XIX. Ich fühl mich wohl in deinem F̶l̶e̶i̶s̶c̶h̶ Gehirn

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N E B E L

XIX.

Ich fühl mich wohl in deinem F̶l̶e̶i̶s̶c̶h̶ Gehirn



Perché io?

Era il suo pensiero più frequente in quei lunghi giorni d'agosto. Le domande erano tante, ma il chiodo fisso di Verena era sempre lo stesso. Aveva persino cominciato a chiedersi cosa volesse dire io. Prima di ogni cosa: chi era Verena.

Era diventato terribile guardarsi allo specchio. I suoi occhi non sembravano più i suoi occhi. La sua pelle non sembrava più la sua pelle, più opaca e pallida. Era come guardare una persona nuova, doversi abituare ad essere una persona nuova, una carta da gioco finalmente scoperta con una mossa rischiosa, flip. Finora era stato visibile solo il retro di lei. E qualcuno l'aveva girata, trascinandola sul tavolo prima di rivelarla, una mano invisibile di un Dio invisibile che si divertiva a giocare con lei e con la realtà, che non chiedeva il permesso.

Era questo che mi attendeva da tutta la vita?

Una Verena... così?

Era cambiata, dopo la sparizione – non le venivano in mente altre parole per riferirsi al fenomeno. La vecchia lei godeva della propria ignoranza, la nuova lei era cosciente che ci fosse qualcosa che non andava, dentro e fuori la sua testa. Si metteva davanti allo specchio della sua stanza e per minuti interi stava a tastarsi e pizzicarsi la faccia, i fianchi, le gambe, fino a lasciarsi dei segni rossastri nella carne. Non c'era una parte di lei che era stata risparmiata.

Non era l'unica ad essersi accorta del cambiamento. Sonne e Richard avevano iniziato a guardarla in modo diverso. Il loro sguardo oscillava tra la preoccupazione e il sospetto, entrambi sentimenti che non la aiutavano nel suo personale processo di elaborazione. Si sentiva ancora più in ansia quando la guardavano così. Spesso sobbalzava quando la toccavano, perché stava sempre sul chi vive, a scrutare l'ambiente circostante, in cerca di falle o pericoli.

Ogni tanto doveva ripetersi: sono ancora qui. Sono ancora qui. Si aggrappava disperatamente ai dettagli banali che la circondavano per ricordarsi di non essere sparita di nuovo. Il suo preferito era l'orologio appeso a una parete della cucina, o meglio, il suo ticchettare indolente. Si ritrovava spesso a fissarlo. Il procedere delle lancette la riportava con i piedi per terra.

Ma come avrebbe fatto a capirlo, se fosse accaduto ancora? Quando era successo non c'era stato alcun segnale, alcun avvertimento, né all'andata né al ritorno. Aveva semplicemente sceso le scale del palazzo. Le due realtà erano in continuità, un flusso in cui si era aperta una fessura solo per lei, in cui Verena era entrata senza neanche saperlo.

Era taciturna, in quei giorni.

Pensava e rifletteva senza sosta.

Anche le persone in strada, conoscenti e sconosciuti, i clienti di Zimmermann, tutti sembravano guardarla in modo diverso, come se chiunque si fosse accorto della sua trasformazione.

I petali dei fiori si erano fatti molli tra le sue mani, il cibo prima ancora di metterlo in bocca. Non c'era più solidità. Tutto si stava liquefacendo per farla scivolare via più facilmente.

I dubbi aumentavano con lo scorrere del tempo. Cos'è che poteva definirsi realtà, se tutto cominciava a sembrare finto? E se Günther avesse sempre avuto ragione e lei fosse davvero pazza? E se a suo padre fosse successa la stessa cosa e non fosse più riuscito a tornare indietro? Era sparito letteralmente da un giorno all'altro, dopotutto, aveva sempre pensato che non li avrebbe mai abbandonati così, di proposito. Era stata lei a svegliarsi per prima, quel fatidico giorno, all'alba, a scendere al piano di sotto a piedi nudi e a farsi investire dal silenzio dell'assenza. Non era in camera sua, dove Verena non entrava mai e dove quella volta aveva provato a entrare timidamente con il cuore che martellava nella cassa toracica; non era in nessun'altra parte della casa. Era stata lei, la minore, la prediletta, a rendersi conto che non sarebbe più tornato. I suoi fratelli e le sue sorelle, dopo grida e pianti, avevano continuato ad aspettarlo.

C'erano momenti... momenti terrificanti anche per se stessa, in cui sentiva il desiderio di tornare dall'altra parte, ovunque fosse, per mettersi a cercarlo. Non aveva mai avuto abbastanza coraggio per provarci.

Se c'era uno scopo dietro le sparizioni doveva essere quello. Se c'era uno scopo doveva essere Dio che la metteva alla prova, motivo per cui era stato in silenzio tanto a lungo. Era l'unica cosa a spingerla a non avere paura. Anzi, era quasi una speranza: l'idea di incontrare di nuovo suo padre dopo più di nove anni, di essere l'artefice della sua salvezza.

Era un'idea confortante.

Non ne aveva parlato a Richard e Sonne. In generale ne avevano parlato molto poco. In quella situazione era irrimediabilmente sola.




Verena temeva che si stessero allontanando da lei.

Una mattina, poco prima dell'inizio di settembre, si svegliò da un sonno agitato tra le lenzuola sgualcite e realizzò che non dormiva con Richard da un po'. Si guardò intorno attentamente. Sembrava tutto al solito posto.

Sono ancora qui.

Si poteva sentire lo scrosciare dell'acqua nel lavello in cucina. Qualcuno si era alzato prima di lei. L'aria era calda, la giornata assolata. Se non si fosse distratta sarebbe precipitata di nuovo nel suo vortice di paranoie e domande irrisolvibili.

Distrarsi. Era un buon punto di ripartenza, in effetti.

Si mise in piedi all'istante, andò in bagno a darsi una rinfrescata e poi raggiunse la cucina.

«Ehi.»

«'Giorno.» Richard ricambiò distrattamente il suo saluto. Le dava le spalle, stava finendo di lavare i piatti che non aveva lavato la sera precedente, ancora nel suo pigiama: pantaloni di tuta leggeri e una canotta bianca. Verena restò per un attimo a osservargli la nuca e la linea delle spalle, fino a scendere sui muscoli delle braccia, magri ma comunque definiti. Qualcosa di quella visione la incantò, anche se il fatto che lui non la stesse guardando era di una crudeltà inaudita. Ecco qual era il problema: non era la sola ad essersi distaccata. In quel momento – non seppe dire perché proprio in quel momento e non prima – provò un senso di mancanza al limite del claustrofobico. Il suo respiro incespicò per un paio di secondi, allora si chiese: cosa sto facendo? Ci stiamo separando anche in questa parte della realtà?

E poi se ne ricordò.

Richard e Sonne avevano sentito i suoi pensieri.

Non aveva riflettuto abbastanza su quel punto, anzi, l'aveva del tutto trascurato. Adesso si rendeva conto che era un privilegio. Doveva pur significare qualcosa, in quello schema che non riusciva ancora a vedere, l'aver avuto accesso alla loro mente. Erano legati nonostante la separazione. Rendersene conto quasi la commosse, anche se l'aveva fatto in ritardo. E non fu solo commozione, bensì anche una curiosa, fervida ondata che le risalì da un nucleo immaginario al centro esatto del ventre, una minuscola sfera tonda, liscia, azzurra come la fiamma di un accendino.

In pochi passi si fiondò su Richard e gli abbracciò la schiena con una morsa che lo fece sussultare. Appoggiò una guancia sulla sua spalla e strizzò forte gli occhi.

«Reni...» mormorò lui.

«Vi prego, non fate così.»

«Così... così come?» Anche il suo respiro aveva tremato per un istante, in concomitanza con la mano di Verena che scendeva dal petto all'addome in una carezza eloquente.

«Come se voleste evitarmi. Io sono qui» disse lei. «Sono qui

Richard tentò di voltarsi, ma Verena glielo impedì stringendolo ancora di più, premendo di più il petto contro la sua schiena. Lui, spinto verso il ripiano, si aggrappò con le mani ancora bagnate al bordo del lavello.

Cominciò a baciarlo nell'incavo del collo, dietro il collo, tra le scapole, mentre le sue dita continuavano a scendere. Lo sentì rabbrividire di piacere.

«Ma che hai stamattina?» chiese con una mezza risata compiaciuta, che le fece intercettare il baluginio del suo dente d'argento.

«Mi mancate un po'.» Non esisteva replica più sincera di quella. E il suo interlocutore era plurale, sempre.

Aveva soppresso per settimane l'eccitazione che il suo corpo le donava naturalmente. Lei, che era abituata ad assecondarlo ogni volta con somma felicità. Era bastato un nonnulla per riattivarla dall'interno dei suoi organi fino alle estremità degli arti. Per poco non le si adombrava la vista dal desiderio.

La sua mano s'insinuò nei pantaloni di Richard e avvolse il suo membro che si stava già indurendo. Lo massaggiò piano, sfiorandogli la punta con il pollice. Si beò del suo successivo sospiro strozzato. Con l'altra mano premette sulla schiena per farlo piegare di più verso il ripiano e quando si fu inclinato la infilò nelle mutande, ma stavolta tra le natiche, per penetrarlo con un dito. Richard non riuscì a trattenere dei gemiti bassi.

Era una tortura dolcissima che lo avrebbe portato allo stremo, e Verena si sarebbe fermata solo per cambiare posizione, ma il suo proposito, dopo qualche minuto, venne interrotto dalla comparsa di Sonne sotto l'arco tra salotto e cucina.

«Sono tornate le vecchie abitudini, vedo» disse, fermo lì, con le braccia incrociate. Quella mattina, a quanto pareva, non era andato a correre, ma si era già vestito lo stesso. Sembrava riposato e sembrava anche emanare un'aura più dominante del solito, forse perché si percepiva la sua necessità di riprendere il controllo su loro due, su di lei, dopo averli lasciati per giorni alla deriva. Avevano rimuginato troppo sull'accaduto e adesso erano stanchi di farlo. Di stare lontani, soprattutto.

Richard, che non l'aveva visto arrivare, si raddrizzò di scatto al suono della sua voce. Provò a divincolarsi d'istinto, ma, di nuovo, Verena non lo liberò, né fermò il movimento delle mani.

«Sta' buono» gli sussurrò, ma guardando Sonne, con un sorriso morbido eppure malizioso. «Non ho finito.»

Anche Richard puntò gli occhi sul nuovo arrivato, e si fece sbiancare le nocche a furia di stringere il lavello. «Sempre a lui... ah», un ansito, le sopracciglia corrugate, «... le visuali migliori.»

Sonne si avvicinò finché non fu proprio accanto a loro. La tensione di Richard era aumentata visibilmente, nella sua schiena e in ogni altro muscolo.

«Che ne dici di fare qualcosa insieme?» gli propose Verena, ancora più eccitata nel vedere gli occhi di Sonne così illuminati. «Magari prendiamo quelle cose che avevamo comprato. Non le abbiamo ancora usate...»

Lui le prese una ciocca di capelli tra le dita. Una sua tipica gentilezza nel bel mezzo della lussuria. Ma stavolta sembrava voler dire: sei tornata. Sei tornata davvero, finalmente. «Va bene.»




Richard, a petto nudo, se ne stava legato su una sedia contro il muro della cucina. Avevano deciso di farlo lì, in mezzo alla luce viva che entrava dalle finestre aperte. Verena aveva fatto vedere a Sonne gli strumenti che aveva preso insieme a Richard in un sexy shop nella Neustadt qualche giorno prima della sparizione. Aveva disposto tutto sul tavolo e Sonne, dopo qualche secondo di contemplazione silenziosa e un bisbiglio furbesco di Verena nell'orecchio, aveva chiesto a Richard se gli andasse di essere legato.

«Perché non lei?»

«Lei non ha la tua stessa attitudine.»

«Che significa?»

Verena aveva riso. «Che è più divertente comandare te a bacchetta.»

«Che simpatici che siete, cazzo», ma aveva lo stesso offerto loro i polsi, allineati. «Come volete, non mi tiro indietro. Qual è la parola d'ordine?»

Sonne aveva iniziato a maneggiare due spesse corde nere. «Credi che non ti tappi anche la bocca?»

«Intendi con il tuo...?» Non aveva continuato la frase solo per via di un'occhiata truce dell'altro.

«Fa' di sì con la testa due volte se vuoi che ti liberiamo.»

Le sue braccia ora erano immobilizzate ai lati della sedia, i polsi uniti dietro lo schienale. La corda si stringeva lungo la sua pelle in cerchi ordinati che avrebbero lasciato segni profondi. Le gambe erano rimaste libere, ma in bocca aveva quella che la commessa del negozio aveva chiamato ball gag: una pallina rossa di medie dimensioni fissata tra i suoi denti grazie a una cinghia di cuoio intorno alla testa, che lo zittiva e al contempo lo obbligava a tenere le mascelle aperte.

Stava seduto in maniera scomposta con il bacino proteso in avanti e l'erezione ben visibile dentro i pantaloni. Li guardava con un misto di rabbia e lascivia, con il torace che si alzava e abbassava per controllare il respiro. Probabilmente stava lanciando loro una serie infinita di maledizioni, per nulla abituato a restare fermo tanto a lungo, a guardare.

Per una volta lui e Sonne si erano invertiti.

Sonne che aveva Verena tra le mani.

L'aveva spogliata lui, come spesso amava fare, un indumento alla volta, ma quella mattina lei indossava solo i due pezzi del pigiama estivo e le mutandine, che erano stati strappati via in un attimo. Stava semiseduto sul tavolo e Verena gli stava davanti, nuda, ed entrambi erano di fronte a Richard, a una certa distanza. Quel gioco di sguardi che si era instaurato, una dinamica inedita, li eccitò più del previsto.

Verena si appoggiò di schiena al petto di Sonne e mantenne il contatto visivo con Richard. Sonne le scostò i capelli su una spalla sola e strofinò il naso appena sotto il suo orecchio. «Apri le gambe» le disse con tono fermo, un respiro sul profilo del collo. Era incredibile come riuscisse a farle venire la pelle d'oca anche solo con delle misere parole. La sua voce era la guida. Lui sapeva dove condurla.

Esaudì subito quella richiesta. Gravò un po' di più con il peso su un ginocchio di Sonne, come se gli si stesse mettendo in braccio, e allargò le gambe. Lui fece scorrere una mano lungo il suo fianco, e poi arrivò a toccarla tra le cosce raccogliendo con la punta delle dita il nettare limpido che la inumidiva. Se le portò alla bocca per assaggiarlo. Verena ebbe un fremito. Era sempre più in uno stato alterato di sé, in una bolla rovente che, sollevandosi, faceva fluttuare anche lei.

«Bene» disse Sonne, prima di girare leggermente il busto per recuperare il pezzo forte dei suoi acquisti, un dildo di vetro con un'estremità a forma di cuore. Era così carino che Verena l'avrebbe tenuto volentieri in esposizione nella sua stanza.

Sonne le aprì ancora di più le gambe, assicurandosi che Richard stesse guardando – e lo stava facendo, con quello sguardo a dir poco furioso, seppur spaventosamente calmo, per niente da lui. Senza indugiare oltre, mentre la teneva stretta a sé per la vita con il braccio libero, infilò piano il dildo dentro di lei, lasciando che i suoi lembi di carne lo inghiottissero fino all'impugnatura. Verena ingoiò il singulto che le salì alla gola. Poteva trattenersi finché... Ma Sonne iniziò presto a farlo scivolare dentro e fuori, a un ritmo cadenzato. Allora i suoi gemiti furono anche di sorpresa, di rivelazione, non soltanto di godimento. Era la cosa che più si avvicinava al fare sesso con lui, solo con lui. Non avevano mai provato niente del genere prima.

Verena cominciò a contorcersi sulla sua gamba. Era davvero troppo, non avrebbe retto a lungo. E Sonne si deliziava a diminuire o aumentare la velocità a proprio piacimento.

«Non così in fretta» le sussurrò quando sembrò sul punto di venire, arrestando i suoi movimenti ed estraendo il dildo ormai luccicante. «Richard è quasi più paziente di te.»

Richard biascicò qualcosa di incomprensibile e allungò appena le gambe sul pavimento. Dovevano essere i suoi primi segni di insofferenza, li avevano notati entrambi. Almeno adesso lo riconoscevano.

Verena voltò il viso verso Sonne e gli lanciò un'occhiata supplichevole. «Fammi venire, dai.»

«No.»

«Ma...»

«Ho detto di no. Non ancora.» Posò di nuovo il dildo sul tavolo. «Adesso mettiti in ginocchio davanti a lui.» La esortò con un colpetto tra la coscia e il gluteo.

Sebbene fosse annebbiata da una voglia oceanica di soddisfare il proprio piacere, Verena in realtà era felice di dedicarsi un po' a Richard. Non era abituata a lasciarlo in disparte. Si allontanò da Sonne e si mise in ginocchio sul pavimento, proprio tra le sue gambe. Lui traboccava così tanto di eccitazione da aver preso ad agitarsi sulla sedia. C'era una qualche forma di sadismo, nel dilettarsi a vederlo così, in trappola. Inaspettatamente anche Sonne si inginocchiò accanto a lei. Richard sembrò sconvolto, avrebbe spalancato la bocca se non ce l'avesse avuta già occupata.

Verena lo aiutò a sfilarsi i pantaloni e i boxer, così che fosse completamente nudo. Sonne gli poggiò una mano sul ginocchio, mentre lei si accingeva a masturbarlo. Richard mugugnò altre parole senza senso. Erano lì in basso per lui, tutti e due, e la cosa lo mandava in visibilio, anche se non poteva muoversi né parlare.

«Sputagli sopra» suggerì Sonne, tenendole i capelli. «Così gli piace di più.»

Verena lo fece, e quando la sua mano prese di nuovo a scorrere su e giù per tutta la lunghezza fu con maggiore facilità. A Richard piaceva, certo, ma lei sapeva che c'era qualcosa che gli sarebbe piaciuto ancora di più.

«Sai cosa lo farebbe proprio impazzire?» chiese a Sonne guardandolo con la coda dell'occhio. «Se lo facessi tu.»

Forse non avrebbe dovuto azzardarsi a dirlo. Sonne s'irrigidì e staccò il palmo dal ginocchio di Richard di riflesso.

Lui emise un verso di frustrazione. «Mmhei mmhromio um mmhharro.»

«Cosa, Richie?»

Richard sospirò perché sarebbe stato inutile ripeterlo.

Verena fece spallucce. «Credo sia d'accordo con me.»

«Credo abbia detto che sono un codardo.»

«Mmhì!»

«Tu continua» disse Sonne a Verena, perentorio, anche se pareva essersi improvvisamente rabbuiato. Di rado rispuntava quel disagio nel suo sguardo. Perché era sempre in comando. Finché era lui a dirigere le loro mosse non avrebbe mai valicato i propri limiti, perché non ne era in grado, non da solo, non ne aveva né la forza né la voglia. Faceva agire loro perché non se la sentiva di agire in prima persona. E perché era comodo, conveniente. Loro due erano il modo in cui poteva essere un altro corpo. Anche adesso era come se lui fosse Verena, perché le stava facendo fare ciò che avrebbe voluto fare lui. Era chiaro come la luce del sole, la stessa che li illuminava in quel momento.

Lei desiderava solo... liberarlo da quel fardello. Era semplice. Era difficilissimo. Gli lanciò un'occhiata d'incoraggiamento, che parlava più di tutti i discorsi che avrebbe potuto fargli. Lo volete entrambi, non è così? Ti prego, smettila di farlo soffrire. Smettila di soffrire anche tu. Sonne sembrava combattuto, in effetti. Aveva stretto le labbra, aveva alzato lo sguardo su Richard e oltre il solito rigore si intravedeva in lui un bagliore febbrile.

Richard attendeva, inerme e speranzoso come un adolescente che non sa ancora nulla delle delusioni della vita. Non lo disse, ma lo stava dicendo: ti prego. Quanto era ingiusto, che dovesse pregarlo. Era Sonne quello in ginocchio. Sonne ai suoi piedi. Sonne a pochi centimetri dal suo pene in erezione, che per qualche assurdo motivo era per lui un oggetto alieno, come se avesse paura di toccarlo perché l'avrebbe costretto a diventare una persona diversa, come se un organo genitale avesse il potere di determinare non solo l'identità di un individuo, la sua moralità, dignità, ma anche quella altrui.

Invece era solo una parte come un'altra di una persona che amava.

Verena non seppe dire cosa lo convinse, almeno in parte. Se ne stupì. Sonne mise la mano sulla sua e cominciò a massaggiarlo con lei, a seguire i suoi movimenti. Richard trattenne il respiro.

Dita sulle dita, dita sulla pelle scivolosa. Verena sentiva che Sonne non stringeva, che era molto esitante; aveva notato che guardava Richard in faccia per non dover guardare cosa stava facendo. Manteneva il suo contegno, però. Non aveva perso la sua austerità. Richard osservava la scena dalla sua prospettiva privilegiata, incredulo. Dopo poco reclinò la testa all'indietro per il piacere che lo stava sopraffacendo. Seguirono altri mugugni simili a dei lamenti, lamenti che potevano essere l'anticipazione di un pianto di gioia.

Verena non avrebbe tolto la propria mano a tradimento; la partecipazione di Sonne, seppur in un unico gesto monotono, poteva essere già considerata un grande passo avanti. Sorrise tra sé, inebriandosi del godimento di Richard come se fosse il proprio, spalla a spalla con Sonne, totalmente dedicati a lui. La luce che si irradiava nella stanza lo rendeva ancora più bello. Un angelo che si era fatto catturare, alle prese con due umani spietati che intendevano strappargli le piume una ad una. Ammesso che loro fossero davvero umani.

Smisero quando divenne lampante che Richard non avrebbe resistito un minuto di più. Sonne si alzò in piedi, dritto, Richard lo seguì con uno sguardo così agognante da essere doloroso da guardare.

«Adesso sali su di lui» disse il primo a Verena, come se non volesse soffermarsi troppo a riflettere su ciò che era appena avvenuto. Ma c'era una nuova vivacità nei suoi occhi, che era anche sconcerto, e fierezza. «E fammi vedere quanto sei brava.»

Verena si mise in piedi. Accarezzò una guancia a Sonne e si sporse per baciarlo, un bacio lento, per dirgli che anche lei era fiera di lui. Dopodiché prese un preservativo dal pacco sul tavolo, lo infilò a Richard e gli si sedette addosso, faccia a faccia e con le gambe aperte, lasciandosi penetrare a fondo. Non si mosse subito. Aspettò che Sonne gli sfilasse la ball gag, di cui stava slacciando la cinghia.

Una volta liberata la bocca, Richard si passò la lingua sulle labbra secche.

«Vuoi dire qualcosa, Richard?» lo sollecitò Sonne.

«Non sapete quanto cazzo vi odio.»

L'altro alzò un angolo della bocca. «Ti ricordo che sei ancora legato. Comportati bene.»

Con un grugnito in risposta, Richard diede un colpo di bacino per incitare Verena a muoversi. Lei emise un gemito basso, scossa dal piacere familiare di essere colmata da lui, e così cominciò a ondeggiare sul suo grembo, tracciando curve languide con la schiena. Sonne posò entrambe le mani ai lati del collo di Richard e lo accarezzò lì, dalla mandibola alle clavicole, fino alla base dei capelli, dove si era depositato un leggero velo di sudore. Richard abbassò le palpebre, in preda all'appagamento, ma lasciando aperta una sottile fessura tra le ciglia.

Verena aumentò il vigore di quelli che erano quasi diventati degli scatti in avanti con l'anca, ma a Sonne non bastava.

«Vai più veloce.»

Gli scatti divennero dei saltelli, il respiro si fece più affannato. Scopare Richard per dimenticarsi di ogni angoscia. Distrarsi con la voglia sfrenata di vivere.

«Di più, Verena.»

E lei incalzava, incalzava. Il seno le rimbalzava sul petto, la sedia scricchiolava, i versi si erano fatti più acuti e spezzati. Drammaticamente riprese a pensare alla sparizione proprio in quel momento, ma senza trascurare il piacere che si espandeva tra le sue gambe. Poteva provare piacere e turbamento allo stesso tempo? Era sbagliato?

«Questo è il massimo che sai fare?» chiese ancora Sonne.

«Tu... vuoi distruggerci... lo sai?» s'intromise Richard, ansimante.

Sonne ammonì entrambi con un'occhiata. La sua imponenza, la sua voce, paradossalmente lo facevano essere il più presente in quella stanza. Chinò un po' la testa per accostarsi all'orecchio di Richard, ma guardando fisso Verena negli occhi. «Magari era il mio scopo sin dall'inizio. Più veloce

Verena ringhiò, rabbiosa, qualcosa di lei si staccò da lei, lasciando spazio a una belva forsennata con una forza impressionante nelle gambe. Anche lei voleva essere presente come Sonne. Dov'era stata, quando non era stata lì? Adesso si legava al loro corpo, come un parassita, ma forse allora era addirittura riuscita a intrufolarsi nella loro testa? L'avevano sentita. Era stata dentro di loro. Una donna dentro un uomo, dentro due uomini.

Interpretarlo in questo modo la meravigliò e le diede un'ulteriore slancio di eccitazione. Premette forte la fronte contro quella di Richard, come se volesse incollarsi ad essa o entrare nella sua mente di nuovo. Per un attimo si guardarono negli occhi a distanza ravvicinata. Era strano. Era strano anche il nero delle pupille di Richard. Verena abbassò le palpebre, senza fermare i suoi scatti convulsi. Provò a comunicare di nuovo con lui.

Mi senti, Richie? Sono qui.

Tu dentro di me e io dentro di te... Ti piace? Dimmi quanto ti piace. Dimmi che vorresti farlo all'infinito.

Premette più forte, fino a farsi indolenzire il cranio. Voleva marchiarsi su di lui, in mezzo a tutta quella pelle. Il contrario dello sparire.

Richard...

Ma Richard venne senza una risposta, con un ultimo suono estatico e le braccia contenute dalle corde – o l'avrebbe stretta a sé, era sicura che l'avrebbe fatto. Verena, che si era spinta troppo oltre, come a voler raggiungere un piano di realtà superiore, proibito, si lasciò venire di conseguenza, tremando da capo a piedi. Una straordinaria caduta dall'alto in un mare di fiamme. Icaro che non ce la fa. Immensa tracotanza. Troppo vicino al Sole.

Sonne, sempre accanto a loro, gioiva in silenzio della loro piccola morte.




Distrarsi, distrarsi, distrarsi.

Verena ci provò anche nei giorni successivi. Per un po' le sembrò che stesse funzionando, che stesse tornando tutto alla normalità, anche se allo specchio continuava a vedersi diversa, spenta. A breve sarebbe stato l'anniversario del suo arrivo a Brema.

Riprese a dedicarsi con solerzia e passione al proprio lavoro. A settembre sbocciavano le gaillardie, gli astri, la verbena, e il negozio cominciava a colorarsi di colori più freddi nello spettro del cremisi e del viola.

Ma una mattina, all'apertura, trovò una brutta sorpresa ad attenderla.

Si accovacciò dinanzi ad alcuni vasi di ciclamini che aveva lasciato al chiuso, in un angolo, e scoprì che l'umidità li aveva fatti riempire di funghi, piccole sfoglie marroncine e bulbi bianchi che dal terreno si arrampicavano sugli steli e sulle foglie. Li spostò solo per scoprire che anche le piante grasse si erano infettate. E ancora, persino le composizioni che stavano per essere spedite, che erano state messe momentaneamente lì accanto. I petali e le foglie si erano afflosciati come braccia in decomposizione che avevano provato a chiedere aiuto invano.

Verena indietreggiò, turbata. Alla fine dell'estate un intero lato del negozio si stava abbandonando alla malattia. Come aveva fatto a non accorgersene? Non era stata abbastanza attenta. Non aveva prestato abbastanza cura. Come a casa sua nella foresta, quando i muri del piano terra si erano gonfiati di muffa e nessuno se n'era occupato, perché i suoi fratelli si crogiolavano nel vivere in quella condizione, nel marciume, pronti già a putrefarsi ancor prima di essere morti. Uno degli incubi più ricorrenti di Verena era stato per tanto tempo quello di ritrovarsi la muffa anche addosso, e di veder cadere la pelle se provava a grattarla via.

A ripensarci le venne il fiato corto. Uscì a prendere una boccata d'aria, ma quando s'immerse nella luce accecante del giorno dovette pararsi lo sguardo con una mano. Seguì un fischio basso tra i timpani che la stordì per qualche secondo.

Fu una sensazione che la fece sentire più leggera, più d'aria che di carne.

Appena tornò a vederci capì che era successo di nuovo.

Davanti a sé non c'era più il ridente quartiere di Schnoor.

Non c'era più Brema, ma un'altra cittadina, anzi, un paesino.

Comprese con un brivido che il fischio era il segnale. L'aveva sentito anche la volta precedente. Il cielo era terso sopra di lei, di un azzurro brillante.

Si voltò alle proprie spalle, dove fino a qualche istante prima c'erano la porta e la vetrina del fioraio, e vide che l'edificio era diventato una semplice casetta di campagna con un tetto di tegole arancioni. Oltre quel tetto e i tetti adiacenti, una serie montagne aguzze tappezzate di alberi scuri.

Le braccia e le gambe le si fecero molli. Avrebbe voluto rannicchiarsi in un angolo, prendersi la testa tra le mani, e attendere di ricomparire dall'altro lato. Si appoggiò con le schiena al muro di quella casa e rimase immobile per qualche minuto, cercando di controllare il battito impazzito del proprio cuore.

Quella seconda realtà non comprendeva solo Brema, allora. Era una copia del mondo che conosceva? Non poteva dirlo, non sapeva minimamente dove si trovasse. Ed era anche peggio, perché non poteva orientarsi.

C'erano delle voci, però.

Stavolta non era sola.

In lontananza – non troppo lontano, a dire il vero – si levavano risate di bambini, battiti di mani, una musica popolare. Sembrava gente che danzava e festeggiava. Una festa di paese, forse. Fu una scoperta che in parte la rincuorò, che la trattenne dal precipitare nel panico. Poteva chiedere aiuto.

Cominciò a camminare, in direzione di quei rumori gioviali, sulla strada di ciottoli che faceva risuonare i suoi passi. E mentre camminava tornò il pensiero che era stato un'àncora dopo la prima sparizione: se succede di nuovo devo cercare mio padre.

Si affrettò. I battiti aumentarono, se li sentiva in gola, dove avrebbero dovuto esserci le corde vocali. Se avesse provato a parlare avrebbe rigurgitato il suo stesso cuore.

La possibilità di incontrarlo per davvero le faceva fisicamente male, come un coltello rovente che scava tra le costole, alla ricerca di chissà cosa, della felicità che avrebbe dovuto provare all'idea.

Ai suoni si aggiunsero i versi di uccelli. Di rapaci. Almeno quelli sapeva riconoscerli.

Percorse delle stradine deserte, in mezzo a case identiche alla prima in cui si era imbattuta, con fiori alle finestre e panni stesi. C'erano anche alcune botteghe artigiane: un fabbro, un calzolaio, una panetteria. Nessuna traccia di auto o qualsiasi altro mezzo di trasporto. L'aria era fredda, ma piacevole. Dopo un po' spuntò nella piazzetta addobbata dove si teneva la festa, con al centro una grande fontana di pietra da cui zampillava acqua cristallina e una chiesa dalla facciata interamente bianca sul lato opposto.

Sembrava che tutti gli abitanti del paese fossero lì, duecento, trecento. Indossavano abiti tradizionali del posto: gonne lunghe, camicie a sbuffo, fazzoletti sui capelli le donne; brache con bretelle e cappelli appuntiti gli uomini. Nessuno prestò particolare attenzione a lei, straniera in tutto e per tutto. Dei bambini di cinque o sei anni corsero verso di lei perché si stavano inseguendo, ma virarono poi a destra. Uno di loro scivolò e cadde a terra. Si tirò su goffamente, con il mento insanguinato. Quella che doveva essere la madre, giovane e robusta, corse da lui al richiamo del suo pianto, nonostante fosse coperto dalla musica e dalle grida.

Che strumenti erano? Somigliavano a piccole chitarre con la cassa triangolare, decorate da fregi dipinti, imbracciate da un gruppo di uomini, munite di un manico stretto e lungo, ma meno corde.

Gran parte di quelle persone danzava. Altre indugiavano nei pressi dei chioschi di vivande che erano stati allestiti.

Avrebbe potuto chiedere a loro. Chiedere dove diavolo fosse. Chiedere se avessero mai visto una persona simile a suo padre. Ma all'improvviso le mancò la forza. Pensò a cosa sarebbe accaduto se quella gente le si fosse rivelata ostile. L'avrebbero accerchiata, attaccata, lapidata? L'istinto le pregò di non avvicinarsi.

Allora Verena restò in disparte.

Sperò che Richard e Sonne stessero ascoltando i suoi pensieri, così avrebbero capito che era sparita di nuovo. Si era chiesta per settimane se potesse succedere ancora. Adesso iniziava a chiedersi se per uno scherzo del destino ci fosse anche l'eventualità che lei non tornasse mai più indietro.

Le tornò voglia di piangere. Non aveva mai avuto così tanta paura in tutta la sua vita.

Se Richard e Sonne potevano sentirla... poteva provare a pensare come se stesse parlando con loro. Le era un po' di conforto.

Si appiattì contro il muro di un'altra casa.

Sonne... è successo di nuovo. Non sapeva perché, ma sentì di rivolgersi a lui per primo. Sono finita di nuovo da un'altra parte. Solo che stavolta-

Verena?

Verena sussultò. Si guardò intorno.

Era la voce di Sonne, ma Sonne non era lì. Limpida, come se la stesse ascoltando non con le orecchie ma direttamente con il cervello.

Di nuovo: Verena?

Sonne? Sei davvero tu? Riesci a sentirmi?, chiese lei, con gli occhi sbarrati. Riesci a rispondermi?, si corresse.

Per qualche istante non ci fu risposta. Pensò di essersi allucinata. Poi la voce ricomparve: Sì. Diamine, sì. È assurdo.

Verena si sfregò le palpebre con il dorso della mano per cancellare le lacrime che stavano per cadere. Grazie a Dio... almeno questo. Almeno questo. Non era sola, non era stata mai davvero sola. La voce di Sonne, ancora una volta la sua guida. Non veniva da nessuna parte ma allo stesso tempo era lì. La riempiva, e lo sapeva solo lei, nessun altro avrebbe potuto sapere che nascondeva un'intera, gigantesca persona dentro di sé. La sua inestimabile voce, più grande persino del suo corpo.

Cos'è successo? Dove sei ora?

Anche nella sua testa Sonne era serio e deciso, nonostante l'apprensione. Se si sforzava d'immaginarlo poteva sentire le sue dita che le sfioravano una gota. Il confine tra materiale e immateriale adesso era sottilissimo. I loro cervelli erano connessi. Faceva venire i brividi.

Ero in negozio, ero soltanto uscita a prendere una boccata d'aria... e mi sono ritrovata in un paesino che non è Brema. Non so come ci sono finita. Ho una paura da matti.

Non sei... a Brema?

No. Sono in un paesino in mezzo alle montagne, c'è una sorta di festa... ma non so neanche se è in Germania. Non lo riconosco.

Una festa... Ci sono persone?

Sì. Gli abitanti del paese.

Hai parlato con loro?

Adesso ci provo.

Avanzò piano verso uno dei chioschi, quello che vendeva pesche sciroppate. Poter comunicare con Sonne le aveva infuso una grande dose di coraggio. Inspiegabilmente – come se ci fosse qualcosa di spiegabile, poi – lui era lì con lei; lei dentro di lui e viceversa. Protetti l'uno nell'altra. All'interno di lui ci si poteva sentire soltanto al sicuro.

Il ragazzo dietro il chiosco, una semplice struttura in legno coperta da un drappo blu, aveva i capelli lunghi e rossi, l'espressione ingenua e un lungo cappotto pieno di toppe. Brandiva in quel momento una pesca dorata infilzata su uno stecchetto. Verena avrebbe parlato con lui.

Ma si bloccò quando si rese conto che le persone che gli stavano accanto, che stavano comprando da mangiare o stavano semplicemente scambiando due chiacchiere, non parlavano tedesco.

Ancora una volta non avevano fatto caso a lei, anche se era ciò che di più vistosamente fuori posto potesse esserci. Verena iniziò a sospettare che anche se avesse provato a interagire con loro non ci sarebbero state reazioni. Iniziò a sospettare di essere un fantasma, in quel mondo.

Le girò la testa.

Sonne... non so che lingua parlino queste persone. Non posso parlarci.

Non riesci a capire che lingua è? Non ci sono... scritte, segnali, targhe?

Non c'è niente.

Improvvisamente capire dove si trovasse smise di essere importante. Verena voleva solo capire come tornare a casa.

Riprese a camminare, agitata. Passò in mezzo alla gente danzante e nessuno le rivolse lo sguardo. A una ragazza, pressocché della sua età, era scivolato a terra il fazzoletto rosso di stoffa che teneva tra i capelli. Verena lo raccolse e se lo infilò nella tasca dei jeans. Poteva mostrarlo a Sonne e Richard. Attraversò la piazza, imboccò la via che partiva dal fianco della chiesa. Rivide il bambino che si era fatto male al mento correndo, che adesso se ne stava in disparte, mesto, seduto su degli scalini ad accarezzare un grosso cane nero e peloso. Chissà dov'erano finiti i suoi amici e sua madre. Il cane abbaiò verso di lei.

Verena lo guardò. Non sembrava una minaccia, bensì un avvertimento, come se le stesse dicendo di fare attenzione. Scrutò intorno a sé per l'ennesima volta.

All'inizio non vide nulla di strano.

Poi sopraggiunse la sensazione di essere osservata, mai provata in quel posto finora. Le si ghiacciò il sangue nelle vene quando notò che qualcuno, in effetti, la stava fissando.

Dalla piazza, seminascosto tra le persone, un uomo l'aveva puntata.






Note d'autrice:

Sono fisicamente provata da questo capitolo, per cui sarò breve. Avrei dovuto pubblicarlo venerdì (era finito, giuro), ma la vita mi ha remato contro. Che fatica. Spero tanto che vi sia piaciuto, è lunghetto ♥ 

Abbaimo un altro pov di Verena invece che uno di Sonne (ho sempre cercato di alternare, ma qui volevo scrivere sia la scena di sesso che quella della sparizione dalla prospettiva di lei, per ovvie ragioni), ma tanto il suo è il prossimo. Dal salto temporale non si sa ancora cosa passi nella sua testolina... mi fa strano.

E a proposito di teste, non vedevo l'ora di introdurre la tematica della... telepatia? Si può chiamare così? Sono curiosissima di sapere cosa ne pensate e soprattutto di sapere quale, secondo voi, possa essere il motivo di questa connessione, a cui Verena si aggrappa con tutte le proprie forze. 

Per quanto riguarda la resa grafica, ero indecisa su come rappresentare i pensieri di Sonne, ma alla fine ho dovuto cedere al grassetto, anche se tendenzialmente avrei evitato, perché le altre opzioni non mi convincevano abbastanza.

Il titolo del capitolo significa: Mi sento bene nella tua c̶a̶r̶n̶e̶ testa. Gehirn in tedesco significa sia testa che mente/cervello. Momento triste perché al posto di "carne" avrei voluto "pelle" (Haut), ma poi non c'era concordanza grammaticale tra i generi delle due parole e la frase non aveva più senso. Rip.

Ci rivediamo con il capitolo 20, buona settimana ♥

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