XVIII. Leere Stadt

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N E B E L

XVIII.

Leere Stadt



Con il passare dei giorni provarono a dimenticare l'accaduto. Come si fa con gli eventi inspiegabili che presto o tardi capitano a chiunque nella vita: a un certo punto si cerca di ignorarli, perché si rischia di perdere la testa in cerca di risposte.

Verena non aveva più accennato alla questione.

Richard continuava a pensare che le si fosse instillato una sorta di falso ricordo, cosa di cui aveva sentito parlare anni prima da alcuni compagni di università. Sapeva che il cervello talvolta può ingannare e farti credere a cose che non sono mai successe. Dava per scontato che lui e Sonne fossero nel giusto e lei nel torto, naturalmente. Non aveva mai ipotizzato che anche lei potesse aver ragione a modo suo.

Era una ragazza particolare, Verena. Di una stranezza che lo aveva attirato sin dal primo momento. Lo intendeva come un pregio, l'aveva sempre inteso come un pregio, ma c'era un lato di lei... che compariva solo a intervalli distanti tra loro e che avrebbe fatto impensierire anche la persona più cieca. Non avrebbe saputo dire cosa lo caratterizzasse di preciso – qualcosa nella voce, qualcosa nello sguardo e nelle membra pronte a scattare, qualcosa di... mistico, oscuro? Ma l'aveva rivisto proprio quel pomeriggio di luglio, quando li aveva accusati di essere spariti per scherzo.

Per scherzo.

Non vuole passare per quella folle della casa, ma un po' folle lo è.

Richard e Sonne non erano da meno, tuttavia, c'era da riconoscerlo. Lo scrittore con le sue fissazioni e i suoi silenzi, con il suo complesso mondo interiore, e l'altro con un'iperattività dilagante e una serie di amnesie che lo riempivano di frustrazione: era partito con l'aver dimenticato il motivo per cui si era messo a cercare lo zaino durante l'incendio all'università, era proseguito con il significato dietro i suoi tatuaggi e con altri dettagli della sua vita ad Amburgo, dettagli che avrebbero dovuto essere irrilevanti e che invece lui sentiva di vitale importanza, forse proprio perché li aveva rimossi, persi per sempre.

Era la sua volontà di lasciarsi completamente il passato alle spalle ad aver indotto quella dimenticanza? Avrebbe dimenticato altro, avrebbe continuato a cancellare?

Richard in effetti non sentiva neanche un po' la mancanza di Amburgo. Gli sembrava di conoscere molto meglio Brema, pur essendo arrivato da poco meno di un anno, perché era lì che aveva imparato a conoscere davvero se stesso. Lì che i fallimenti non importavano più. Lì che si era sentito amato davvero per la prima volta nella sua vita.

Poteva passare sopra le amnesie. Poteva gestire i comportamenti altalenanti di Sonne e Verena. Per loro, per sé.

Agosto portò via le incomprensioni. Il caldo umido, gli insetti che s'intrufolavano dalle finestre aperte, le passeggiate di giorno e di sera tardi, in una Brema dai colori diversi, più vivi, che in quel periodo aveva visto un susseguirsi di spettacoli, manifestazioni e festeggiamenti d'ogni tipo, dallo scudetto del Werder Bremen al teatro itinerante nei parchi, tutti eventi a cui Richard, Verena e Sonne avevano assistito insieme. Per strada lei stringeva la mano a entrambi. I passanti ogni tanto li guardavano, bisbigliavano, e ogni tanto Sonne sembrava sul punto di ritrarre la mano, ma poi non lo faceva mai. Camminavano a piedi, perché nessuno di loro aveva la macchina, due su tre neanche la patente, ma era sempre un'attività rigenerante, capace di risolvere qualsiasi conflitto. Non a caso, il giorno dopo l'incriminato pomeriggio di luglio erano usciti a prendere una boccata d'aria lungo il Weser, e pian piano tutto era tornato come prima, alla loro meravigliosa quotidianità.

Casa loro non era solo in Violenstraße, era la città intera.




«Io vado, allora.»

Iniziò come una giornata uguale a tante altre, l'undici agosto. Verena li salutò sull'uscio della porta dell'appartamento, mentre controllava di aver preso tutto, in particolare le chiavi del negozio dal momento che avrebbe dovuto aprire lei, quella mattina. Si era messa un cappello di paglia che la faceva sembrare una ragazza di campagna, l'unico rimedio, a sua detta, per evitare di bruciarsi ancora di più il naso già arrossato.

«Buona giornata» le augurò Sonne dal suo lato del divano. "Suo" perché si sedeva sempre allo stesso posto, all'angolo destro. Lui era già tornato dall'abituale corsa mattutina, si era lavato e cambiato con una camicia di lino pulita, e ora sfogliava alcune pagine del suo manoscritto con aria assorta. Aveva alzato lo sguardo solo per ricambiare il saluto di Verena, a cui lei aveva risposto di nuovo sventolando la mano.

Richard invece si era appena svegliato. Un po' sudato nel proprio pigiama, diede a Verena un bacio sulla guancia e poi andò a sedersi accanto a Sonne.

La porta si richiuse con un tonfo.

Ecco uno dei suoi momenti preferiti della giornata: quando restava da solo con lui. Senza l'influenza di Verena entrambi si trasformavano leggermente e il loro rapporto si colorava di sfumature diverse, incomprensibili e piene di potenziale. Lei era felice di lasciarli l'uno nelle mani dell'altro.

«Non fai colazione?» gli chiese Sonne senza smettere di leggere.

«Dopo, dopo. Devo ancora riprendermi. Ho dormito uno schifo.»

«Non è una novità... hai un ciclo del sonno terribile.»

Richard si stese sul divano, mettendo i piedi sulle gambe dell'altro, che gli lanciò un'occhiata.

«Mi fai un massaggio?»

«No.»

«Ma a Verena li fai.»

«I suoi piedi non sono brutti come i tuoi» ribatté, un vaghissimo sorriso di scherno sulle labbra.

Lui, con un verso tra il divertito e l'indispettito, gli fletté le dita di un piede vicino alla faccia e, approfittando dell'attimo di distrazione, con le dita dell'altro afferrò due o tre fogli dalle sue mani e li tirò a sé.

«Richard!» esclamò Sonne, provando ad agguantarli di nuovo e piegandosi un po' su di lui, ma Richard li allontanò subito dalla sua portata con un braccio.

«Posso leggerli, vero?»

«No.»

«Non ti hanno insegnato che il lavoro si divide, compagno Sonne?»

«Vuoi scrivere tu il romanzo al posto mio?»

«Se solo sapessi di cosa parla...» sospirò Richard. Fece per leggere la prima pagina, ma a quel punto Sonne si sollevò su un ginocchio e si allungò per sottrargliela con uno strattone. Si ritrovò a sovrastarlo senza volerlo, ed era ciò che Richard aveva intimamente sperato. Se fossero stati in una commedia romantica, avrebbe preso l'iniziativa e si sarebbe sporto per baciarlo, certo di una reazione positiva e di un lieto fine.

Invece Sonne era... Sonne.

Lo guardò negli occhi solo per un istante, poi si rimise a sedere e si ricompose. Però non si lamentò più dei suoi piedi in grembo.

Piombarono in un clima rilassato e gradevole, complice la calura ancora tollerabile del mattino. Sembrava che nulla al mondo sarebbe potuto andare storto. Dalla cucina giungeva il profumo di un dolce alle mele che aveva preparato Verena. Richard si sarebbe assopito volentieri: magari il suo corpo era fatto per dormire di giorno e non di notte, baciato dal sole.

Che metafora del cazzo.

Sonne rileggeva le proprie parole e Richard lo guardava, con un braccio dietro la testa. Gli piaceva la sua espressione concentrata, gli occhi fissi sull'oggetto dell'analisi, le sopracciglia aggrottate, il modo in cui la bocca si stirava o veniva inumidita dalla punta della lingua, le ciocche di capelli neri che gli cadevano di tanto in tanto sulle tempie e che lui scostava solo dopo un po', con un movimento veloce della mano.

Un altro punto su cui amava concentrarsi, le mani altrui. Quelle di Sonne erano grandi, i palmi un'insieme di colline di carne nelle quali erano scavate linee sconnesse. Richard sapeva che, per quanto la conformazione possa essere diversa, nel palmo di tutti gli esseri umani si forma una sorta di grande M dove le linee si incrociano, ma non in quello di Sonne. Sembrava che ognuna di esse andasse per conto suo, e che qualcuno gliele avesse incise apposta così per renderlo meno umano, per marchiarlo come essere altro. Ma in realtà erano solo altri pezzi di lui che si rifiutavano di venirsi incontro. Il risultato complessivo non era dissimile da un quadro cubista; non come se fosse osservato da prospettive diverse, ma come se l'attrito con la realtà avesse plasmato su di lui forme e spigoli curiosi, un tentativo fallito di smembrarlo, separarlo dalle sue singole parti. Allo stato attuale era impossibile ricomporlo con criterio.

Non c'era giorno che Richard non gli guardasse le mani. L'unica parte di lui a cui poteva aspirare, una delle poche esposte. Erano grandi, spesse, ruvide. Le unghie pallide e tagliate cortissime, le nocche larghe, i polpastrelli un po' schiacciati, i pollici agili perché abituati a battere a macchina, le vene sporgenti sul dorso.

Si faceva del male da solo, a bramarle su di sé.

Richard odiava che alla fine Verena avesse avuto ragione sui suoi sentimenti. Si era ripromesso a lungo di non cascarci, perché sapeva che sarebbe stata una dannazione continua. Rincorrerlo. Provocarlo. Pregarlo silenziosamente. Accontentarsi delle briciole.

Il vecchio Richard come minimo gli avrebbe dato un pugno se avesse saputo che stava inseguendo una persona come Sonne, così agli antipodi da lui, oltre che inavvicinabile. Ma il nuovo Richard avrebbe provato lo stesso a spiegargli quanto ciò, vivergli accanto, nonostante tutto, lo facesse stare bene.

Anche lui contribuiva al benessere di Sonne. Senza Richard e Verena non sarebbe tornato a scrivere tanto presto. Se lo ripeteva con orgoglio ogni volta che poteva, perché fino a qualche mese prima aveva creduto di essere solo capace di arrecare danni alle persone, di essere un disastro ambulante.

Il tempo scorreva placido, ma Sonne sembrava sempre più perso nei propri pensieri. D'un tratto abbandonò il braccio di lato, facendo afflosciare i fogli, e voltò la testa verso Richard.

«Come ti sembra che stia Verena?»

«Uhm, bene, credo. Meglio. No?»

«La vedo più tranquilla» annuì Sonne tra sé, come se volesse darsi una conferma da solo, per rassicurare entrambi. «Dopo quella sera ho temuto che stesse per avere un crollo nervoso o qualcosa di simile. A volte le donne sono...»

«Non continuare questa frase, ti prego.»

«Volevo solo dire "imprevedibili".»

«Ok, questa te la passo. Non lo so se tutte le donne lo sono, ma lei di sicuro sì» sospirò Richard. «A volte si può dire quasi che sia un bene, altre invece...» Si interruppe. C'era qualcosa che si muoveva nell'angolo tra le due pareti di fronti a lui, in alto. Aguzzò la vista e vide che erano due piccoli ragni neri appena usciti dall'arco della porta della sua stanza.

«Invece?» lo esortò Sonne.

«Cristo, ma in questa casa c'è un'invasione!»

L'altro si girò per guardare nella sua stessa direzione. «Se vuoi dopo spruzzo un po' di insetticida.»

«Credimi, per quanto cerchi di ucciderli, ne compaiono sempre di nuovi. Un giorno di questi me li ritrovo in bocca mentre dormo.»

Il discorso su Verena cadde nel vuoto, anche se Sonne sembrava voler aggiungere dell'altro, ma qualcosa l'aveva fatto desistere.

Forse era a causa dei ragni, ma Richard cominciò a pensare che in quella tranquillità, a dire il vero, ci fosse qualcosa di irreale, di fuori posto, però non riusciva a capire cosa. Dalle finestre della cucina, nonostante non affacciassero a est, arrivava un fascio di luce sfolgorante e tagliente. I mobili erano illuminati in ogni minimo dettaglio e proiettavano le loro ombre definite intorno, come se l'ombra fosse l'esatta copia dell'oggetto. Sarebbe stato interessante, considerò Richard, vedere una fotografia di quella scena, ma al negativo. Una realtà capovolta.

L'aria si sarebbe potuta frantumare come un cristallo, nelle sue infinite particelle.

Accadde con un urlo.

Richard si tirò a sedere di scatto, tendendo l'udito. Proveniva da lontano, troppo lontano, ma l'aveva sentito lo stesso. Un urlo femminile. Veniva dalla strada?

Corse in cucina per affacciarsi a una delle finestre e controllare, sperando di non farsi accecare da tutta quella luce.

«Cosa c'è?» domandò Sonne.

«Hai sentito?»

In strada pareva non esserci alcun trambusto particolare, solo il solito pacato viavai di persone e mezzi di trasporto.

Tornò in salotto, confuso, e si apprestò a sedersi di nuovo sul divano, quando la voce di Verena irruppe forte e chiara nella sua testa.

Aprite la porta!

Richard e Sonne si guardarono. Stavolta aveva sentito anche lui. «È già tornata?»

«Perché non bussa come le persone normali?» si chiese piuttosto Richard, quasi stizzito e incapace di chiedersi qualunque altra cosa, tra cui perché la voce non sembrasse affatto provenire da dietro la porta dell'appartamento. Andò ad aprirla personalmente, tirando con un gesto brusco la maniglia verso di sé.

Rimase imbambolato per qualche secondo.

Lei non era lì.

Non c'era nessuno.

La schiena gli si irrigidì, non solo i muscoli ma anche la spina dorsale, le terminazioni nervose. Nemmeno la sua mente riuscì a reagire a quell'assurdità.

Richard? Sonne?

Di nuovo la sua voce, inconfondibilmente la sua voce che li chiamava. Sonne, agitato come mai prima d'ora, prese ad aprire le porte delle altre stanze per controllare se Verena si stesse nascondendo, e Richard non riusciva a fare altro che restare fermo lì a fissare il vuoto. L'avevano vista uscire, non poteva essere in casa.

Vi prego, vi prego... datemi un segno...

Una voce disperata che veniva soffocata dalle lacrime.

Richard si voltò terrorizzato verso Sonne, che era appena spuntato dalla camera di Verena. La sua espressione atterrita non lo confortò.

«N-non è lì?»

«No. Vado a cercarla» rispose Sonne sbrigativamente, afferrando le chiavi che teneva nel cassetto di un mobiletto accanto all'attaccapanni.

«Aspetta... vengo con te.»

«No. Stai qui nel caso dovesse tornare.»

Richard non fece in tempo a protestare e Sonne non fece in tempo ad andarsene, perché Verena comparve in quel momento dalla sua stanza. Da dove lui era appena uscito. Comparsa, sì, era il termine giusto, come da una di quelle porte girevoli dei centri commerciali, da uno scomparto diverso dal loro, in uno spicchio diverso di esistenza. Adesso si incontravano di nuovo dopo essere stati separati da un'anta invisibile.

Aveva i capelli scarmigliati, il viso contratto dal pianto, e non indossava più il cappello di paglia. Si bloccò per un solo istante, quando li vide, quando vide la sua salvezza davanti agli occhi, per poi fiondarsi addosso a entrambi.

«Grazie a Dio, grazie a Dio» non faceva che ripetere tra i singhiozzi, artigliandosi alla camicia di Sonne e alla maglia di Richard. Sonne si lasciò cadere di mano le chiavi, che finirono sul pavimento con un suono metallico. Si era immobilizzato.

Per un po' nessuno dei due riuscì ad articolare parole di senso compiuto, solo a tenere tra le braccia il corpo tremante di Verena.

Sonne si separò per primo e tornò a sedersi sul divano con un palmo avvinghiato al petto, ad altezza del cuore, e un po' di affanno.

«Stai... stai bene?» domandò Verena con un filo di voce.

Richard si mise le mani nei capelli e cominciò a girare in tondo per la stanza. Non avrebbe mai pensato di poter raggiungere un picco simile di angoscia nella sua vita. «Ci manca solo che ti venga un infarto, cazzo.» Una volta Sonne gli aveva accennato che sospettava di avere problemi di cuore, come pressoché tutto il lato materno della famiglia.

«Sto bene. Devo un attimo calmarmi» rispose lui tra i denti, chiudendo gli occhi per non guardarli. Inspirò ed espirò profondamente un paio di volte. Non era chiaro se stesse cercando di dissociarsi o di tornare alla realtà.

Aspettarono che si fosse ripreso prima di parlare.

Fu lui a domandare: «Verena... cosa è successo?»

«Non lo so.» Non poteva esserci altra risposta. «Sono uscita in strada e... non c'era nessuno

Richard incrociò le braccia, per fermare le mani che di stare ferme non ne volevano sapere. «In che senso nessuno?»

Anche Verena stava cercando di calmarsi. Si asciugò le lacrime con le nocche, rintracciò lo sguardo prima dell'uno e poi dell'altro per trovare un punto stabile non solo all'esterno, ma anche dentro di sé. «Che la città era... deserta. All'inizio ho pensato che ci fosse qualche sciopero di cui non ero a conoscenza o che ne so, ma più mi addentravo nelle strade più mi rendevo conto... che non c'era anima viva. Non c'erano rumori. Nemmeno nei negozi, anche se erano aperti. C'ero solo io. Mi sono spaventata tantissimo.»

Sonne la guardava con il viso paralizzato in un'espressione tirata. Non disse niente.

«E poi?» la incitò Richard.

«Sono corsa subito indietro. È stato istintivo. Volevo tornare a casa. Soltanto che... quando sono risalita...» Senza volerlo, ricominciò a piangere sommessamente. «Non c'eravate neanche voi... e mi sono chiesta se magari sono io a far sparire le persone...»

Richard la strinse a sé di slancio, posandole una mano sul capo. «Ma cosa dici!»

«Mio padre... mio padre è sparito da un giorno all'altro... forse è colpa mia...»

«A noi sembrava che tu fossi sparita» sottolineò Sonne, ancora seduto sul divano, come se non avesse la forza di alzarsi. «E poi ti abbiamo vista uscire dalla tua stanza senza averti mai visto varcare la porta di casa.»

«Sono... sono andata in stanza per vedere se eravate lì...»

Verena parve avere un'intuizione in quel momento. Sciolse l'abbraccio di Richard e andò in cucina, esattamente come aveva fatto lui prima, per affacciarsi a una finestra. Vide ciò che aveva visto anche lui: persone, mezzi di trasporto, vita cittadina che si srotolava lungo una calda mattinata di agosto. Indietreggiò sconvolta.

«Sto impazzendo?» si chiese, qualcosa che forse non avrebbe voluto chiedere ad alta voce. Un dubbio che s'insinuava nella sua certezza preferita: essere sana di mente. Avere l' esistenza nelle proprie mani.

Sonne si alzò solo allora. L'abbracciò di schiena, lui, senza premere troppo. Verena sembrò diventare più molle, di argilla non ancora modellata. «Se stai impazzendo tu, stiamo impazzendo anche noi.» Avrebbe dovuto avere un tono più rassicurante, ma in realtà fu severo come non lo era da tempo, a dispetto dell'abbraccio. Era quasi un'accusa. Stai facendo impazzire anche noi.

«Già» gli diede corda Richard, ignorando quell'aspetto. «Abbiamo sentito la tua voce.»

Verena si voltò verso di lui con gli occhi sgranati e ancora lucidi. «Cosa?»

«Ci stavi chiamando, no? Hai detto: aprite la porta, datemi un segno... cose del genere.»

«Io quelle cose non le ho dette... cioè, le ho solo pensate... Mi avete sentita davvero, tutti e due?»

«Sì.»

Sonne la liberò, così che potessero fronteggiarsi tutti e tre, guardarsi nella loro interezza, alla ricerca di una verità. Non sapevano cosa fosse vero, non sapevano a cosa credere, ma potevano ancora credere l'uno nell'altro.

Non ebbero il coraggio di farsi altre domande.

Prima delle stanze vuote, poi una casa vuota, e infine un'intera città vuota, svuotata. Richard, con grande terrore, sentiva che non sarebbe stata l'ultima volta.






Note d'autrice:

Rieccomi! Che dire... il mistero si infittisce. Devo ammettere che le vostre teorie dopo lo scorso capitolo sono state davvero molto varie e interessanti, chissà come si arricchiranno dopo questo qui, chissà se cambierete idea o se le vostre tesi personali saranno avvalorate. Non esistate a farmelo sapere, sono curiosissima! 

Il titolo, Leere Stadt, significa città vuota.

A presto ♥

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