XVII. Sonne, Blumen, Laken

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N E B E L

XVII.

Sonne, Blumen, Laken



Dopo mesi era tornato il sole.

Nel tepore di luglio, la pelle di Verena si lasciava sfiorare dai suoi raggi accogliendoli con un senso di benessere e le palpebre socchiuse. Il naso le si era leggermente arrossato e sulle spalle erano spuntate delle lentiggini, minuscole chiazze che Richard e Sonne non rinunciavano mai a baciare. Quella piccola metamorfosi era dovuta al suo indossare sempre e solo canotte dalle bretelline sottili senza mettere un velo di crema protettiva prima di uscire.

Anche quella mattina, a lavoro, non indossava altro che una canotta bianca e dei pantaloni larghi di stoffa. Stava sistemando i vasi di fiori fuori dal negozio, sotto il tendone a righe, che era l'unica cosa a farle ombra. L'insegna posta al di sopra diceva in caratteri eleganti: Blumen&Blätter.

Verena lavorava per un vecchio fioraio nel quartiere di Schnoor, August Zimmermann, dallo scorso dicembre. Zimmermann aveva imparato a fidarsi di lei a tal punto che spesso le affidava il negozio per giorni interi, soprattutto quando aveva delle visite mediche programmate. Era una persona sola, di salute cagionevole, ma sempre solare, e considerava i fiori tutto ciò che gli fosse rimasto. Non aveva mai trovato nessuno, aveva detto una volta, che avesse così tanta empatia con i clienti come lei e che procurasse loro esattamente ciò che desideravano, superando persino le aspettative. Di solito lasciava che Verena si occupasse delle composizioni e dei bouquet, mentre il giovanissimo Gabriel, nipote di sua sorella, delle consegne. Per il periodo natalizio, che era stato il suo periodo di prova e anche quello più florido di turisti, aveva realizzato così tante confezioni di vischio da averne perso il conto. Ma aveva colpito il fioraio proprio per la sua infinita voglia di fare, oltre che per la sua creatività. I clienti che avevano imparato a conoscerla adesso chiedevano sempre di lei, dei suoi coloratissimi mazzi decorati da carta crespa, reti, nastri di seta e organza, perline e fasci di vimini.

I fiori in primavera e in estate davano il meglio di sé. I petali su cui ora si posavano i suoi polpastrelli, di bouganville e petunie, erano carnosi come delle labbra, e attiravano decine di api.

Intorno alle undici una cliente sulla quarantina giunse a ritirare il mazzo di rose rosse che aveva prenotato per il marito in occasione del loro anniversario. Verena glielo consegnò personalmente, applicando con una molletta un bigliettino vuoto che poi la donna avrebbe riempito con una dedica.

«Sono meravigliose, la ringrazio» le disse mentre cercava il portafogli nella borsa. «Sa, quest'anno ho pensato: perché devo aspettare che mio marito mi compri dei fiori? Stavolta glieli regalo io!»

Verena la assecondò sorridendo. «Ha fatto benissimo. Lo stupirà di sicuro!»

Quella conversazione le fece venire un'idea.

Aspettò l'ora di pranzo per chiudere il negozio e mettersi dietro il bancone da lavoro a maneggiare margherite, gelsomini, lavanda, nastri e fil di ferro.

A opera compiuta si affrettò per tornare a casa. In sella alla sua bici, una campagnola dal rivestimento celeste, percorse le strette viuzze di pietra del quartiere medievale, superando le facciate delle ridenti case a graticcio dai tetti appuntiti e notando a che velocità la zona si stesse pian piano svuotando per l'orario. Lo stava imparando: in tutta la Germania le pause erano sacre tanto quanto il lavoro. Accelerò senza rendersene conto, e così il suo cuore pulsante di gioia, come ogni volta che il pensiero tornava a Sonne e Richard.

Era felice, ora che c'era il sole più che mai.




Al terzo piano del 124, Sonne le aprì la porta.

«Salve. Mi chiamo Verena Hartmann, ho una consegna per...» recitò, tendendogli con entrambe le mani la corona di fiori che aveva creato, avvolta da una plastica trasparente e chiusa all'estremità dal nodo di un nastrino giallo. Ma Sonne la attirò a sé per un fianco, con il suo solito sorriso quasi invisibile ma visibilissimo per lei, e le posò un veloce bacio sulla bocca.

«Ti stavamo aspettando. Dov'eri?»

«A preparare questa.»

«Ed è per Richard, immagino.»

«Vedremo a chi sta meglio...» disse Verena. «Ha cucinato lui?»

«Purtroppo sì.»

«Ok, forse avrei fatto meglio a tornare prima.»

«Vi sento, stronzi!» giunse la voce dell'altro, di cui, dall'arco tra le due stanze, spuntava solo la zazzera bionda accorciata da poco – ma mai sopra le orecchie, così che potesse ancora attorcigliarsi le ciocche intorno alle dita.

Appoggiò la corona di fiori sul tavolo basso in salotto. La cucina era un disastro. Sonne e Verena, lei ancora con la borsetta di cuoio a tracolla e lui con le braccia conserte, fissarono Richard affaccendarsi per riempire i piatti, condire le verdure per il contorno e pulire il casino che aveva combinato con il sugo per gli spaghetti, tutto contemporaneamente. Sfrecciava da un angolo all'altro del mobilio mentre con una mano continuava l'azione precedente, senza guardare. In quel caso: rigirare la pasta appena cotta con un mestolo dentato.

«L'hai assaggiata?» gli chiese Verena, gettando un'occhiata furtiva all'interno della pentola.

«Ovviamente sì. Vi fidate troppo poco di me.»

«Richie, è che... lo sai, senza di me non sopravvivreste a lungo.»

Richard fece un verso beffardo. «Siamo sopravvissuti per anni senza di te.»

Verena raccolse con l'indice il rivolo di salsa che gli era schizzato sulla maglietta, per poi leccarlo. «Era vita, quella?»

«Sonne?» lo chiamò, allora, cercando un alleato. «Il verdetto spetta a te. Se sono buoni come minimo mi merito un premio.»

«L'abbiamo già, il premio» rispose lui. «Verena ti ha fatto una corona di fiori.»

«Veramente non ho detto per chi l'ho fatta...»

Richard estrasse il mestolo dalla pentola e glielo puntò contro con uno sguardo deciso. «Perfetto. Non importa. Sarà mia.»

Sonne, subito dopo, sbarazzò il tavolo dagli utensili e dai fogli fitti di frasi che aveva lasciato lì. Da quando aveva ricominciato a scrivere non c'era luogo in cui non portasse una penna e qualcosa su cui prendere appunti. Non c'era un attimo in cui lasciasse il suo romanzo da solo. Doveva tenerlo d'occhio come un bambino che ha appena imparato a camminare, ma che ancora cade in giro per casa e perciò rischia di farsi male.

In realtà scriveva sempre chiuso a chiave in camera sua, con la macchina da scrivere di suo nonno Walter. Non si era mai deciso a comprare un computer. Però si portava gli ultimi fogli dovunque, per rileggerli ogni due per tre e aggiungere commenti o note a margine, perché dovunque gli venivano nuove idee.

Era cambiato, dal fine settimana a Sylt. Stava cambiando davanti a loro istante dopo istante, si stava facendo a pezzi davanti a loro, per poi riassemblarsi. La sua era una smania che non poteva essere colta dallo sguardo: non provocava tremori, nervosismo, modifiche lampanti nel suo solito comportamento composto. Ma Richard e Verena avevano imparato comunque a vederla. E a innamorarsene. Era quello il Sonne che avevano sperato di portare alla luce, la persona per cui avrebbero fatto qualunque cosa.

Non lo disturbavano mai quando scriveva. Continuava a essere un momento privato, per lui, in cui nessuno doveva metter bocca. Per questo, dopo dieci mesi, non erano ancora mai entrati nella sua stanza. A volte ci scherzavano su («Non ci nascondi dei cadaveri, vero?» era l'insinuazione preferita di Richard), altre volte era stato motivo di discussione – non erano esenti ai litigi, com'era giusto che fosse nella quotidianità di qualsiasi rapporto. E il loro era ciò che di più importante avessero mai avuto. Se ne rendevano conto già da un po', senza timore, senza stupore. Quei tre nomi sulla sabbia l'avevano sugellato: Richard Verena Sonne, dove a dispetto dell'ordine non c'era un primo e non c'era un ultimo, dove i nomi diventavano qualcos'altro e sostituivano ciò che un nome non ce l'aveva.

Il loro legame. Vivissimo, indefinibile, in perenne rinnovamento.

Non si erano più separati dopo quella notte a Sylt. A dire il vero, non si erano mai separati da quando si erano incontrati. Era merito dell'appartamento e della convivenza, ma non solo.

Richard e Verena erano penetrati così facilmente nel tessuto della casa. Ormai, fatta eccezione per il covo dello scrittore, ne conoscevano ogni anfratto e ogni particolarità, dalle schegge sui mobili alle macchie di umidità sulle pareti. Le erano diventati fedeli e mai l'avrebbero tradita. Verena la ringraziava ogni sera prima di andare a dormire, con un gesto che le era diventato spontaneo, un piccolo rito: spegneva l'interruttore della luce con una mezza carezza e sorrideva al buio, con una mano posata al centro del petto, all'altezza del cuore. Si ritrovava spesso a pensare: qui è proprio dove dovrei essere. Non voglio mai più scappare. Solo tornare, tornare ogni giorno.

E anche se dal suo passato scappava ancora, aveva smesso di sentirsi in colpa. L'aveva lasciato dietro un portone sprangato, così che né lei né Sonne e Richard potessero rimanerne intaccati. Via, via per sempre. Rendere invisibile, muto, inavvicinabile. Non ne avrebbe mai più parlato. Se non lo nominava, il passato non ricompariva, come un animale in cattività molto ben addestrato. Era una filosofia che avevano adottato anche Sonne e Richard, con la sua stessa intensità. Erano tre persone nuove che volevano godersi il presente: un presente da cui si librava soltanto una grande, casta felicità (1).

Chi altro doveva ringraziare, per quel dono?

Sonne, che l'aveva accolta in casa? Suo padre per averla messa al mondo e Dio per averla salvata?

Finalmente c'era il sole.

(Grazie, grazie, grazie, chiunque tu sia!)

Era sempre stata una ragazza grata.

Si sedettero a tavola, Richard le porse un piatto colmo fino all'orlo, con un ghigno di sfida. Verena intravide il luccichio del premolare d'argento che si era fatto impiantare qualche mese prima al posto di quello mancante. Né lei né Sonne, che lo considerava di cattivo gusto, ricordavano come gli fosse venuta quell'idea. Ma Richard era fatto così. Da un po' aveva in mente di farsi un altro tatuaggio, dedicato a loro tre, come Verena sospettava. Aveva sempre in testa un'immagine di sé che doveva assecondare. Finché avesse avuto la possibilità di arricchire il suo corpo avrebbe continuato a farlo, tra abiti e accessori, tatuaggi e trucco.

Una volta aveva provato a convincere Sonne a mettersi l'ombretto nero. O meglio, l'aveva supplicato. «Ti prego, saresti il mio sogno erotico divenuto realtà!» Al suo rifiuto, gli era saltato sulla schiena e si era avvinghiato a lui con le braccia e con le gambe, tralasciando le sue proteste e facendosi trascinare per tutto il salotto, cosa che aveva fatto scoppiare a ridere Verena. «Non so se sei più un gattino appiccicoso o una scimmietta.» E Sonne: «Io direi più un rompicazzo.»

Con la forchetta si portò una manciata di spaghetti alla bocca. Richard attendeva il suo responso. Masticò lentamente, pazientemente, un lavoro di denti e mascelle per spezzettare per bene la pasta scivolosa.

«Sono buoni» disse, dopo aver inghiottito. Sonne confermò con un cenno del capo.

Richard esultò alzando un pugno in aria.

La verità era che Verena avrebbe amato qualsiasi cosa prodotta dalle loro mani.

Era per questo che non vedeva l'ora di leggere il romanzo di Sonne. Sarebbe stato in grado di commuoverla fino all'ebbrezza, ne era già consapevole. Poter toccare con gli occhi il frutto della sua preziosissima mente, di anni di creazione. C'erano momenti in cui si sentiva morire di curiosità. Era impaziente di scoprire fino a che punto i due mondi fossero separati, la sua vita e la sua immaginazione; di schiudere, come da una cassaforte, la parte più inaccessibile di lui; di capire se tra le sue parole avrebbe trovato non solo qualcosa di sé che nella quotidianità aveva abilmente celato, ma anche qualcosa di loro due, Verena e Richard, verità profonde e impossibili da raggiungere senza il mezzo della scrittura, verità che lui avrebbe messo, contro ogni aspettativa, a disposizione di chiunque là fuori. Era a dir poco una contraddizione: trasformava la sua acuta riservatezza in un'elargizione illimitata. Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio romanzo offerto in sacrificio per voi.

Verena ne era quasi gelosa.

Sonne si era rifiutato di parlargliene nel dettaglio. Si avvaleva della facoltà di mostrare con orgoglio la propria opera solo quando sarebbe stata ultimata. Aveva solo detto, qualche giorno addietro, di aver superato abbondantemente la prima metà. Il suo agente gli aveva trovato un nuovo editore, di gran lunga più entusiasta del precedente e persino più prestigioso. Quando aveva ricevuto la telefonata decisiva, per tutta la durata della conversazione Verena e Richard gli avevano stretto la mano.




Richard e Sonne tesero il lenzuolo pulito tra loro con un colpo di polsi, il che produsse un suono simile al battito d'ali di un grosso volatile.

Prima ancora che potessero piegarlo, Verena vi si fiondò sopra, abbandonando i propri capi del bucato sulla poltrona. I due le ressero il gioco, sollevandola da terra come se fosse su un'amaca, allora lei lanciò uno strillo divertito, e rimise subito i piedi a terra. Risero, prima che Verena strappasse loro il lenzuolo dalle mani e lo indossasse come un mantello. Fece una piccola corsa intorno al divano, con Richard alle calcagna.

«Se non me lo dai te lo ripieghi da sola!» disse lui, mentre si reggeva con una mano la corona di fiori per non farla cadere, dal momento che gli calzava un po' piccola. La teneva in testa dal primo pomeriggio e aveva detto che se la sarebbe tolta solo per andare a lavoro.

Verena, a quelle parole, si scostò il lenzuolo dalle spalle, lo gettò addosso a Sonne e vi si avviluppò con lui, come se potesse essere un rifugio, come per farsi proteggere. «Quando la smetterete non sarà mai troppo tardi» disse con un sospiro rassegnato, ma le avvolse comunque un braccio intorno alla vita, e lei lo abbracciò godendosi il profumo di biancheria fresca, che apparteneva anche a lui.

Quando scherzava così con i suoi fratelli e le sue sorelle l'emozione non era altrettanto forte, per nulla paragonabile. Ridevano, sì, rideva soprattutto con Erich e Christa che facevano quell'esatto gioco con le lenzuola, ma poi si ritornava subito alla morbosità, alle grida, all'isolamento, e allora nemmeno i giochi erano in grado di infonderle un po' di sana gioia.

Era felice di poter essere felice per davvero, finalmente.

Dopo ripresero a piegare il bucato, in un'atmosfera frizzante e rilassata al contempo. Richard canticchiava le canzoni dei Nirvana che si levavano dallo stereo, dove aveva infilato la cassetta del loro ultimo album, Nevermind, in attesa di quello che sarebbe uscito a settembre. Il patto era che la musica venisse ascoltata sempre a volume modesto, perché Sonne non sopportava i rumori troppo forti.

Le sue regole non erano svanite, soprattutto quelle relative al fuoco, però in parte si erano ammorbidite per venire incontro alle loro abitudini e alle loro manie. Richard, ad esempio, non riusciva mai a concentrarsi senza un po' di musica, qualsiasi fosse l'attività intrapresa. Era per questo che gli piaceva tanto il Musikant: l'ambiente e la musica erano i motivi per cui non aveva mai pensato di abbandonarlo. I suoi colleghi andavano e venivano, principalmente per pagarsi gli studi, ma lui era rimasto, perché quello stipendio gli bastava, tanto quanto il principio di sregolatezza che faceva intimamente parte della sua identità.

Sia Richard che Verena avevano insistito per pagare a Sonne la quota dell'affitto, ma lui aveva proposto una soluzione più ragionevole, ovvero dividere le spese. Quell'accordo tra loro aveva determinato un cambio di rotta decisivo nella loro relazione. Non erano più subordinati a lui. Nonostante fosse ancora il padrone di casa, adesso la casa era anche un po' loro.

A volte Verena aveva la sensazione che fosse sempre stato così, che loro tre avessero sempre – da sempre – vissuto lì dentro insieme. Non c'era un inizio. Poteva giurare che anche Richard e Sonne pensassero la stessa cosa. Soltanto che Sonne guardava alla questione della proprietà in maniera del tutto diversa: lui adorava l'idea di possedere quella casa, mentre Verena amava esserne posseduta. Il suo corpo era un luogo e i luoghi che la circondavano lo influenzavano inevitabilmente, a partire da quello in cui stanziava. Le smuoveva i pori della pelle, le impregnava i capelli, assorbiva il suo odore e il suo sudore, alterandoli in nutrimenti per sé.

Anche lei aveva delle manie tutte personali che Sonne e Richard non avevano faticato a notare. Dalle più innocenti alle più fastidiose: camminava spesso a piedi nudi, lasciava i vestiti in giro, sistemava il cibo nel frigo e sui ripiani come pretendeva lei, si svegliava nel cuore della notte per andare in bagno e accendeva tutte le luci lungo il cammino, apriva le finestre di primo mattino per far passare l'aria, c'erano momenti in cui le veniva l'impulso di pulire e riordinare tutti gli ambienti e altri in cui non le importava affatto della polvere che si accumulava intorno. Aveva vissuto a lungo in mezzo alla polvere, lei, e se da un lato non vedeva l'ora di liberarsene, dall'altro finiva sempre per circondarsene, cosa per cui sembrava provare un piacere malsano. Alla fine toccava a Sonne, di solito, il compito di ristabilire l'ordine. Richard non era meno caotico, tutt'altro, la superava senza alcun dubbio: non si rifaceva mai il letto, né sistemava la sedia quando aveva finito di mangiare, né rimetteva i piatti a posto dopo averli lavati.

Era ancora un mistero come facesse un maniaco del controllo al livello di Sonne a sopportarli. O forse il loro sodalizio era avvenuto proprio grazie all'equilibrio che si era stabilito tra le loro reciproche differenze.

Dalle lenzuola passarono a piegare le tovaglie che avevano lavato e appena rimosso dall'asciugatrice. Verena guardava Richard e Sonne, guardava come quei grandi rettangoli di stoffa fluttuavano leggiadri in mezzo a loro che ne guidavano le movenze. Pezzi di intimità e pezzi di convivialità, che nonostante ogni lavaggio avrebbero potuto raccontare le storie di tutte le loro notti e tutti i loro giorni, il privato e l'universale. I loro corpi vi s'imprimevano settimana dopo settimana. Una donna e due uomini, nel fiore dei loro anni.

Guardava Sonne e Richard. Li osservava ogni volta che poteva, perché in loro vedeva un potenziale inesploso, una mina pronta a far tremare la terra sotto i piedi, e si chiedeva sempre quale fosse il modo, il punto giusto per attivarla. Avrebbe voluto essere lì quando sarebbe successo. Lo desiderava ardentemente, così tanto che le si infiammavano le guance.

Sapeva da tempo che Richard provava qualcosa per Sonne. Non lo negava neanche più, quando glielo domandava. Non glielo domandava neanche più perché ne soffriva. Era nel suo sguardo, nel suo sorriso, nelle sue mani che lo cercavano. Era evidente persino mentre piegavano il bucato: bastava accorgersi di come gli occhi rimanessero fissi su di lui anche quando s'intromettevano le lenzuola e le tovaglie e gli asciugamani a ostacolargli la vista, svolazzando per qualche istante davanti a loro.

In quei mesi Sonne era diventato molto più affiatato, con Richard, ma non si era mai spinto troppo oltre. Mai un segnale chiaro, mai un bacio durante il sesso, solo vaghe carezze che l'altro attendeva come una dose di droga. Se Sonne gli sfiorava il volto o le gambe, i fianchi, le spalle, la schiena, lui socchiudeva gli occhi mordendosi le labbra – se le mordeva per impedirsi di dire: ancora, ancora, ancora.

Non era un paradosso? Andavano a letto insieme, vivevano insieme, erano felici insieme, facevano tutto ciò che avrebbe fatto una coppia, ma non riuscivano ad amarsi come meritavano.

Era a causa di Sonne, naturalmente. Del blocco con il suo corpo, che nemmeno Verena aveva saputo eradicare. Anche lei doveva limitarsi nel suo amore. Oh, quanto avrebbe voluto avere la possibilità di esprimerlo al massimo della sua fisicità. Spogliare Sonne, sentirlo dentro di sé. Vederlo. La sua pelle le era ancora sconosciuta. Si salvavano il viso, il collo e le mani, le uniche parti che si azzardava a esporre. Se avesse potuto, Verena lo sapeva, avrebbe nascosto anche quelle, perché, con una certa violenza, si rifiutava di essere un corpo. Avrebbe preferito essere altro. Neanche la felicità era in grado di deviare questo orribile bisogno.

Aveva i suoi vestiti tra le mani, in quel momento. Stava selezionando quali dovevano essere stirati e quali no. Magliette a maniche lunghe, felpe, camicie, tutte di colori neutri. Anche d'estate Sonne faceva di tutto per non mostrarsi. Sopportava il caldo, con il ventilatore acceso, e si cambiava fino a tre volte al giorno. Richard e Verena avevano intuito che doveva esserci altro dietro la sua riluttanza alla nudità, ma non sapevano darsi spiegazioni soddisfacenti. Chiedere direttamente a Sonne avrebbe reso tutto più difficile, così finivano per tacere dinanzi alla sua volontà. Su quello non avevano voce in capitolo. Il sesso, per Sonne, significava stare a guardare senza farsi toccare – raramente era lui a toccarli, e Richard doveva accontentarsi delle sue carezze superficiali. Dio solo sapeva cosa avrebbero dato per un suo contatto più profondo.

Verena finì di piegare il proprio carico. Dallo stereo partì Something in the Way, l'ultima traccia dell'album, caratterizzata da un giro cupo di note alla chitarra acustica e un violoncello. Richard le aveva detto che il titolo significava "qualcosa tra le scatole", cioè qualcosa che intralcia. A lui piaceva molto, sebbene fosse più lenta rispetto alle sue preferite.

«Vado a spostare gli altri panni nell'asciugatrice» disse, mentre Sonne e Richard tendevano l'ultimo lenzuolo in aria.

In bagno svuotò la lavatrice, che aveva appena concluso la centrifuga, e si accorse di alcune perdite d'acqua. Passò lo straccio sul pavimento, sistemò il bucato dei colorati dietro l'oblò dell'asciugatrice, azionando i soliti comandi, e poi sentì un fischio basso pungolarle i timpani. Di riflesso, si strofinò con veemenza le orecchie.

Il suono durò qualche secondo, il che le fece pensare che provenisse da uno dei due elettrodomestici, così diede una botta alla lavatrice, e il fischio si interruppe.

Verena uscì di nuovo in salotto.

«Per caso sapete che problema ha la...» fece per chiedere, ma troncò la frase da sola.

Sonne e Richard non c'erano.

I Nirvana continuavano a suonare (It's okay to eat fish, 'cause they don't have any feelings), il lenzuolo giaceva a terra come i resti del costume di un fantasma, insieme ad alcuni petali di margherite.

«Ehi?»

Perplessa, andò a controllare nella stanza di Richard e nella propria, che erano rimaste con la porta aperta. Quella di Sonne, invece, era chiusa a chiave come sempre. Non erano nemmeno lì.

Verena alzò gli occhi al cielo. «Sul serio?» Uno scherzo così sciocco? Non se lo aspettava da loro. Forse da Richard, ma di sicuro non da Sonne. Non si domandò nemmeno dove si fossero nascosti, per non dare loro corda, visto che quel tipo di scherzi non le piaceva affatto. Tornò alla lavatrice per cercare di capire se avesse qualche guasto.

Dopo qualche minuto di attenta analisi, in ginocchio sulle mattonelle, scoprì che la guarnizione dello sportello era lacerata in un punto. Avrebbero dovuto sostituirla al più presto, ma almeno non si trattava di un problema troppo invalidante.

Si lasciò il bagno alle spalle e vide che Richard e Sonne erano ricomparsi ai loro posti, stavolta con il lenzuolo ben piegato.

Incrociò le braccia. «Oh, rieccovi qui, che sorpresa.»

«Lo so, la nostra mancanza è insopportabile» ribatté Richard, afferrando i vestiti e la biancheria che avrebbe dovuto posare in camera sua.

«In realtà... non me lo aspettavo da voi.»

Sonne corrugò la fronte. «Cosa?»

Verena lo guardò. «Da te soprattutto. Vi avviso: non mi piacciono questo genere di scherzi, quelli con lo scopo di spaventare la gente. Non sono divertenti.»

I due per qualche istante non seppero cosa rispondere.

«Ma che scherzo? Quello con le lenzuola? Sei stata tu a iniziare, eh!» disse Richard.

«No, non le lenzuola! Non fate i finti tonti, adesso.»

«E cosa, Reni?»

Ora entrambi avevano le sopracciglia inarcate, e la fissavano.

Verena sentì montare dentro di sé un risentimento che non provava da tantissimo tempo. Odiava che facessero finta di non capire. Odiava essere fatta passare per stupida o pazza. Era qualcosa che non tollerava, non quando i suoi fratelli l'avevano considerata pazza per tutta l'infanzia. La folle bambina che parla con Dio. E Günther era colui che amava di più calcare la mano: «Nostro padre si è fatto intortare il cervello da te, ma io lo so che sei solo una puttanella isterica. Non mi freghi.» Una volta si era messo in testa che faceva entrare degli uomini in casa di notte, a insaputa del resto della famiglia. Lei, che aveva soltanto dodici anni.

«Non dovete prendervi gioco di me» disse serissima, a labbra strette.

Richard sbatté le palpebre. «Si può sapere che cazzo stai dicendo?»

La rabbia non divampò, ma le attanagliò le viscere. Non era solo rabbia. Non era solo delusione. Evitò di aggiungere altro e andò a chiudersi in camera sbattendo la porta, sotto lo sguardo attonito degli altri due.




Calò la sera, la luce scomparve, Verena rimase per ore al buio nella sua stanza.

Se ne stava rannicchiata in posizione fetale su un lato del letto, quasi sul bordo, sveglia, più che sveglia, ma senza la forza di muovere un solo muscolo.

Aveva sentito Richard andare a lavoro e Sonne azionare il forno a microonde, forse per riscaldare gli avanzi del pranzo.

Aveva fame anche lei, ma non sarebbe uscita. Per la prima volta dopo mesi aveva voglia di stare da sola. Sola come quando nemmeno Dio s'intrometteva nella sua testa.

Eppure proprio la persona più solitaria che avesse mai conosciuto non le concesse questa grazia.

Sonne bussò alla sua porta.

«Avanti» disse lei flebilmente, pensando che stesse venendo per scusarsi.

Lui aprì la porta e avanzò piano fino al letto, illuminato dalla luce che giungeva dal salotto, ma anche quasi come se ne possedesse una propria, più calda rispetto a quella di Richard. Si sedette accanto alle sue gambe. Sembrava incerto, ma Verena apprezzò comunque il fatto che si stesse preoccupando per lei, perché di norma non faceva mai il primo passo.

«Credo che ci sia qualcosa da chiarire» cominciò, accarezzandole un fianco.

Lei lo guardò di sbieco. «Sì... ci sono rimasta un po' male.»

«Me ne sono accorto. Cos'è, di preciso, che ti ha fatto rimanere male?»

Non rispose subito. «Sonne... io detesto che mi si faccia passare per pazza» si convinse a spiegare. «Accetto qualsiasi presa in giro, ma non questa, perché mi ferisce profondamente. Pensavo che Richard lo sapesse...»

Sonne non ritrasse la mano, anzi, la accarezzò anche dove la sua pelle sfuggiva alla canotta, ma rimase cauto con le parole. «Non credo che ne avesse intenzione. E nemmeno io.»

«A me è sembrato così.»

«No, semplicemente non abbiamo capito a cosa ti stessi riferendo. Se ce l'avessi detto...»

Verena si alzò di scatto a sedere. «Ancora!»

Sonne si bloccò.

«Ancora fingi di non aver capito?»

«Questo perché non ho capito, Verena.» Lui non la chiamava mai Reni. «Adesso devi spiegarmelo.»

«Spiegarti cosa?»

«Quale scherzo pensi ti abbiamo fatto. Forse hai mal interpretato.»

Non seppe spiegarsi perché, ma il suo cuore prese a battere molto più rapidamente. «Se ho mal interpretato dov'è che siete andati quando sono tornata in salotto? Vi eravate nascosti, eravate spariti!»

Fu allora che Sonne ritrasse il suo palmo, fu allora che smise di infonderle calore. «Non ci siamo mai mossi di lì. Che stai dicendo?»

Verena lasciò andare un verso esasperato. «Smettila! Non è divertente!»

Da parte sua, di nuovo l'espressione di quel pomeriggio, ma infinitamente più tesa. «Non sto scherzando, Verena. Siamo sempre stati in salotto. Calmati e ragiona.»

Ragiona, ragiona, ragiona. Ancora quella maledetta razionalità condiscendente e paternalistica.

Perché, dunque, Verena sentì un brivido serpeggiare lungo la schiena? Cosa c'era di razionale in quella situazione? Lei sapeva benissimo cosa avesse visto e cosa non avesse visto. Ciononostante, non coincideva con la versione di Sonne. Lui, all'apice del rigore logico. Lei, ancora una volta, diversa.

«Sonne, così mi stai mettendo paura.»

Sonne la squadrò stralunato. «No. Tu mi stai mettendo paura.»






(1) Semicitazione dal "Tonio Kröger" di Thomas Mann (1903).






Note d'autrice: 

Buonsalve! Sono tornata entro le due settimane previste, magicamente. Vi avviso già che cercherò di pubblicare il prossimo capitolo entro il prossimo weekend, non essendo chissà quanto lungo. 

Ma bando alle ciance! Vi aspettavate che ci sarebbe stato un salto temporale di quasi un anno? Cosa ne pensate della nuova vita di Verena, Sonne e Richard, della loro relazione ormai consolidata? E riguardo alla scena finale, cosa credete sia successo? Come avevo anticipato, questa è di sicuro la parte più misteriosa della storia... e siamo soltanto all'inizio ♥ Mi raccomando, appuntatevi (mentalmente e non) tutto ciò che vi viene in mente, potrebbe rivelarsi di fondamentale importanza u.u

Il titolo di questo capitolo, Sonne, Blumen, Laken, significa Sole, fiori, lenzuola.

A presto ♥

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