XVI. Von Licht geheilt

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N E B E L

XVI.

Von Licht geheilt



Sonne infilò una mano nel vecchio borsone di cuoio e solo per trovarvi sul fondo delle monete che erano state dimenticate: Pfennig dell'Est arrugginiti, rimasti lì sepolti per più di sedici anni. Due da dieci, uno da venti e uno da cinquanta, tutti con il martello e il compasso incisi sul retro.

Aveva usato quel borsone altre volte, specialmente durante gli spostamenti tra Brema e Amburgo, ma non si era mai accorto delle monete abbandonate. Dovevano essergli cadute durante il suo trasferimento nella Germania dell'Ovest.

Ricordava ancora oggi di aver tirato fuori il portamonete, sul treno della Deutsche Reichsbahn, per comprarsi da mangiare, mentre il funzionario che lo scortava non gli toglieva gli occhi di dosso. L'aveva messo così in soggezione che alla fine Sonne aveva desistito e non aveva preso nulla, preferendo sopportare il brontolio allo stomaco fino a Brema pur di non dire o fare qualcosa di sbagliato davanti a quell'uomo di cui non sapeva nemmeno il nome e che gli faceva sudare le mani. Erano seduti su un lungo sedile rivestito di velluto marrone, marrone quanto il completo, il cappello e gli occhiali di corno dell'accompagnatore. Almeno gli aveva lasciato il posto accanto al finestrino, dove Sonne aveva tenuto la testa appoggiata per tutto il viaggio.

Erano stati mesi infernali, quelli dopo la morte di Petra, Sonne non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Non aveva ancora compiuto quattordici anni. Era l'estate del '76.

Non gli avevano mai detto se sua madre si fosse suicidata o se avesse avuto un malore. Si era convinto che fosse stato un infarto, con il tempo, solo perché anche suo nonno Walter era morto per problemi cardiaci, perciò doveva trattarsi di una qualche corrispondenza genetica che forse Sonne avrebbe ereditato, visto che era stato già fortunato a evitare certi geni difettosi del padre.

Al funerale, al cimitero, avevano presenziato una cinquantina di persone, tutta gente del quartiere di Klotzsche e dintorni che ammirava la compagna Petra per aver ricevuto il suo aiuto in passato, e sarebbe stata una folla ancora più numerosa se negli ultimi anni della sua vita non si fosse chiusa sempre più in se stessa. Da quando Gregor era stato mandato in clinica, precisamente. Da allora non era più stata lei ed era appassita fino a morire, anche se aveva cominciato a credere in Dio, e a pregare. Ma nessun altro oltre a Sonne lo sapeva, perché agli occhi del vicinato Petra era sempre la socialista modello, atea, fedelissima al partito. Invece era cambiata. E faceva paura. Faceva paura la rapidità del cambiamento, l'assenza di motivazioni dietro il cambiamento, il risultato dopo il cambiamento.

Sonne non l'aveva detto a nessuno, né quanto fosse spaventato da sua madre né che lei avesse cercato conforto in Dio, così non le fu dedicata alcuna celebrazione religiosa. Le aveva negato anche quello. Però tuttora si giustificava dicendosi che era troppo piccolo per avere voce in capitolo, troppo turbato da quel lutto improvviso, o che la questione avrebbe potuto insospettire i compagni socialisti e che non era chiaro a quale confessione Petra si stesse rifacendo.

Al funerale Gregor non era presente. Se sua madre l'avesse saputo si sarebbe strappata i capelli dal dolore. L'avevano tenuto lontano da lei anche nel momento del congedo definitivo. Non l'avevano fatto uscire, o meglio, nessuno aveva insistito affinché uscisse. Sonne, in realtà, di quello era stato contento. Vederlo e vederlo reagire alla morte di Petra sarebbe stato troppo – ancor peggio pensare che forse non avrebbe nemmeno capito cosa stava succedendo.

Al funerale Sonne aveva conosciuto i suoi nonni, che non vedevano la folle figlia idealista rimasta nell'Est dal '51, un anno in cui l'emigrazione, la Republikflucht (1), non era ancora un reato. Tornavano a casa, nella loro Dresda mille volte ferita, per dirle addio. O come voleva la legge della DDR, per questioni familiari urgenti. Erano stati molto composti nel loro lutto, a tal punto da non suscitare alcuna empatia negli altri presenti. Gente dell'Est che non comprendeva gente dell'Ovest. Sonne aveva notato, però, che Walter e Luciane lo cercavano con lo sguardo, parlando a bassa voce. Era un ragazzino paffuto, all'epoca, alto per la sua età ma non troppo, non ancora, eppure già incapace di muoversi nel proprio corpo.

Al funerale se ne stava in piedi, immobile, con le mani strette in grembo, e si torturava i polsini della camicia, tanto che aveva fatto staccare un bottone, ma non piangeva. Era ricomparso un lieve dolore al braccio destro nonostante la fisioterapia e vi si stava aggrappando pur di non concentrarsi sul resto, sulle persone che cordialmente tentavano di avvicinarlo. Non ebbe il coraggio di alzare gli occhi su Petra, e dopo se ne pentì, perché non poté più vederla. Calarono la sua bara nella fossa nell'afa di inizio luglio.

«Ti piacerebbe venire a stare da noi, Stefan?» gli chiese Luciane, vestita di nero e con un foulard annodato al collo, posandogli una mano già rugosa sulla spalla. Fu l'unico contatto che non gli causò alcuna repulsione. «Troveremo il modo.» Volevano prenderlo con sé per sfuggire al senso di colpa. Se non avevano potuto salvare la figlia, allora avrebbero salvato il nipote, animati dal vivo desiderio di riscattare almeno uno dei due da quel paese liberticida.

Il modo c'era, ma non era stato semplice raggiungerlo. Walter e Luciane erano tornati a Brema, nell'Ovest, e Sonne era stato affidato per un certo periodo alle cure dello stato, mentre si attendeva che la burocrazia seguisse il suo corso: passaporto, visto d'uscita, interrogatori con la polizia. C'erano voluti mesi, mesi in cui gli sembrava di non aver vissuto, scaricato in un orfanotrofio di provincia. Pur sforzandosi non ricordava nessuno che si fosse preso la briga di rivolgergli più di due o tre parole, esclusi gli agenti. Alla fine la sua pratica era stata una delle poche approvate quell'anno, così gli avevano dato il permesso di trasferirsi. Das Überkind (2), così l'aveva chiamato il funzionario che si stava occupando del suo caso e che infine l'avrebbe traghettato al di là del confine.

Se n'era andato senza aver dato un ultimo saluto a sua madre e a suo padre. Lo realizzò proprio sul treno, guardando la campagna dell'Est scorrere davanti ai propri occhi alienati.

Durante il viaggio si era anche domandato se effettivamente avessero mai detto a Gregor della morte di Petra. Petra che aveva dedicato gran parte della propria esistenza alle sue cure. Una volta che gliel'avevano sottratto non c'era stato più amore in lei, neanche per Sonne. Tutt'altro. Aveva iniziato a odiarlo, come si odia una rivelazione spiacevole, la scoperta di una malattia i cui sintomi non sono stati colti in tempo. Una delle ultime cose che gli aveva detto era stata: «Quanto siamo diventati inetti alla vita, io e te.» Dopo qualche giorno l'avevano portata via su una barella, con un braccio a penzoloni.

A quattordici anni Sonne fingeva di non saperlo, a trenta ne era certo: era colpa sua.

Tutto. Ogni vicenda accaduta a loro tre – madre, padre e figlio –, ogni svolta e tragedia era riconducibile a lui.

Walter e Luciane non sapevano di star accogliendo in casa la ragione di tutte quelle disgrazie, né che gli avrebbero lasciato in eredità ciò che di più prezioso possedessero, quell'appartamento. Sonne aveva promesso a se stesso, dopo la loro morte, che l'avrebbe onorato per rimediare a tutto il dolore che aveva causato, come se avesse dovuto occuparsi di ciò che era allo stesso tempo grembo e sua futura tomba.

Era passato molto tempo prima che lui si affezionasse ai nonni. Una coppia indissolubile, composta da due individui simili, concilianti l'uno con l'altra ed estremamente decisi nelle scelte di vita. Si somigliavano anche nell'aspetto: erano di media statura, avevano capelli castano chiaro che andavano ingrigendosi, portati corti e sistemati, entrambi indossavano occhiali con una montatura spessa e squadrata, entrambi sfoggiavano rughe d'espressione profonde come solchi. Petra aveva preso da loro non solo l'aspetto, il tipo di pelle lentigginoso che invecchia presto, ma soprattutto il carattere pragmatico e il modo conciso di parlare. Sapevano dimostrare l'affetto più con i gesti che con le parole.

Luciane, ad esempio, era preparatissima sulla sua salute. Sonne si rivolgeva a lei allo spuntare di qualsiasi nuovo dolore ai muscoli e ai tendini. Era l'unica, oltre a Petra e ai medici, ad aver visto il suo corpo, ad aver visto le lacrime che sgorgavano quando il dolore o il prurito si facevano insopportabili durante la sua crescita sproporzionata.

Walter, invece, lo viziava sommergendolo di libri. Era il suo modo di volergli bene, di esprimere l'intenzione di volergli bene, quantomeno. Era laureato in Storia e faceva l'insegnante in un Ginnasio. Il primo libro che gli aveva regalato era stato Emil und die Detektive (3) di Erich Kästner, un classico della letteratura per ragazzi.

Quel libro gli aveva fatto pensare per la prima volta: voglio scrivere anch'io storie così. Nell'Est non gli era mai venuto in mente, neanche di sfuggita.

Ma, penna alla mano, era finito per scrivere qualcosa di completamente diverso, imprevisto persino per lui.

E ne era stato soddisfatto.

Non era un desiderio serio, all'inizio. Nemmeno un passatempo. Era più uno sfogo spontaneo, come lo sbocciare dei brufoli durante l'adolescenza. Scriveva in stato di dissociazione, per poi comprendere solo in seguito quanto avesse scritto.

Tuttavia, così come il suo corpo era cresciuto a dismisura, con gli anni, l'aveva fatto anche la creatività, di pari passo con il contenitore in cui era riversata. Anzi, aveva cominciato molto presto a strabordare. Era stato il periodo più produttivo della sua carriera, quando ancora non era una carriera, ma comunque una certezza imprescindibile. Attendeva tutto il giorno, tutti i giorni, il momento in cui poteva mettersi alla scrivania a scrivere. Pranzava di corsa, riempiendosi i vestiti e la stanza di briciole. Concludeva sommariamente i compiti. A stento parlava. Quando non aveva alcuno scopo e non puntava all'apprezzamento altrui, la scrittura era l'unica attività che lo rendesse felice. Un mondo in cui decideva lui le regole e in cui, a prescindere da ciò che faceva accadere, non poteva ferire nessuno. Il resto della vita, quella su cui aveva un controllo molto più limitato, non aveva più importanza. Si svagava con l'onnipotenza.

Il suo primo racconto, il primo di centinaia, tutti ancora custoditi gelosamente, era stato composto mentre era seduto a quella scrivania, davanti a quella stessa finestra da cui poteva osservare la città ogni giorno. Un'operetta di poco più di mille parole sul Duomo di Brema in fiamme. C'erano dei racconti chiave, nella sua produzione edita e inedita, e Funkeln (4), così si chiamava, era uno di quelli. Uno dei tanti legati al tema del fuoco.

Non aveva mai più cambiato postazione. La sua vita iniziava e finiva lì, in un rettangolo di spazio ben delimitato, ed era sempre lui a decidere quando cominciare e quando smettere. Stefan era rimasto nella DDR, un luogo e una persona che ora neanche esistevano più, e lì invece era nato Sonne, in un momento imprecisato, in silenzio e senza nemmeno un vagito. Era diventato due, si era spaccato.

Adesso su quella scrivania ci stava appoggiando un bagaglio. Di nuovo quel bagaglio, un oggetto capace di fargli ricapitolare la sua intera esistenza. Mise gli Pfennig nel cassetto, e riempì il borsone di vestiti per il finesettimana, lo stretto indispensabile per un clima ventilato e sempre più rigido. L'indomani sarebbe partito con Richard e Verena.

In quei giorni, una quindicina dal suo compleanno, i due l'avevano tartassato di domande. Un flusso infinito di provocazioni, che Sonne ormai riusciva a decifrare e prevedere in anticipo, perché sapeva benissimo cosa volessero da lui.

«Hai qualche suggerimento sulle attività da fare lì?», «Vuoi fare una scommessa con noi?», «Vicino a chi vuoi sederti sul pullman?», «Sai che nella casa ci sono due letti matrimoniali?».

Eppure non aveva mai pensato di rifiutare o tirarsi indietro, neanche una volta, da quando l'avevano invitato. L'imbarazzo non era più un problema insormontabile. Voleva osservare il dispiegarsi degli eventi, era questa la verità. Osservare un Sonne che dopo così tanto tempo – forse proprio dall'adozione da parte dei nonni, altri due salvatori – accettava l'aiuto di qualcuno. Era ancora qualcosa in suo potere. Decidere se assecondarli o meno.

Verena gli aveva detto: «Spero tanto che a Sylt ti torni un po' di ispirazione» e lui aveva capito, aveva capito subito che il viaggio era stato organizzato con quello scopo. Anche Richard adesso, attraverso lei, sapeva quanto fosse bloccato, quanto gli servissero delle braccia che lo tirassero via dal baratro. Sarebbe stato un vigliacco a rifiutare – a tranciare – le braccia delle uniche persone che gliele avessero tese.

Non gli restava altro da fare. Affidarsi a loro o lasciarsi morire. Se c'era anche solo una vaga soluzione per il male della sua vita, quella specie di cancro che si stava nutrendo della sua creatività, allora avrebbe dovuto testarla.

Un'isola, un autunno gelido, la leggerezza di Richard e Verena.

Poteva rivelarsi una combinazione feconda.

S'immaginava già il rumore delle onde che s'infrangeva nelle loro risate. A dirla tutta, aveva deciso di partire proprio al formarsi di quell'immagine nella sua testa. Verena con i capelli al vento che correva sulla spiaggia, alzando la sabbia tutt'intorno, Richard che la inseguiva e si voltava solo per guardare lui, alle loro spalle, come per dirgli: «Vieni!»

L'idea di una partenza non era mai stata così dolce.




E lei corse sulla spiaggia proprio come aveva immaginato, a braccia aperte, per prendersi tutto ciò che poteva di quel luogo che quasi non era neanche più tedesco, neanche più terrestre.

La meraviglia nei suoi occhi diede a Sonne un'ulteriore conferma: stava venendo un tempo felice, in cui avrebbe potuto ammirare quella gioia ogni giorno, per un bel po'.

Verena non aveva mai visto il mare.

Gliel'aveva confessato poco prima sul pullman, picchiettandogli una spalla, perché era seduto sul sedile davanti al suo. Richard ascoltava la musica dal suo walkman, anche se ogni tanto gli dava un colpo stizzito o due quando la musica s'interrompeva. Sonne aveva risposto che neanche lui l'aveva mai visto prima di andare all'università ad Amburgo. E poi lei aveva continuato a parlargli di tutto ciò che le veniva in mente, perché la trepidazione l'aveva resa inarrestabile, facendole divorare persino le più piccole cose che stavano avvenendo intorno. Il fatto che Sonne la ascoltasse, paziente, senza provare alcun fastidio, era di per sé un evento. Grazie a lei il viaggio era sembrato brevissimo e le ore erano volate.

Si erano ritrovati, così, sulla costa occidentale di Sylt, con i piedi piantati nella sua sabbia bianca. Verena e Richard non avevano nemmeno lasciato i bagagli in casa che subito si erano fiondati in spiaggia, e Sonne non aveva potuto fare altro che seguirli. Il percorso era breve, perché avevano affittato su raccomandazione di un collega di Richard una delle caratteristiche case con il tetto di paglia, in stile frisone, a ridosso del mare. Per due notti, venerdì e sabato. I prezzi in quel periodo erano più contenuti. Lo dimostrava la pace che regnava attorno a loro: non era una stagione particolarmente amata dai vacanzieri. Novembre era un mese umido, ventilato, piovoso.

Quel pomeriggio l'isola era accarezzata da una nebbia lieve. In qualche modo rendeva il paesaggio ancora più bello e ancora più maestoso. Sembrava di essere ai confini della Terra. Sembrava che il mare stesse evaporando lentamente, un fenomeno a cui veniva spontaneo assistere con timore reverenziale.

Avevano lasciato le mura sicure della casa di Brema per dirigersi lì, sempre più a nord, e a ogni passo ne valeva sempre di più la pena, come se si stessero apprestando a scoprire segreti riguardanti non solo la natura ma anche l'essere umano. Dopo tanto tempo, un luogo che Sonne non poteva controllare, che lo accoglieva da straniero. Come la prima volta nell'Ovest e la prima volta ad Amburgo, ed entrambe le volte era stato solo.

Quella volta invece gli facevano compagnia le voci squillanti di Richard e Verena, che si richiamavano l'un altra all'aria aperta, senza aver paura del rumore delle onde, né di quella brezza che non aveva origine da nessuna parte e somigliava a un soffio vitale, a un respiro ancestrale.

Verena corse tanto e poi tornò da loro, con il fiatone e le guance arrossate, e voltava la testa a scatti verso ogni particolare che attirasse la sua attenzione. Anche nella desolazione di novembre lei si lasciava incantare. Le graminacee ingiallite sulle dune alle loro spalle oscillavano al vento, la nebbia si addensava al declinare del giorno. Se fossero rimasti su quella spiaggia per tutta la notte, alla fine li avrebbe avvolti in una coltre di velluto, e forse li avrebbe fatti sparire.

Richard si allontanò da lui per accendersi una sigaretta, parando l'accendino dal vento con una mano. Verena si tolse sia scarpe che calzini, si arrotolò i jeans fino al polpaccio e si bagnò i piedi a riva. Presero a passeggiare tutti e tre, uno a fianco all'altro e lei che reggeva le scarpe per i lacci, facendole dondolare pigramente. Si stavano inebriando di quella calma che era anche fermento. Niente affatto cupa, nonostante il paesaggio mesto. Si strinsero nei cappotti, e sorrisero, ognuno tra sé, per poi ricercare lo sguardo degli altri due.

Non incontrarono nessuno.

La spiaggia pianeggiante, liscia eccetto per le loro impronte, si estendeva per chilometri ed era avida del loro camminare. Non sapevano quanto si fossero allontanati dal punto di partenza quando decisero di comune accordo di fare una sosta sedendosi a contemplare l'orizzonte.

Sonne al centro, Richard alla sua destra e Verena alla sua sinistra. Sonne allungò le gambe nella sabbia e guardò la nebbia che si plasmava sul mare, provando a individuare il punto in cui si toccavano. Il cielo era nascosto e i colori si erano tutti mescolati. L'aria era diventata di un colore tra il violetto e l'indaco, come un nontiscordardime. Gli venne in mente Der Wanderer über dem Nebelmeer (5), icona del Romanticismo tedesco. L'uomo che si perde nel sublime, umile di fronte a ciò che è infinito e ben più grande di lui. L'uomo che sa di star indagando, in realtà, se stesso, la propria anima. Riflettere sulla propria condizione lo porta ad avvicinarsi al divino, ad unirsi al divino, ciò che ammira, che gli ha dato la vita e che infine lo distruggerà. Chi è l'uomo e chi è Dio.

La sigaretta di Richard si stava consumando. In quel paesaggio il fuoco non avrebbe potuto imporsi in alcun modo. Il mare e la nebbia e il vento erano più forti, avrebbero acquietato qualsiasi fiamma. Così Sonne ignorò il bagliore rosso che balenava ogni volta che Richard faceva un tiro, e gli domandò: «Posso finirla?»

Richard rimase con la sigaretta a mezz'aria e lo fissò per qualche secondo con le sopracciglia inarcate. «Ho capito bene?»

«Presumo di sì.»

Verena spuntò con la testa accanto alla sua spalla. «Dici sul serio? Fumi?»

«Fumavo, un tempo» rispose lui, un po' divertito dal loro sconcerto.

«Non ci credo... hai rotto il cazzo a me per tre mesi quando sei stato anche tu un fumatore! Sai bene che è qualcosa a cui non si può rinunciare.»

«Io ci ho rinunciato, a un certo punto.»

«Beh, allora niente sigaretta per te.»

«Su, Richie, non essere così scortese» lo richiamò Verena. Poi gli fece l'occhiolino. «Magari se ricomincia a fumare sarà più tollerante anche con te a casa.»

«Ok, ok, te ne accendo un'altra. Contento?»

«Veramente volevo solo fare un paio di tiri» ammise lui, affondando ancora di più le mani nel cappotto.

Richard alzò gli occhi al cielo con un sospiro e gli piantò la sigaretta, ormai corta, tra le labbra. Le sue dita erano fredde. Fu come se le avesse baciate, anche perché stava posando la bocca esattamente dove prima la teneva lui, sul filtro. C'era qualcosa di erotico in quel gesto, ma cercò di non soffermarcisi troppo.

Il suo non era vero e proprio desiderio di fumare. Non era il tabacco a mancargli, bensì il rituale, il momento che rappresentava nelle sue giornate, all'università, tra le pause dallo studio e dalla scrittura. Era l'unico modo in cui il suo corpo riuscisse a rilassarsi, a risultargli meno pesante, come se il fumo ne smussasse la carne. Non era mai stata una dipendenza. Non quello. L'astinenza che provava era molto diversa, un pizzicore sui polpastrelli, le sue dita che smaniavano per far scattare la rotella di un accendino. Il solo suono era sempre stato un godimento.

Aveva conservato la memoria muscolare per fumare. L'atto, aspirare e rilasciare, era ancora automatico, insolitamente familiare. Malgrado ciò percepì, dopo quasi sei anni, una certa resistenza da parte del fumo che non sembrava voler andare giù, fin nei polmoni. Richard e Verena lo guardavano. Notarono il distendersi delle sue spalle, i fardelli che lo abbandonavano, con un semplice tiro di sigaretta.

Richard immerse le dita nella sabbia umida al suo fianco, grattando e scavando distrattamente, incurante dei granelli che gli si infilavano sotto le unghie. Poi si stese di fianco, reggendosi con un gomito, e diede loro le spalle. «Non guardate» disse.

«Che stai facendo?» gli chiese Verena.

Ricevette risposta dopo una manciata di secondi. «Ecco.» Si scrollò la sabbia dalla mano ripulendola sui jeans.

Sonne e Verena si affacciarono oltre il suo busto per scoprire in che tipo di opera si fosse dilettato. Un'opera molto semplice, tutto sommato: i loro tre nomi incisi uno sotto l'altro, Richard Verena Sonne, in stampatello maiuscolo.

«Wow, un capolavoro» lo prese in giro lei.

«Guarda che ci metto un attimo a cancellarti.»

Sonne sorrise distogliendo lo sguardo e puntandolo di nuovo sul mare, sulle onde che per poco non arrivavano a lambirgli le suole delle scarpe, per poi ritirarsi con uno scroscio. Con la coda dell'occhio scorse che anche Richard stava sorridendo, di un sorriso molto più ampio del suo. Reagiva con estremo entusiasmo al suo buonumore, come se fosse tutto ciò che voleva, vedere Sonne sorridere.

Quella scritta lo spinse a fare altre considerazioni. Richard Verena Sonne, Sonne Verena Richard. Anche senza verbi aveva la potenza di un'affermazione. Era tutto sottinteso, eppure lampante. Tre segni sulla terra fredda come su una pagina, testimonianza del loro passaggio. Un segno è una traccia. Un significante, ciò che c'è scritto; un significato, il concetto; un referente, l'oggetto nello spazio. In quel momento erano seduti accanto ai loro nomi, in una perfetta triangolazione linguistica, tra leggibile e visibile. Non c'erano tranelli o ambiguità: erano un tripudio di chiarezza, di senso, di esistenza, di presenza.

L'odore di salsedine gli pizzicava le narici. Sonne finì presto la sigaretta e la spense nella sabbia.

«Mi farei volentieri un bagno... Se solo l'acqua non fosse così fredda...» disse Verena.

«Se vuoi fare una follia io ci sto» la spalleggiò Richard. «Un tuffo e poi risaliamo.»

Sonne non guardò nessuno dei due in particolare, nel ribattere: «Il mare mi sembra un po' agitato.»

«Hai paura che ci risucchi?»

«E vi ammalereste.»

«Allora ti preoccupi per noi.»

«Vi sto soltanto avvisando. Potreste tornare qui d'estate, quando il clima sarà più caldo.»

Richard sghignazzò. «Senza te che ci guardi non sarebbe la stessa cosa.»

Sonne si zittì. Era sicuro che quelle provocazioni sarebbero soltanto peggiorate con il proseguire della vacanza. Stava pensando a un modo per farle smettere, e tutto ciò che gli veniva in mente lo stuzzicava, in modi diversi. Doveva ammettere che l'idea di sorprenderli era allettante.

«Ha ragione» lo assecondò Verena, velandosi d'un tratto di una dolcezza malinconica. «Mi fa tanto piacere che tu sia qui.»

Sonne le rivolse lo sguardo, studiò attentamente il suo viso. Lei era di profilo, era ipnotizzata dal mare, aveva il cappotto blu abbottonato fino al mento, e nelle sue pieghe vi sfregava il naso, ogni tanto. Si strinse le ginocchia al petto con entrambe le braccia, come presa da un sentimento di nostalgia e struggimento per qualcosa che neanche riusciva a comprendere, di Sehnsucht (6).

«Anche a me» decise di rispondere. Perché era vero. Era una verità semplice da pronunciare.

Verena si voltò, rivelando gli occhi lucidi. Gli sorrise e poi gli posò un velocissimo bacio sulla guancia, proprio all'angolo delle labbra. Sonne resisté all'impulso di sfiorarsi con le dita il punto esatto in cui l'aveva baciato.

Anche Richard era stupito. «Wow. Sembra che il mare stia portando un po' di sincerità.»

A quella frase lei s'incupì. «Già. Perché non facciamo un gioco?»

«Di che tipo? Seppelliamo Sonne nella sabbia lasciandogli soltanto la testa fuori?»

«No» fece Verena. «È una sciocchezza, davvero. Stavo solo pensando che c'è l'atmosfera perfetta per... per dire qualcosa che non abbiamo avuto l'occasione di dire prima. Con la certezza di non ricevere alcun giudizio in risposta. Potremmo farlo a turno.»

«Oh, ok... Chi comincia?»

Ci fu il silenzio.

Era paradossale che tra loro ci fosse, in quel momento, una volontà di apertura, di svelamento, ma che nessuno dei tre si azzardasse a fare il primo passo. Sonne si rese conto che erano ancora l'uno per l'altro un enigma irrisolto, uno scrigno sigillato. Pensò a cosa avrebbe potuto dire di sé e, irrigidendosi, comprese che non avevano ancora il diritto di conoscere certe parti della sua vita.

«Va bene, ce l'ho, parto io» sospirò Richard. Verena gliene sembrò grata. «Sono... credo di essere felice. Qui ma anche in generale. Ho trovato un lavoro, una casa, una ragazza fantastica... Sono ottimista, forse per la prima volta nella mia vita. Mi andava di dirlo ad alta voce. Per il resto... sono limpido come l'acqua, cazzo, a differenza di voi due che fate tanto i misteriosi.»

Sonne sentì il petto riscaldarsi, in recondite cavità che non venivano sfiorate da tempo. Non bruciore, ma calore. Era rincuorato dalla felicità di Richard: era così genuina da essersi infusa un po' anche dentro di lui. Il pericolo che Sonne percepiva incombere sempre alle sue spalle... su quell'isola pareva essersi dileguato, come se la nebbia che si alzava gli avesse bloccato il passaggio. Nessun'ombra, nessun turbamento avrebbe dovuto toccarlo. La sua felicità andava salvaguardata.

«Richie...» mormorò Verena, intenerita.

«Ah! Avevi detto niente risposte. Tocca a te.»

«Ok.» Si morse il labbro inferiore, prima di parlare, e fece una lunga pausa. «Inizio dicendo che mi dispiace. Ho fatto passare troppo tempo, avrei dovuto parlarvene prima.» Sonne vide che Richard aveva preso a torcersi le mani tra loro. Lo sapeva, che Verena gli teneva nascoste delle cose? Lo accettava? «Io... non frequento la Hochschule für Künste. Non l'ho mai frequentata.»

Altro silenzio.

Richard sbatté le palpebre. «Come sarebbe? E dove andavi tutte le mattine?»

«In giro, senza una meta particolare. Avevo solo bisogno che mi credeste una ragazza meno sbandata di quello che sono. Per questo ho mentito, perché me ne vergogno. Non pensavo che mi sarei legata a voi così, non mi sentivo in colpa a mentire. Ma adesso sì... ogni giorno è peggio. Mi dispiace tantissimo... spero che questo non vi faccia cambiare completamente idea su di me.»

Sonne si rabbuiò, a quella confessione. Serrò involontariamente le labbra. Sospettava fin dall'arrivo di Verena che lei stesse celando qualcosa, che dovesse esserci molto più di quello che raccontava. Anche nel momento in cui stava dicendo la verità non la stava dicendo del tutto. Gli ricordò quanto poco si fidasse di lei, ancora.

Da un lato, però, non poteva biasimarla. Anche lui era pieno di segreti che non avrebbe mai rivelato. Potevano dunque costruire a partire da quel presupposto? Ignorare il passato l'uno dell'altra per vivere il presente?

Almeno Verena aveva parlato. Apprezzare la sua sincerità, la sua vergogna, il suo arrendersi all'affetto che provava per loro, gli richiese meno sforzo di quanto avrebbe immaginato.

Richard si mise in piedi e prese a camminare davanti a loro, nervoso. «Al diavolo la regola delle risposte. Dici che ti vergogni di essere una ragazza sbandata... e io cosa dovrei dire, scusa? Non ho mentito a Sonne o a te solo perché non avevo un lavoro.»

«Ho detto che mi dispiace. E poi... andiamo, Richie, Sonne ti ha accettato come inquilino soltanto perché ti conosceva. Io dovevo convincerlo, in qualche modo. Giuro che non ho mentito su nient'altro.» Si voltò verso Sonne, mortificata, ma anche caparbia nel suo tentativo di giustificarsi. «Mi avresti accettata se avessi saputo che ero una persona senza alcuna direzione... una persona che fugge?»

Sonne non poteva che darle corda. «Non credo. All'inizio non volevo accettarti in generale.»

Verena tirò su con il naso. «Mi caccerai, ora?»

Avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto mandarla via per mille ragioni.

«No.»

«Grazie» rispose lei, flebile.

Richard fissò Sonne, confuso. Sembrava indeciso tra il tirare un sospiro di sollievo e arrabbiarsi. Anche lui sapeva che appena uno o due mesi prima la risposta sarebbe stata assolutamente diversa. Senza aggiungere altro, tornò a sedersi accanto a lui sulla sabbia, facendosi d'improvviso taciturno.

Sonne sperava che quella scoperta non avesse minato la sua felicità.

La sua trasparenza – era vero, era una sua caratteristica – era ammirevole e perfettamente contrapposta all'opacità di Verena. Ecco perché, nonostante tutto, Sonne si fidava molto più di lui che di lei. Avrebbe messo di nuovo la propria vita nelle sue mani, senza indugio, Richard avrebbe di sicuro saputo cosa farne. Per questo doveva ristabilire un rapporto di stima, con lui. Ridargli un po' di luce, per quel che poteva.

Si susseguirono altri due o tre minuti di silenzio, sferzato solo dalle onde che si allargavano sul bagnasciuga e si avvicinavano sempre di più a loro, per via dell'alta marea. La nebbia non si diradava, la sabbia gli stava inumidendo i vestiti.

A un certo punto Sonne decise di parlare.

«Io voglio scusarmi con Richard.»

Entrambi si voltarono verso di lui, sbalorditi non solo per ciò che aveva detto. Stavano dando per scontato che Sonne non avrebbe partecipato al gioco.

«Per... per cosa?» tentennò lui.

«Lo sai per cosa.»

Richard rimase con la bocca socchiusa per qualche istante, poi annuì, mormorò uno «Scuse accettate» e tornò a guardare il mare. Non bastò, però, per nascondere a Sonne la lacrima che gli sfuggì, e che subito corse ad asciugare con la manica del cappotto.

In effetti la situazione stava acquisendo qualcosa di commovente, per motivi che potevano essere compresi solo a un livello intimo e profondo, attraverso la contemplazione.

Sonne li aveva legati entrambi a sé. L'idea lo confortava incredibilmente. Considerando il potere che poteva esercitare, stava scoprendo che tenerli stretti gli dava più soddisfazione del respingerli. La strofa finale di quel componimento spettava a lui. Permettere a Verena di restare, di insediarsi in lui, e a Richard di coinvolgerlo nella sua felicità, nella sua libertà.

A pochi secondi di distanza, entrambi poggiarono la testa sulla sua spalla, uno a destra e una a sinistra. Da lontano dovevano apparire come una scultura di sabbia, fatta di un corpo centrale e due estensioni laterali. Uno che era anche tre.

Sonne quasi tremava. Era strano avere non una ma ben due persone così vicine. Oltre che al loro contatto, doveva abituarsi alle emozioni turbolente che suscitavano in lui. Una parte di lui intendeva ancora ritirarsi e tornare alla propria vita intorpidita, sicura, sempre uguale a se stessa. La stessa parte di lui che si chiedeva: cosa sto facendo?

Non sapeva che nome dare al vincolo che lo stava unendo a Richard e Verena. Nessuno esterno a quella dinamica avrebbe capito, e in ogni caso non importava. Erano soli, nel loro mondo, un mondo in cui poteva essere ristabilito cosa fosse convenzionale e cosa no.

Una sola parola sarebbe stata di troppo. Era passato anche il momento delle confessioni e dell'assoluzione. Restava la beatitudine, da assaporare in mezzo alla foschia prima di ascendere.

Un raggio di luce candida d'un tratto squarciò il cielo. Il manto di nebbia non lo ostacolò, lo rese solo un po' fumoso.

Sonne rabbrividì.

Era come se qualcuno, dall'altra parte, stesse puntando una torcia su di loro.

Temette che fosse un'allucinazione, per la singolarità del fenomeno, e gli tornò in mente quella volta in cui aveva creduto di vedere il Sole dove non c'era.

Ma Richard raddrizzò la testa e assottigliò lo sguardo, attirato dalla stessa visione, allora capì di non essersela immaginata.

Verena invece si strinse di più a lui. Lo prese sottobraccio e nascose leggermente il volto nella sua spalla, perché all'apparenza quella luce che stava scivolando su di loro la infastidiva o addirittura la spaventava.

Per qualche istante rimasero tesi, tutti e tre.

Poi la luce sparì e restò solo la nebbia.

Sonne si stropicciò gli occhi con le nocche. Gli venne spontaneo domandarsi cosa ci fosse al di là. Se la nebbia separava, custodiva, loro erano all'interno. All'interno di uno stadio di vita, un tempo diverso da quello esterno. Chissà cosa sarebbe successo se avessero deciso di attraversarla per raggiungere quella luce sconosciuta. Passare da dentro a fuori, o da fuori a dentro.

Cominciò a ripetere la parola "nebbia" tra sé, sulla lingua senza pronunciarla, finché non ebbe più alcun significato: Nebel, Nebel, Nebel. Una nasale che ostruisce, due vocali chiuse, un accenno di morbidezza sulle labbra con la B e infine la liquida L che spinge di nuovo la parola in gola. Aveva un bel suono.

Ebbe un'intuizione.

Rimescolando le lettere si rese conto che Nebel al contrario si leggeva Leben. Non ci aveva mai fatto caso. Nebbia e Vita. Due concetti tanto diversi che coesistevano nella medesima articolazione di suono, specchio l'uno dell'altro.

Da una parola si schiudeva l'altra. In tedesco non si poteva parlare di nebbia senza nominare anche la vita. Una peculiarità affascinante, senza dubbio.

Sonne pensò che avrebbe potuto farci qualcosa.

Si ricordò che era proprio il consiglio che gli aveva dato Verena un paio di settimane addietro: capovolgere tutto ciò che sapeva, guardare le cose da una nuova prospettiva.

Lì, sulla spiaggia di Sylt, un universo di possibilità gli si spalancò di fronte.

Richard e Verena lo osservarono insieme a lui, finché non cominciò a fare buio.




Quella notte il vento ululava e gemeva contro le finestre.

Avevano cenato fuori, nella vicina frazione di Westerland, la più turistica dell'isola ma quasi deserta in quel periodo, in un ristorante dall'aria informale che serviva pesce fresco. Richard e Verena avevano bevuto due o tre calici di vino, ma l'avevano retto bene. Era solo servito affinché si ristabilisse la pace tra loro due e ricominciassero a ridere e scherzare come al solito.

Quando rientrarono nella casa, l'estraneità che la caratterizzava li lasciò smarriti per qualche minuto. Non si erano affatto ambientati. Sonne muoveva passi incerti tra una stanza e l'altra, sul parquet scricchiolante. Una volta uscito dal bagno, pronto per andare a dormire, si diresse in quella che avevano deciso sarebbe stata camera sua, ma scoprì che Richard e Verena l'avevano preceduto approfittandosi della sua assenza.

Non avevano nemmeno acceso la luce, così l'unica fonte luminosa proveniva dal corridoio, dalla porta aperta.

Indossavano ancora i vestiti con cui erano usciti: un abito corto a salopette lei, con sotto delle calze spesse e uno dei suoi maglioni informi, e dei jeans a vita alta lui, un dolcevita nero e qualche collana a pendergli sul petto. Frugavano in giro, chiacchieravano gioviali, si punzecchiavano eccitati come due bambini prima di metter piede in un parco giochi. Almeno non si erano messi a guardare anche dentro il suo borsone, che aveva appoggiato su una sedia di vimini.

«Voi due non sapete proprio cosa sia lo spazio personale, eh?»

Richard lo ignorò e si gettò a braccia spalancate sul letto. «È più comodo del nostro, non è giusto.»

Verena lo imitò. Si lanciò addosso a lui, causandogli un lamento di sofferenza, ma anche un risolino strozzato. «Sì, confermo. Molto comodo.»

Sonne incrociò le braccia, mentre li fissava dall'alto. «Volete cambiare stanza?»

«Mmh questa in effetti ha la vista sul mare» considerò lei. «Ed è anche più grande.»

«Vero. Noi siamo in due e lui è da solo.»

«Potevate dirmelo prima» sospirò Sonne. «Vado a dormire di là, a questo punto.»

Fece per uscire, ma Richard lo fermò chiedendogli: «E se decidessimo di seguirti?»

«Allora sarebbe una persecuzione.»

«Se vuoi chiamarla così...»

Sonne si sostenne con una mano allo stipite della porta e rivolse loro un'occhiata pungente. «Dovete darmi un buon motivo se intendete perseguitarmi.»

Richard ricambiò lo sguardo, sfrontato. «Il piacere di romperti il cazzo va bene come motivo?»

«Io non voglio darti fastidio» disse Verena con un sorriso sornione, poggiando il mento sul petto dell'altro. «Voglio solo la tua compagnia.»

Per un paio di secondi, in attesa di una replica da parte di Sonne, quello del vento fu l'unico suono udibile. Lugubre, forte, li avrebbe accompagnati per tutta la notte. Poi si aggiunse quello della maniglia della porta: Sonne la chiuse, con lui, Richard e Verena all'interno. Non li avrebbe fatti uscire, se era quello che volevano.

Rimasero al buio.

Sonne accese un lume dalla luce fioca sul comodino e vide che adesso loro due lo guardavano con uno sguardo diverso, più consapevole. Avevano capito che qualcosa era cambiato, nell'atmosfera e nella persona che avevano davanti.

Era giunto il momento, per lui, di dimostrare che poteva prendersi ciò che desiderava. Di smetterla di subire le loro provocazioni e prendere le redini di ciò che avevano cominciato settimane addietro senza mai avere il coraggio di portarlo a termine.

Sonne detestava non concludere le cose iniziate.

Aggirò il letto e fu di nuovo di fronte a loro. C'era una certa severità nella sua affermazione successiva. «Bene. Se volete stare qui dovete fare qualcosa per me, in cambio.»

Non era uno scherzo. Giocare con le sue regole significava anche prendere il gioco con la massima serietà, in modo che tutte le parti coinvolte fossero disposte a sacrificare anche se stesse.

Verena si alzò a sedere, le gambe piegate di lato e fasciate dai collant, gli occhi accesi di una nuova luce. Una spallina della salopette le era scivolata sul braccio. «Che cosa?» Anche Richard si mise seduto, ma non disse nulla. Il suo silenzio, un silenzio d'eccitazione, era più eloquente di mille parole.

«Un'altra... esibizione, chiamiamola così» rispose Sonne. «Non eravate qui per questo? State facendo allusioni da giorni.»

Richard e Verena si scambiarono un'occhiata. «Beh, in realtà...» cercò di dire lei, ma non continuò la frase.

«Aspetta... quindi vorresti solo guardare?» chiese lui.

«Sì. Posso mettermi qui, la postazione mi sembra perfetta.»

Spostò appena la poltrona imbottita che c'era in quella stanza, così che fosse esattamente di fronte al letto, e vi si sedette con flemma, stendendo i gomiti sui braccioli, accavallando una gamba. Alle sue spalle, un'ampia vetrata che affacciava sulla spiaggia, da cui si poteva osservare il mare infuriare insieme al vento. Le tende erano rimaste aperte. Richard e Verena avrebbero fatto sesso davanti a lui e davanti alla tempesta che stava arrivando.

Poté quasi percepire tutti i loro sensi attivarsi, come se stessero rilasciando feromoni dalla pelle, dai polsi tremanti.

Ma indugiavano. Il fatto che la richiesta fosse partita da Sonne li aveva scombussolati, e ora sembravano aver persino dimenticato da dove si cominciasse.

«A te va?» domandò Richard all'orecchio di Verena, sottovoce, anche se lui lo sentì lo stesso. Non c'era nulla che adesso non potesse sentire o guardare, si stava impadronendo di ogni loro sussurro e di ogni loro più piccolo movimento.

Lei annuì.

Questo entusiasmò enormemente Richard. «Ok.» Si voltò verso Sonne. «Così... così stiamo bene?»

«Mettetevi in ginocchio sul materasso.»

Loro ascoltarono subito quella richiesta e si riposizionarono sul letto, sgualcendo le coperte. Si muovevano con un po' di impaccio, cosa che Sonne non si aspettava, ma che lo intratteneva ugualmente. Il modo in cui reagivano al suo sguardo era forse l'aspetto migliore. Sonne era parte attiva tanto quanto loro, anzi, la sua influenza aveva un peso di gran lunga più significativo in quella circostanza.

Si misero uno di fronte all'altra, ma continuavano a tornare con gli occhi su Sonne, per accertarsi che fosse davvero lì presente, e poi presero a ridacchiare sotto i baffi, a discutere sul tipo di posizioni che avrebbero dovuto mettere in scena per fargli avere la migliore visuale possibile dei loro corpi. Stavano temporeggiando, ancora.

E lui attendeva, tamburellando le dita sul bracciolo della poltrona.

Fu Verena a baciare Richard per prima. La più impaziente era lei. Lo tirò per una collana e premette la propria bocca contro la sua. Lui le afferrò le natiche per attirarla a sé, così che i loro petti aderissero. Si baciarono con veemenza, ma senza fretta, seguendo con le teste una danza ondeggiante. Richard scese poi a leccarle il collo, una scia rapida dalla clavicola al lobo dell'orecchio.

Sonne non si scompose, all'inizio. Era capace di tenere a bada l'eccitazione che si stava accumulando. Così com'era capace di spegnere i propri sentimenti, da sempre.

«Spogliatevi» disse loro.

Richard e Verena sorrisero l'uno sulle labbra dell'altro. Ci misero poco per sfilarsi i vestiti di dosso. Il gesto che più lo colpì, che gli rimase ben impresso, fu lui che le sfilò le calze, lentamente, come per scoprire poco a poco le gambe toniche su cui si erano modellate, fino alla curva sinuosa dei piedi. Quando le sfilò anche il maglione, i suoi capelli assunsero una forma diversa, più spettinata.

Gli abiti finirono in un mucchio sul pavimento, compresa la biancheria.

Tornarono in ginocchio sul letto. Abbracciati, come una statua greca di due giovinetti, Verena lo teneva per i gomiti e Richard per i fianchi. Completamente nudi.

Sonne cercò di imprimersi quell'immagine nella memoria. Lo guardavano e lui li guardava. Aspettavano un suo nuovo cenno, anche se gli sarebbe piaciuto che rimanessero così per sempre, immobili e privi di vita al pari di un'opera d'arte, a disposizione della sua estasi per l'eternità.

In lontananza, le onde si rovesciavano sulla spiaggia.

Onde differenti si propagavano nella stanza.

«Ti piace quel che vedi?» gli chiese Richard, stavolta con un accenno di innocenza.

Sonne tentò di restare impassibile, di non tradire in alcun modo quanto quella visione stesse decostruendo e ricostruendo la sua idea di bellezza. «Non ho ancora visto abbastanza.»

Richard, che avrebbe preferito crogiolarsi nell'ammirazione di Sonne, sembrò un po' deluso dalla risposta, tanto che in lui spuntò un sintomo di aggressività. Strinse un seno di Verena, come a volergli ricordare di avere l'onore di toccarla, a differenza sua. Dopodiché riprese a baciarla in uno slancio, facendole perdere l'equilibrio. Cadde stesa sul materasso, perpendicolarmente rispetto a Sonne.

«No» disse lui. «Fa' mettere lei sopra.»

Verena rise piano. «Su, accontentiamolo.»

Richard invece finse di sbuffare. «Vuole guardarti il culo, ecco perché.»

Ribaltarono i ruoli, allora, e lei aveva già in mente cosa fare. Qualcosa al limite del pornografico, fatto apposta per essere osservato. Si stese addosso a Richard, ma al contrario, per potergli succhiare il membro e, al contempo, farsi leccare da lui tra le gambe. Richard, la faccia nascosta, le cinse le cosce in una morsa proprio sotto la curva dei glutei, mentre lei, dopo aver spostato la chioma su un solo lato, lo prendeva in bocca per intero. Le sfuggirono dei gemiti soffocati. Iniziò con calma e poi proseguì più energicamente, tanto che un filo di saliva le colò sul mento.

Sonne non si rese conto di aver premuto forte le unghie nei palmi delle mani.

Vedeva tutto ed era una condanna.

Richard e Verena avevano dei corpi meravigliosi, che si flettevano e non si raggrinzivano, che vibravano di energia e non ripugnavano. Era ingiusto. Insieme, l'uno sull'altro, erano l'androgino di Platone che si andava a ricomporre.

Gli era venuta un'erezione.

La cosa peggiore fu proprio fare i conti con il desiderio, un desiderio che aveva conosciuto solo pochissime volte nella vita e mai con un'intensità simile. Era tutto amplificato dall'atto del guardare senza toccare.

Assistere a ciò che gli altri non avevano il permesso di vedere gli conferiva un potere sproporzionato. Non era mai sceso tanto nel privato di una persona. Avrebbe giovato alla sua scrittura. Era sia un privilegio che una perversione. Lo faceva sentire bene, e poi male, e poi di nuovo bene. Ma s'imponeva comunque di non soddisfare il suo corpo – era quella la parte negativa, una particolare forma di masochismo, sapere che non si sarebbe mai concesso di partecipare o mostrarsi allo stesso modo. La masturbazione per lui era sempre stata più un'azione meccanica e svogliata, dettata da una mera necessità fisica, quasi degradante, e il sesso un'attività che non gli era mai interessato esplorare più di quanto avesse già provato, con le persone sbagliate, che non conosceva affatto, che non immaginavano nemmeno perché si rifiutasse categoricamente di spogliarsi.

Richard e Verena dovevano essere preservati più degli altri, da quel punto di vista. Era meglio che con loro proseguisse tutto nella direzione appena intrapresa: loro incorporati l'uno nell'altro e Sonne un estraneo, colui che avrebbe raccontato la loro bellezza ai posteri.

A un tratto Richard si scostò dalle gambe di Verena per dirle: «... aspetta, Reni... Reni, se continui così non resisto...»

Così si staccò anche lei.

Le labbra di entrambi erano umide e gonfie, lo sguardo velato di libidine. Richard si sporse dal letto per recuperare i jeans e il portafogli dalla tasca posteriore, dove teneva un preservativo. Lo scartò e si mise in posizione supina per infilarselo. Verena rotolò al suo fianco, ma lanciando un'occhiata a Sonne.

«Come vuoi vederci adesso?» gli domandò.

Li divertiva interagire con lui.

«Come volete.»

«Dai, diccelo.»

«Di faccia. Voglio guardarvi in faccia.»

Verena fece un sorriso morbido. «Va bene» disse, prima di mettersi a carponi sul materasso di fronte a lui, la schiena inarcata, le dita che cercavano la coperta.

Richard si sistemò dietro di lei, tra le sue gambe, e la penetrò aiutandosi con una mano. La stessa mano che poi fece scorrere lungo la sua spina dorsale. Verena emise un verso basso tra le labbra, corrugò le sopracciglia, ma non chiuse gli occhi.

Entrambi concentrarono tutta la propria attenzione su Sonne e non distolsero mai lo sguardo da lui. Richard sembrava volergli perforare le fronte, mentre iniziava a spingersi dentro di lei, lentamente: quasi usciva tranne che per la punta, per farla abituare.

Sonne se ne stava rigido sulla poltrona, con un'espressione ferrea. Il suo sguardo li sfidava: fatemi vedere. Fatemi vedere fino a che punto riuscite a farmi crollare. E loro parevano rispondere: ci riusciremo, e non resterà più nulla a cui potrai aggrapparti. Richard in particolare riversò in quell'istante gli ultimi residui di rancore nei suoi confronti. Io posso farlo e tu no. Io posso lasciarmi andare e tu no. Aveva un'aria altezzosa, all'improvviso, e con lui i sibili che faticava a trattenere tra i denti. Tornava un angelo, in un momento di lussuria, un essere di gran lunga superiore a Sonne.

I suoi scatti s'intensificarono presto, causando un rumore di pelle tra le loro cosce. Il viso di Verena fu sommerso dai capelli, che le erano finiti anche in bocca, ma gli occhi no, gli occhi erano puntati su di lui, implacabili, e spiccavano nonostante la penombra.

L'erezione gli pulsava nell'inguine e Sonne si sforzava di ignorarla, di non toccarsi. Sapeva che loro avevano notato il rigonfiamento nei suoi pantaloni, che avrebbero voluto insistere per includerlo a tutti i costi, ma negarglielo, negarsi, faceva parte del potere che deteneva. Era anche una rivincita, in qualche modo. Privarli di ciò che più bramavano.

Proseguirono per un po' in quella posizione, ma a un tratto Verena si separò da Richard. Scese dal letto e avanzò di qualche passo verso Sonne.

«Dove vai?»

Lei non rispose.

Sonne, istintivamente, si appiattì ancora di più con la schiena contro la poltrona. La vide in tutto il suo splendore, alta, snella, agile e nuda, con un ciuffo di peli sul pube e peli più corti che le ricrescevano sotto le ascelle. Il movimento dei suoi fianchi era quello di un felino, di muscoli elastici. Anche la sua voglia era animale, come se fosse nata e cresciuta in una foresta e non avesse imparato nient'altro che la selvatichezza. Un modo diverso di concepire la fame, la sopravvivenza, l'affettività e l'amore.

«Verena» pronunciò con voce roca. Non sapeva se fosse un'ammonizione o un richiamo.

Verena si avvicinò, ancora, finché non gli sfiorò le gambe con le proprie. «Posso stare qui?»

«Qui?»

«Qui vicino a te.»

Intanto si era accostato anche Richard. Senza essersi messi d'accordo lo stavano inchiodando lì alla poltrona. Nell'istante di silenzio che seguì si accorsero che fuori era cominciato a piovere, per via degli schizzi che battevano contro il vetro, sospinti da quel vento tagliente.

Andò via la luce.

Via, la sua possibilità di osservare.

Ma Verena non si arrese, non adesso. Si appoggiò con un ginocchio alla poltrona, si abbassò e gli ghermì il volto per baciarlo. Sonne dovette dire addio in quel momento, in minima parte, all'autocontrollo. Non guardare era peggio. Si baciarono spalancando la bocca, bisognosi come non mai di quel contatto, arrabbiati per le cose che si erano fatti e che avrebbero continuato a farsi. Le strizzò i fianchi attirandola a sé, lei rovinò su di lui, con la sua carne nuda, che Sonne poté finalmente stringere, stringere con l'intento di ferire, e premere, come per ficcarla dentro di sé a forza, per farla sparire.

«Richard...» invocò Verena, voltandosi solo per un secondo.

E Richard entrò di nuovo in lei, spingendola ancora di più contro Sonne. Posò le mani proprio dove le teneva lui, sui fianchi di Verena, sulle sue, e le loro dita s'intrecciarono. Dita lunghe e dinoccolate, dita ruvide e callose. Lei calò il volto sul collo di Sonne, abbracciandogli la testa, e i suoi ansiti gli giunsero direttamente nei timpani, in sinergia con il rumore violento del mare.

Sonne poggiò le labbra sulla sua spalla e cercò lo sguardo di Richard nel buio. Pur non trovandolo, sapeva che era lì, che era il più disperato tra i tre.

«Sei sicuro... di non voler... unirti...?» chiese, a ritmo con i suoi colpi di bacino. «Guarda che... è più...», ma non riuscì a continuare la frase, perché Sonne gli infilò un pollice in bocca.

«Stai zitto» gli intimò.

Richard avrebbe potuto morderlo, ma non lo fece, anzi obbedì. In compenso, la sua voracità aumentò. Sonne riconobbe l'energia che tanto ammirava manifestarsi nella sua espressione più essenziale.

Il desiderio si fece doloroso. Fino all'ultimo non lo soddisfò. Cos'altro era? Un castigo per se stesso. Si stava facendo bastare il calore del loro corpo, che in alcuni punti era persino bollente. Riscoprì il senso del tatto, tanto a lungo sottovalutato, l'udito, l'olfatto. Verena, tra le sue braccia e quelle di Richard, stava fremendo di adorazione.

E Sonne con lei.

Si scatenò una reazione a catena.

Verena venne in uno spasimo che le fece tremare le gambe e Richard subito dopo, al culmine della sua foga. Sonne, invece, sentì come una lacerazione nel cranio, come se ne volesse fuoriuscire qualcosa, un'improvvisa fitta al centro esatto della testa. Un altro tipo di orgasmo, o un vero orgasmo. Sentì il cavallo dei pantaloni bagnarsi di un fiotto denso.

Richard e Verena rimasero accasciati su di lui per qualche altro secondo. Sonne li tenne stretti a sé, respirandoli, abbassando le palpebre. Una parte di lui voleva continuare a possederli.

Era tutto diventato reale.

Se qualche mese prima gli avessero detto di poter far parte di qualcosa di così straordinario non ci avrebbe creduto. Non aver più bisogno di immaginare perché gli si era presentato davanti qualcosa di meglio dell'immaginazione.

Che bisogno c'era di continuare a cercare l'ispirazione altrove?

La sua ispirazione erano loro.







(1) Republikflucht significa letteralmente "fuga/diserzione dalla repubblica". Nella DDR è stato un reato, punito con il carcere fino a tre anni, dal 1957 fino alla caduta del Muro (1989). Nel periodo compreso tra questi anni, non si poteva emigrare se non in casi eccezionali. Generalmente si sperava in permessi speciali temporanei (che richiedevano una lunga trafila burocratica di mesi e non sempre venivano concessi), ad esempio per questioni familiari urgenti, per poter visitare la Germania dell'Ovest.

(2) Das Überkind ("L'Oltrebambino") è una sorta di gioco di parole a partire dal famoso concetto di Übermensch ("Oltreuomo"), considerando che la preposizione "über" indica un attraversamento.

(3) Romanzo del 1929, in italiano "Emilio e i detective".

(4) "Scintillio".

(5) "Viandante sul mare di nebbia", dipinto di Caspar David Friedrich (1818).

(6) Non so se avete mai sentito parlare di questa parola magnifica, ma vi incollo la spiegazione tratta da Wikipedia perché mi sembra molto esaustiva: Sehnsucht è una parola-chiave dello spirito romantico tedesco, che incarna un concetto tipico della cultura romantica, reso in per lo più con il termine "struggimento". Deriva dall'antico alto tedesco "Sensuht", nel senso di "malattia del doloroso bramare" e indica un desiderio interiore rivolto ad una persona o una cosa che si ama o si desidera fortemente. Questo stato d'animo è direttamente collegato al doloroso struggimento che si prova nel non potere raggiungere l'oggetto del desiderio.







Note d'autrice:

Ciao a tutt*, non sono morta! Purtroppo è stato un periodo davvero devastante per me a livello di impegni ed energia mentale richiesta: questo era un capitolo importante, ed ecco perché è arrivato così in ritardo. Spero di essermi fatta perdonare, però, con queste 8.5k parole (credetemi se vi dico che non avevo mai scritto qualcosa di così lungo). Trovo anche carino pubblicarlo oggi che, idealmente, sarebbe il compleanno di Verena ♥

Come vi avevo anticipato, con questo capitolo finisce la prima parte di NEBEL, intitolata appunto Licht, "Luce". Ciò cosa vuol dire? Che dal prossimo capitolo ci sarà qualche cambiamento, soprattutto per quanto riguarda la direzione della storia. Sono felice di essere arrivata a questo punto e non vedo l'ora di mettermi in gioco con le nuove vicende. Ma non voglio anticiparvi altro. 

Il prossimo aggiornamento, tra qualche giorno, consisterà appunto di una piccola parte contenente delle citazioni (fondamentali per l'interpretazione della storia, vi ricordo u.u) così come ho fatto con Licht. Scommesse sul titolo della seconda e terza parte? Lol
Il capitolo 17 arriverà tra un paio di settimane, visto che devo dare ancora un esame prima di ritornare attiva con la scrittura.

Il titolo di questo capitolo, Von Licht geheilt, significa salvato dalla luce. Qui la luce indica sia ciò che rappresentano Richard e Verena per Sonne, sia la luce di cui si parla a metà capitolo e che ogni tanto ritorna. 

Mi dispiace aver inserito così tante note a fine capitolo, ma le ritenevo fondamentali. Mi auguro sempre che tutto il background tedesco non vi annoi e che anzi vi incuriosisca!

Detto ciò... spero che vi sia piaciuto. Io ne sono piuttosto provata, ci sono stati parecchi passi importanti (per il senso dell'intera storia, come la questione NEBEL/LEBEN... a proposito, ecco perché il titolo è tutto in maiuscolo, perché mi serve che possa essere letto in entrambi i versi) che mi hanno dato non poco filo da torcere. E nulla, lunga vita alla Sorenard (?)!

A presto e grazie per aver letto fin qui ♥

(Un grazie enorme va all* bryncell* del mio cuore per l'immenso supporto di queste settimane.)


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