XX. Zerberus

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N E B E L

XX.

Zerberus



Qualcuno mi sta seguendo.

Sonne, seduto su una panchina del lungofiume con la testa abbassata, alzò di scatto lo sguardo verso l'acqua verdastra che rifrangeva la luce mattutina e che scorreva placida, impercettibilmente, come se potesse scorgere sulla superficie le immagini di ciò che stava accadendo a Verena. Era alla ricerca di segnali che potessero essere visti.

Anche se il suo pensiero riusciva a raggiungerla, in qualche modo, ed era pur sempre un miracolo, Sonne avrebbe voluto raggiungerla di più.

Il sudore sulla nuca divenne gelido.

Ne sei sicura?, le chiese, gli occhi immobili e spalancati sul fiume, uno specchio fasullo che mai, come lui, sarebbe riuscito a catturare un singolo fotogramma della realtà alternativa da cui Verena gli stava parlando.

È un uomo... sento il suo sguardo addosso e i suoi passi. È dietro l'angolo.

Allontanati. Cerca di seminarlo.

Ci sto provando.

Se la immaginava camminare a passo veloce e nervoso per le strade di quel paesino di montagna sconosciuto, mentre ogni tanto si guardava alle proprie spalle, con una ruga d'angoscia scavata nella fronte e il fiato a farsi largo tra i denti, tra le labbra. Immaginava la paura che la stava risucchiando, perché era un tormento che si era trasferito anche in lui, un nodo strettissimo nelle viscere. Qualcosa voleva togliergli Verena e lui non poteva fare nulla per impedirlo. Qualcuno la stava inseguendo per farle del male.

Parlami, Sonne, ti prego...

Lei si stava aggrappando alla sua voce. Era l'unica cosa che la legasse ancora a quel mondo. Una catena tra loro, solida.

Sonne intanto cercava una soluzione a tutti i costi. Trova qualcosa che ti ricordi Brema o prova a tornare al punto di partenza. L'altra volta sei ricomparsa quando sei tornata indietro, a casa.

Hai ragione. Solo che qui..., si fermò, e si fermarono anche i battiti di Sonne nel petto, per un istante. Si tirò in piedi, guardandosi intorno. In quella zona della città, su Osterdeich, sulla passeggiata di ghiaia che costeggiava la riva del fiume, la gente in strada si godeva gli ultimi residui d'estate in bici o a piedi, a quell'ora. Come aveva fatto, lei, a sparire in mezzo a tutte quelle persone? Nessuno aveva visto?

Verena?

C'è un fiume.

Sonne non riusciva a tirare alcun sospiro di sollievo. Parlami anche tu, Verena. Devo sapere che stai bene.

Scusa. Mi sono distratta.

Le sue parole erano uno strappo al cuore. L'unica cosa rimasta di lei. Quanto avrebbe voluto che si materializzasse davanti ai suoi occhi, adesso, a partire da quelle stesse parole.

Il fiume ti ricorda il Weser?

Non proprio, è molto più limpido. Però è l'unica cosa che riesco a collegare a Brema.

Va bene. Continua a camminare.

Anche lui riprese a camminare, anzi a correre, senza rifletterci. Era uscito di casa per quello, come quasi tutte le mattine. Correre, smaltire, alleggerirsi. Era durante la corsa che aveva sentito la voce di Verena chiamarlo. Un fulmine a ciel sereno. Non esisteva modo di dire migliore. Un fulmine nella sua testa. Si era bloccato a metà percorso, con le mani appoggiate alle ginocchia dolenti e il respiro accelerato. Aveva dovuto sedersi su una panchina per riprendersi. Doveva essere una giornata come un'altra. Lei doveva essere a lavoro, dal fioraio. Invece era successo di nuovo e lui non poteva fare niente.

La meraviglia – la scoperta incredibile e allo stesso tempo agghiacciante di poter comunicare con lei – aveva subito lasciato spazio al terrore.

Verena e il suo corpo non erano più lì. Aveva di nuovo attraversato un velo invisibile che separava due parti inconciliabili di realtà. Il velo di Maya. Possibile che lei, una qualsiasi giovane donna tedesca, avesse avuto accesso a una verità superiore, divina, metafisica? Perché lei? Perché doveva tutto succedere in modo così veloce? Un semplice scivolare via. Senza preavviso, senza neanche avere il tempo di accorgersene. Ma dov'era, il passaggio?

Tutto ciò che riguardava Verena era spaventoso e inspiegabile.

L'inspiegabile era spaventoso.

Non si era mai sentito così impotente. Neanche quando suo padre era stato portato via o quando era morta sua madre. Persino negli eventi più tragici della sua vita lui aveva avuto una parte, come se ne fosse stato autore. Autore, da auctor. Aveva sempre avuto un'autorità sull'agire altrui. Invece adesso era un misero spettatore di ciò che stava accadendo alla donna che amava – che era anche colei che temeva, proprio perché, in qualche modo, era sempre riuscita a sfuggire alle logiche della sua autorità. E infine gli era entrata dentro. Forse era stato impotente anche in quello. Non aveva mai voluto che accadesse. Era riuscito ad ammetterlo a se stesso solo qualche mese prima.

Se non l'avesse amata adesso non avrebbe avuto paura di perderla. Era un sentimento che lo schiacciava dall'alto.

Sonne... non lo vedo più, ma sento che mi sta ancora inseguendo.

Sonne non sapeva a cosa potesse servire, ma prese a correre più velocemente. Non isolarti. Resta dove ci sono altre persone.

Ma le persone non fanno neanche caso a me, disse lei, prima di fare una pausa. La sua voce era limpida e chiara, non v'era affanno anche se probabilmente stava correndo. Sembrava vicina, ma non lo era. O era più vicina che mai, perché stava nel suo cervello. Mi sento un fantasma. L'unico che mi vede è... oh no, eccolo di nuovo.

Corri.

Non poteva dirle altro, non c'era altro da fare. Scappare.

Se la immaginò correre, sulle sue lunghe gambe agili. E lui correva con lei. Avrebbe corso fino a sentir collassare i polmoni se fosse stato necessario per raggiungerla.

Invece intorno a lui c'erano soltanto sconosciuti, e il verde del lungofiume, e il fiume stesso, indifferente alla sua paura, con il suo odore stagnante e i moscerini che attirava sulla superficie. Quella mattina non c'erano traghetti ad attraversarlo.

Sonne non stava andando da nessuna parte. La gente avrebbe continuato a pensare che stesse facendo jogging. Invece voleva solo trovare lei.

Non appena si fosse avvicinato al quartiere di Schnoor vi si sarebbe addentrato per raggiungere il fioraio. Qualcosa gli diceva che sarebbe ricomparsa proprio nel luogo in cui era sparita. O almeno, lo sperava con tutto se stesso. Cosa avrebbe detto a Richard se non fosse mai più tornata? Come avrebbero fatto a sopportarlo?

Verena?, la chiamò ancora.

Ma questa volta lei non rispose, né rispose ai richiami successivi.

Sonne si sentì di pietra. Una pietra che correva. Il cuore che correva al medesimo ritmo dei suoi piedi, una pugnalata alla volta.

Dove sei?

Non lo sapeva neanche prima, dove fosse. Non era la domanda giusta. Eppure era l'unica che gli rimbombava nella mente. Si costringeva a pensarla per non dover pensare alle possibili risposte. Ma l'immaginazione era più forte e rapida delle domande e delle risposte. Un uomo grosso, forse quanto lui o poco meno, con un lungo cappotto. Giovane o vecchio, un'informazione che non era importante colmare. Pronto a saltarle addosso, a farla a pezzi, per il puro gusto di prevalere su di lei. Una forma tipica di violenza dell'immaginario collettivo, e non solo. L'avrebbe ammazzata e non ne sarebbe stato neanche soddisfatto.

Poi la vide davanti a sé, in lontananza.

Un'apparizione.

Stava attraversando le strada e stava scendendo le scale di mattoni che emergevano dall'erba umida e che conducevano al fiume. Correva. L'aveva visto. Correva da lui.

Sonne si sentì investire dal sollievo fino alla punta delle dita, in un formicolio. Le immagini orrende che si stavano moltiplicando nella sua testa si dissolsero in un istante. Nemmeno lui smise di correre, nonostante i bronchi che bruciavano.

Adesso avevano attirato l'attenzione di qualcuno.

Verena gli saltò al collo, Sonne la sollevò appena da terra. Lo scontro con il suo corpo gli causò un brivido veemente. Perle di sudore sulla fronte di entrambi. Lei chiuse gli occhi, lui no. Tutto ciò che voleva adesso era guardarla e stringerla a sé. Soprattutto guardarla.

Era lì, era tornata.

La fece oscillare tra le proprie braccia.

Non sapeva cosa dire. L'inspiegabile era inesprimibile. Avrebbe dovuto odiarla per averlo coinvolto in qualcosa di simile.

Verena, il viso nascosto nella sua spalla, sussurrò: «Andiamo a casa.» Adesso la sua voce veniva di nuovo dalla sua bocca e arrivava di nuovo alle orecchie di Sonne.

Lui annuì.

Sarebbero tornati a casa, da Richard, e sarebbero stati al sicuro. Avevano bisogno di crederlo.

Tuttavia, anche mentre facevano la strada di casa, Verena continuò a guardarsi ansiosamente alle spalle. Passarono prima dal fioraio, per chiudere il negozio. Lei infilò una mano in tasca, ma scoprì di aver perso ciò che cercava. Un fazzoletto di stoffa, disse, in preda allo sconforto.




Sonne sapeva che quella sera non avrebbe dormito.

L'idea di non poter tenere d'occhio Verena per un arco di tempo tanto lungo gli aveva fatto passare la stanchezza. Non poteva dormire.

Si affacciò alla porta della sua stanza intorno alle ventitré. Lei e Richard si erano già messi a letto da un po'. Lui aveva chiesto una giornata libera a lavoro fingendo un malore, solo per farle compagnia.

Erano ancora svegli, abbracciati sotto il piumino, si stavano dicendo qualcosa. Quando lo videro, Verena si alzò su un gomito. «Ehi.»

«Come stai?» le chiese, fermo sul confine della porta. La luce soffusa nella stanza, di un giallo quasi arancio, proveniva dalla lampada sul comodino e accarezzava i loro profili creando al contempo una serie di ombre aggraziate sull'altra metà del volto.

Lei fece un sorriso amaro. «Starei meglio se venissi anche tu a farmi un po' di coccole.»

«Non credo che conosca il significato di quella parola, sai?» lo schernì Richard posando un braccio dietro la testa. «E comunque le mie sono impareggiabili.»

«Beh, mettiamolo alla prova. Con altre cose ha imparato.»

«Sta imparando» la corresse. «Deve ancora perfezionare certe tecniche.»

Sonne cercò di reprimere l'imbarazzo che lo solleticò dietro le orecchie. Il riferimento di Richard era chiaro, parlava dell'ultima volta che avevano fatto sesso davanti a lui, in cucina, quando lui l'aveva toccato. Anche se in realtà aveva solo toccato la mano di Verena, spinto dalla voglia di vedere il piacere accrescersi nello sguardo di Richard. Un altro tipo di potere che aveva e che intendeva testare. Era incredibile quanto Richard lo volesse, ed era un desiderio che a Sonne dava le vertigini, un desiderio per cui fino a un anno prima avrebbe provato soltanto paura. Adesso, invece, gli donava uno strano entusiasmo. Essere desiderato non da una persona ma da due. Una donna e un uomo. Gli unici abitanti del suo mondo.

Doveva proteggerli.

Cosa ne sarebbe stato della sua vita, della vita che loro stavano risvegliando in lui, se anche solo uno dei due se ne fosse andato?

Era un pensiero egoistico, senza dubbio, ma non poteva fare a meno di figurarsi le conseguenze di un loro eventuale abbandono.

«Vedo che la voglia di scherzare non vi passa mai» disse.

«Non stavo scherzando» precisò Richard con un sorrisetto. «Quando vuoi fare pratica...»

Verena si accostò di più a lui e batté un paio di volte sul materasso per esortare Sonne a stendersi accanto a loro. «Dai, vieni.»

Quella porzione spoglia di letto ora sembrava un prato pronto ad accoglierlo, come se fosse stata trasformata dal suo tocco. Sonne accettò l'invito senza rifletterci troppo. Si stese su un fianco, sopra le coperte, con la testa sorretta dal palmo di una mano. Se ne sarebbe andato una volta che si fossero addormentati.

Con il suo corpo rialzato in quel modo ostacolava la luce della lampada.

Verena lo guardò negli occhi, quasi volesse dirgli grazie senza dirlo ad alta voce. Poi si rannicchiò contro di lui, e Richard contro di lei. Si strinsero l'uno all'altra con le braccia e con il corpo, tra le lenzuola arricciate.

Non l'avevano mai fatto prima. Non avevano nemmeno mai dormito tutti e tre insieme. Sonne si era sempre tirato indietro, perché aveva sempre avuto bisogno dei propri spazi, laddove Richard e Verena riempivano già ogni cosa. La sua stanza era l'ultimo baluardo in cui non si fossero insinuati. Era giusto così, continuare a possedere un luogo tutto per sé, dove poter chiudere le parti di lui che non voleva mostrare loro. Per proteggerli, di nuovo. E per proteggersi.

Ma adesso, dinanzi alla possibilità di sparire, lo spazio stava diventando piuttosto relativo. C'erano spazi che non potevano essere visti – che la vista non poteva raggiungere. Perché stare lontani quando potevano stare vicini, anzi, attaccati? Nessun centimetro di distanza tra l'uno e l'altra. Cuciti in un essere mostruoso a tre teste, un Cerbero.

Sonne tirò di più Verena a sé con il braccio libero, la sua schiena aderì a lui, i suoi capelli gli sfiorarono il mento e la bocca. Richard teneva la sua mano un po' più in basso, sull'anca. La accarezzava delicatamente, e così prese a fare Sonne. A Richard la parte inferiore di lei e a Sonne quella superiore. Lei sorrideva beata, all'improvviso estranea a ciò che le era accaduto quella mattina o in tutta la vita. Adesso erano in uno spazio pacifico e idilliaco, un letto, in cui non poteva succedere nulla di negativo. Si era alzata una cinta muraria invisibile attorno a loro. Provavano un senso di protezione e di gioia genuina, come bambini che si addormentano accanto ai genitori dopo essere scappati dalla loro cameretta, impauriti dal buio e dalle creature che vi si nascondono.

Tra le carezze, Verena gli chiese, voltando un po' la testa per guardarlo meglio: «Resti anche a dormire, Sonne?» Un sussurro speranzoso.

«Sarebbe bello» le fece eco Richard, stavolta per niente ammiccante. «Avremmo potuto farlo già altre volte... Si sta bene, in tre.»

Sonne le sfiorò la mandibola con il pollice. «Solo se non scalciate nel sonno.»

«Purtroppo lei a volte sì.»

«E tu russi, da quando ti hanno rotto il naso» lo rimbeccò Verena. Ma aveva chiuso gli occhi e aveva la voce sempre più stanca. Il loro calore la stava cullando.

«Non importa» disse Sonne. Guardò Richard, oltre il corpo di lei, e lui sembrò sentirsi eletto da quello sguardo. «Per una volta farò il sacrificio.»

«Che onore.»

Presto lei si addormentò. La pelle bollente, respirava flebile. Le sue ciglia si erano intrecciate sulle palpebre chiuse. Un po' avvolta dal piumino e un po' dalle loro braccia. Nessuno avrebbe potuto sottrarla alla realtà, nemmeno il mare di oscurità che s'alzava ai piedi del letto. Era vera, era viva, era lì. La luce ricercava naturalmente il suo corpo. Adesso la colpiva proprio su un angolo della fronte. Sonne la lambì in quel punto con i polpastrelli, così la luce si sovrappose sulle sue dita. Il volto le si rilassò ancora di più, come se la sua mano avesse il potere di infonderle la serenità. Niente più incubi né sogni, solo una tenera quiete. Le scostò una ciocca di capelli come per spazzare via l'ultimo residuo di inquietudine.

Avrebbe vegliato su di lei.

Richard lo aiutava, in quello. Richard vegliava anche su di lui, in qualche modo. Era al di sopra di entrambi. Nella sua purezza non nascondeva nulla, mentre Sonne e Verena custodivano abilmente il loro marciume. Sonne lo teneva addosso, spalmato ovunque. Se Richard avesse allungato la mano e avesse sfiorato il fianco di lui, se gli avesse alzato appena la maglia avrebbe toccato proprio il punto peggiore. Il lato destro del suo corpo. Il lato Est del suo corpo. In un solo gesto l'avrebbe smascherato.

Richard lo guardava. «Hai davvero parlato con lei con il pensiero?» gli domandò con un tono bassissimo, per non svegliarla.

«Sì.»

«È che... io stavolta non l'ho sentita.»

Non aveva mai avvertito un tale rammarico nella sua voce. «Forse perché si è rivolta specificamente a me» ipotizzò, in un mormorio basso. «Ricordo che la volta precedente ci aveva chiamati entrambi.»

Anche Richard si alzò su un gomito, così da essere faccia a faccia con lui, e Verena tra loro. «Incredibile che tu riesca a vederci della logica anche in questo.»

«Impazzirei se non ci provassi.»

«Comunque ammetto che la cosa mi sta facendo cagare sotto non poco. È già successo due volte... forse tre. Quella volta che credeva ci fossimo nascosti, intendo. Ma era durato pochissimo.»

«Ti ha detto che qualcuno la stava seguendo dall'altra parte, oggi?»

«Sì... per questo ho paura.» Fece una pausa, un po' avvilito dalle sue stesse parole. «Cosa possiamo fare? Mi sento inutile, cazzo.»

Sonne levò l'ultima carezza sul volto di Verena e poi abbassò il braccio, più vicino al braccio di Richard. «Solo tenerla d'occhio, temo.»

L'altro annuì. «Per un attimo ho pensato che volessi... Niente.»

«Cosa, Richard?»

«Insomma, che volessi... lasciarla, o cacciarla. Perché fa paura anche a te. Liberarti di questo peso che ti dà e quindi liberarti di lei, ecco.»

Sonne gli rivolse un'occhiata severa. «È stato un pensiero stupido.»

«Lo so. Però un tempo l'avresti fatto.»

«Ma non ora. Ora non potrei neanche se lo volessi.»

Era facile dire certe cose, nella protezione di quel letto. Richard lo osservò, un po' stupito. «Se solo glielo dicessi anche quando è sveglia...»

«Non ce n'è bisogno, lo sa.»

«Come no... certo che c'è bisogno di dirlo a una persona, quando la si ama!»

Sonne non distolse lo sguardo da lui. Ma non sapeva come ribattere. Avrebbe voluto dirgli: allora dovresti dirmelo anche tu. Ma per quello non trovò la voce. Sentirselo dire sarebbe stato terrificante. Ancora di più non sapere cosa rispondere.

«Devi smetterla di fare il codardo, chiaro?» rincarò Richard. «Se le succedesse qualcosa... dovresti sopportare per sempre il rimpianto di non aver agito.»

Sonne non si aspettava una visione tanto pessimistica da lui. Anche Richard aveva cominciato a pensare tutto ciò che di terribile sarebbe potuto accadere d'ora in avanti. Tutti gli uomini del mondo che la portano via. Più pericoloso un singolo uomo che la insegue piuttosto che una realtà capovolta in cui sparire. Però lì, in quel letto, era protetta. Oltre il letto, qualcosa si preparava a inghiottirli.

Rimase scosso da quella prospettiva. Agire: non era mai stato bravo ad agire. Il suo agire, il suo essere agente, era tutto nella testa. Al massimo, sulla carta. Questo lo allontanava dal mondo e persino dalle persone che amava. O involontariamente faceva loro del male.

Stava facendo del male a Verena e Richard?

Richard si accorse che era turbato. Spostò la mano, come aveva immaginato, non verso il fianco ma verso la sua, poggiata appena sotto il costato di Verena. Gliela strinse e Sonne strinse le sue dita di riflesso. Com'erano sottili e dinoccolate. Calde, perché riscaldate dal calore di Verena. Richard gli sorrise debolmente.

«Ci sono tante cose di cui aver paura. Ma proprio di questo non dovresti» disse, un sussurro ancora più lieve, quasi inudibile.

Non era chiaro di chi stesse parlando, adesso. Il cuore di Sonne cominciò a battere più velocemente contro la spalla di Verena. Richard tracciava piccoli cerchi con il pollice sul dorso della sua mano.

Poi sciolse la stretta. Risalì, con le dita, lungo il suo braccio e la stoffa della maglia che lo copriva.

Non toccarmi, Richard. Non toccarmi. Non lì. Non il fianco. Ti supplico.

Ma Richard giunse al suo petto e poi, su, al suo collo in tensione. L'istinto di Sonne fu quello di ritrarsi, ma lui prese ad accarezzarlo con una dolcezza a dir poco commovente, lasciandosi pungere dalla ricrescita della barba. Non ebbe altra scelta che concedergli quell'esplorazione. Passò al mento, alle guance, al naso, scivolava su di lui non come se fosse un uomo di trent'anni di quasi due metri, ma un neonato di pochi giorni, anzi, un neonato fatto di cartapesta. Infine arrivò alle labbra. Con la punta dell'indice ne solcò il contorno, in un verso e nell'altro. Un brivido gli si avvinghiò alla nuca senza cadere verso le vertebre, una piacevole vibrazione immobile. Là, doveva essere là la sede del piacere. La porta per finire in un'altra dimensione. Il corpo si rimette alla testa e manda segnali al cervello, in infinitesimali frazioni di secondo. Sensazioni e reazioni partono da lì. Dunque ciò che si intende come corpo non è solo una proiezione, un risultato del cervello?

Richard venerava le sue labbra. Venerava il suo corpo e il suo cervello. Nessuno aveva mai osato tanto, nemmeno Verena. Perché non poteva avere niente di tutto ciò, neanche una piccola parte. Era un sentimento senza alcuna riserva o ritorno. Una totale abnegazione.

Sonne chiuse gli occhi. Forse un giorno sarebbe sparito anche lui.

«Stenditi bene» bisbigliò Richard.

E lui si stese, posando finalmente la testa sul cuscino. Vegliare e farsi vegliare. Accettare di essere vulnerabili. Era semplice, sotto le mani di un angelo. Non aveva mai dormito con loro anche per quello: non voleva stare in balia delle loro mani. Ma adesso sì, perché le loro mani lo amavano e non gli avrebbero mai fatto del male. Dovevano toccarsi finché potevano.

Richard gli accarezzò i capelli. Lo accarezzava anche con gli occhi. «Addormentati, Sonne. Io ne avrò ancora per un po'.»

Sonne avrebbe voluto restare sveglio, ma in realtà stava crollando. Pensò a tre cose prima di dormire.

La prima: sua madre rimasta senza suo padre, che un giorno del suo dodicesimo anno di età, di ritorno da scuola lo accoglie con una domanda. «Frau Schneider mi ha detto che ti ha beccato diverse volte a scambiare effusioni con un tuo compagno di classe. È così, Stefan?» Adirata, debole, con i capelli ingrigiti e una sigaretta consumata tra le dita, lo guarda al di là del tavolo. E poi fa una mezza risata. Molto breve, ma molto tagliente. A nulla serve il suo tremante «No, mamma». Lei ha già capito. Ha capito prima di lui. E lo odia ancora di più. «Ci mancava solo questa» dice, dopodiché dà un colpo alla sigaretta per far crollare la cenere e torna a fissare il vuoto.

La seconda: il salotto del Professor Meier, nel suo appartamento all'ultimo piano in Steinstraße, Amburgo. Il momento in cui, qualche giorno dopo la laurea, gli consegna la sua copia della tesi sulle fiabe popolari tedesche, rilegata in blu scuro. Il momento in cui brindano con un calice di vino, ascoltando Schubert. Il momento in cui, adesso che non è più un suo studente, Heinrich gli poggia una mano sulla coscia seduto accanto a lui sul divano. Il momento in cui Sonne si alza di scatto e se ne va.

La terza: di nuovo sua madre. Una sera le giura che lui non ci vuole proprio avere niente a che fare, con i maschi, che gli fanno schifo. Petra gli dice che se andrà con i maschi non potrà mai avere dei figli. Poi lo abbraccia forte come non faceva da tempo. Piange sommessamente. Stefan giura e giura. Più giura, più lei lo abbraccia. 






Note d'autrice:

Sapevo che questo capitolo l'avrei pubblicato di notte... perché tra università e altri impegni sono stata costretta a scriverlo sempre di notte ahahah Ora che è pronto, eccolo qui. Ci tengo moltissimo, soprattutto alla parte finale, che è piena di tenerezza e angst </3 Spero che siano arrivati i sentimenti che intendevo comunicare: in primis, la paura di persone che non vogliono perdersi. 

Oggi sarò di poche parole. Il titolo del capitolo, Zerberus, significa Cerbero e fa riferimento alla riflessione di Sonne di metà capitolo. 

Se avete altre teorie, non esitate a scrivermi ♥ Accolgo tutti con biscotti e una tazza di tè virtuale.

Al prossimo capitolo!

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