli precipitarono sulle guance, giù fino al mento, senza che le avesse nemmeno sentite materializzarsi negli occhi.

Si stupì e vergognò di quella reazione, come se fosse stato visto nudo, ma non riuscì a sollevare neanche una mano per asciugarle.

Era una ragazza dell'età di Verena, su per giù, bruna, con degli occhiali dalla montatura metallica e il trucco appuntito sulle palpebre. Indossava un cappotto nero e lungo, almeno di una taglia in più, in cui un po' si nascondeva. Non era molto alta, né bella. Ma stava fiera davanti a lui. In una mano reggeva una tanica di detersivo che recitava: über 50 Wäschen!

«Ciao, Sonne.»

La consapevolezza lo investì dall'alto con violenza, come se fosse qualcun altro ad avergliela versata addosso.

Gli si mozzò il respiro. Sapeva benissimo chi era. Non poteva essere nessun altro.

Le lacrime l'avevano riconosciuta ancor prima di lui.

Il terrore gli fece rizzare le dita dei piedi e gli suggerì di cercare vie di fuga, eppure non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo. Ecco che si compiva il suo fato: come aveva predetto Verena, era venuto a prenderlo. Una donna.

Stava per morire. Ne era convinto. Sarebbe successo tra un istante. Per cosa era venuta, altrimenti? Non si sarebbe scomodata per nient'altro se non per dargli la morte. Se l'era scampata già due volte. Adesso non più. Adesso doveva raccogliere ciò che aveva seminato. Di nuovo con il fuoco. Davanti alla sua esecutrice.

Ma perché, perché ora? Perché così senza cuore?

Il pensiero del cuore di lei, per assurdo, lo sconvolse.

Con uno strappo dentro, provò l'impulso di rannicchiarsi tra i suoi seni per sentirlo battere. Di toccarla. Desiderò che piuttosto fosse la sostituta di Petra, giunta per assolverlo. Di Richard e Verena. Di Dio. Persino di se stesso.

«Vedo che hai capito chi sono» gli disse.

Aveva un accento straniero, mediterraneo. Forse italiano. Sonne non riuscì a capacitarsi di quel dettaglio. Una donna non tedesca, più giovane di lui, con quella faccia, con quel corpo. Non se lo sarebbe mai immaginato così. Che immaginazione fallace, la sua. Era quasi deluso. Una ragazza qualsiasi. Cosa ne sapeva, lei, della sua terra? Di lui?

Continuò a fissarla, inorridito. Si accorse che anche gli occhi di lei erano lucidi, e illuminati – era la luce che le nasceva dentro guardandolo. Anche lei provava un'emozione altrettanto indicibile, al suo cospetto.

Doveva amarlo infinitamente.

E doveva temerlo, anche, per qualcosa di peggio della sua stazza. Non aveva altre ragioni per stare a più di un metro dalla scrivania, del resto.

Sonne riuscì a trovare un filo di voce per una domanda. «È la fine, questa?»

«Non ti mentirò. Lo è.»

Lo colse un giramento di testa e subito dopo un conato di vomito. Non sapeva cosa fare. Se chiederle pietà, chiedere che fosse il più indolore possibile, chiederle qualunque altra cosa...

La verità agghiacciante era che non aveva la minima idea di come si sarebbe comportata, perché non la conosceva.

Si guardò intorno, pregando che qualcuno dei presenti notasse le intenzioni della ragazza e che venisse in suo soccorso, ma scoprì che il tempo si era fermato. Tutti si erano immobilizzati, colti a metà di un'azione. Kramer stava ancora sulle scale, gli inservienti erano chini sulle sedie, il libraio si era bloccato nel bel mezzo di una conversazione con un cliente, le mani alzate intente a gesticolare chissà cosa, e Felix stava paralizzato dietro la carrozzina di suo padre, che sorrideva inebetito al vuoto. Un giardino di statue di pietra. Un cimitero, sospeso in un flusso polveroso.

Sonne prese a tremare. «Sei stata tu...?»

Lei annuì. Era un accenno di imbarazzo, sul suo viso tondo, di colpa? Ma questo non intaccava la sua flemma abissale. «Sì. I segni sono miei, sono sempre stati miei, sin dal principio.»

Il suo tremito divenne di rabbia. In una scarica si rese conto che era lei la causa di ogni sua sofferenza. Si vide aggirare la scrivania, strapparle di mano la tanica di detersivo – la sua tanica di benzina – e versargliela addosso a fiotti, per poi darle fuoco con un accendino. Se la vedeva, a non opporre la minima resistenza, tutta versi di paura e carne molle – adesso gliel'avrebbe fatto scoprire cosa si provava, a essere bruciati vivi – questo esserino insignificante, aveva mai avuto pensieri di onnipotenza come lui, aveva davvero onnipotenza su di lui?

Sulle labbra di lei comparve un sorriso amaro come se sapesse alla perfezione cosa gli passava per la mente.

La mente.

Ecco perché si teneva a debita distanza e rinunciava al contatto fisico.

Non sono qui per farti morire, Sonne, gli disse con il pensiero. Sono solo qui per... incontrarti un'ultima volta.

Sonne sussultò.

Il silenzio intorno gli premeva sulle orecchie. Tuttavia, si stava aprendo uno spiraglio.

Allora... adesso andrai via?, le chiese, sulle spine.

Sì. È un addio. Spero che tutto questo cammino ci sia stato utile a qualcosa. La scrittura sa essere davvero sfiancante e priva di senso quanto la vita, a volte. Che è un po' il contrario di quello che hai detto oggi, certo, ma forse entrambe le cose possono essere vere contemporaneamente.

Sonne non seppe cosa rispondere. Era stremato da quell'incessante rompersi di pareti. Non vedeva l'ora che sparisse e tornasse da dov'era venuta. Avrebbe rinunciato a qualsiasi miracolo pur di non rivivere tutto da capo, nei loro panni.

Addio.

Che l'avesse detto lei o lui.

Lei svitò il tappo della tanica e si cosparse il corpo di benzina.

Lui ingoiò un verso di sorpresa.

Era davvero così che intendeva andarsene?

Fu tentato di fermarla, raccapricciato all'idea di assistere a una scena tanto familiare e pentito di averla desiderata fino a qualche istante prima, ma dal nulla, senza neanche il supporto di una fiamma, la ragazza prese fuoco. Le lingue si slanciarono verso l'alto come fosse in fiore. Sonne sobbalzò e si schermò d'istinto il volto con una mano.

Lei non urlò, né si contorse. Oscillò sul posto per essere faccia a faccia con lui e permettergli di affrontarla. Presto la luce la inglobò per intero, ma a Sonne parve di scorgere ancora la sua sagoma nera mentre si consumava. Stava cedendo se stessa come moneta di scambio, per farlo continuare a vivere. Se questo era il significato. Ma se non fosse rimasto più nulla di lei, come avrebbe lasciato traccia del suo passaggio? Si ricordava, adesso, di quanto realmente terribile e magnifico sapesse essere il fuoco. Eppure non provò alcuna fascinazione, in quel momento. Se avesse continuato a fissarlo, l'avrebbe accecato.

Udì una risata familiare, e si voltò.

Vide che era Gregor. Sembrava l'unico a essere tornato a muoversi. Stava indicando la ragazza in fiamme e rideva, rideva contento, come se tutto quello non fosse stato altro che uno spettacolo straordinario organizzato apposta per lui.







Note d'autrice:

Non sembra vero, o forse sì. 

Ricompaio dopo una lunga assenza, come avevo avvisato su instagram e qui sulla bacheca di Wattpad, per pubblicare finalmente quest'ultimo capitolo. Spero ne sia valsa la pena. Sono stati mesi lunghi e soffocanti: ho aspettato che allentassero un po' la presa su di me prima di scrivere e postare questo pezzo del mio cuore (e del mio fegato), che meritava la massima cura possibile. Come dice Sonne, sarà banale e forse anche un po' stucchevole, ma è così, NEBEL è una delle cose che più ho amato nella mia vita, anche nei momenti in cui avrei voluto buttare tutto all'aria per la frustrazione. Le sono grata per tante cose.

Sono grata a voi.

Senza di voi - mai avrei immaginato che questa storia avrebbe coinvolto così tante persone - non sarebbe stato affatto lo stesso. Di volta in volta mi avete trasmesso l'affetto e la carica necessaria per scrivere il capitolo successivo. È questo, dopotutto, il motivo per cui continuo a pubblicare su Wattpad. Mi avvilirei enormemente, se fossi sola nella mia stanza, davanti al computer. 

Grazie, grazie per aver letto per l'ultima volta, grazie per esservi davvero sorbitə tutto questo. Non vedo l'ora di scrivere dei ringraziamenti più esaustivi, direi doverosi. Conto di pubblicarli la prossima settimana, insieme a qualche 'capitolo' bonus, come ho fatto nelle mie storie passate (cose come colonna sonora, disegni, booktrailer ecc.).

Dunque, per porvi l'ultima domanda di rito: avete capito chi è la ragazza dell'ultima parte? E perché è venuta da Sonne? Immagino sia stato un po' straniante da leggere, ma forse ne avete già compreso il senso. Non avrei saputo pensare una conclusione diversa da questa - NEBEL (e Leben) non è un romanzo che poteva richiudersi su se stesso. Il titolo del capitolo significa, ovviamente, Madre.

Se avete riflessioni, osservazioni, interpretazioni e dubbi finali, sono qui che vi aspetto a braccia aperte ♥ 


A presto,

Ivana



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