XXVII. Hamburg

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N E B E L

XXVII.

Hamburg



Per tutta la durata del viaggio, Sonne non guardò fuori dal finestrino.

A parte la stazione centrale, la prima cosa che vide di Amburgo furono le sue dita sporche di inchiostro ad Amburgo. Se ne accorse sulla metro, proprio appena vi mise piede. Si andò a sedere il più distante possibile dalle altre persone, e cominciò subito a sfregarsi le mani tra loro per cancellare le tracce, poi sui pantaloni, ma non servì a molto. Gli sembrava quasi di aver commesso un delitto. Doveva essersi macchiato in treno mentre si appuntava sul taccuino delle frasi che gli erano venute in mente. Viaggiava leggero, aveva un misero zaino con sé, il bagaglio adatto a una sola notte di permanenza, e il taccuino nella tasca interna del cappotto, con una penna infilata tra le pagine.

Non alzò lo sguardo dai suoi polpastrelli anneriti mentre la città scorreva fuori dal vagone. Gli bastava il colore del cielo, che entrava a intervalli nella sua visuale, a confermargli di essere ad Amburgo: un grigio così fitto l'aveva incontrato soltanto lì.

Era mattina. Era metà novembre.

La fermata era Hamburg Dammtor, una delle prime.

Guardando le proprie mani pensò alle mani di Richard. L'aveva salutato così, prendendogliele delicatamente e rivolgendole verso l'alto: per posare le labbra su ciascuno dei palmi, ormai quasi del tutto guariti dall'ustione. A Verena aveva accarezzato i capelli per l'ennesima volta – anche quello aveva a che fare con il tatto, era tuttora una delle sensazioni più piacevoli che avesse mai provato.

«Chiamaci quando arrivi in albergo» aveva detto lei, fallendo nel nascondere l'ansia che le montava dentro. Richard, invece, era piombato in uno strano mutismo, ma era stato, inaspettatamente, anche il più calmo tra i tre.

Sonne si era poi voltato senza ulteriori indugi. Sarebbe tornato presto. Richard e Verena sarebbero stati bene. Lui sarebbe stato bene.

Dopo mesi era di nuovo solo, e la cosa non gli dispiaceva. Sapeva che la solitudine era la sua dimensione naturale, perciò vi si ritrovò a proprio agio, anche se non poteva fare a meno di dirigere i pensieri verso casa. Persino le sue mani tendevano a Brema. Adesso che se l'era strofinate se le sentiva tutte intorpidite. Stese le dita e poi le chiuse a pugno, poi ripeté, stendere e piegare, stendere e piegare, finché non gli parve di esserne di nuovo in possesso. Faceva spesso quell'esercizio anche in camera sua, lontano dagli occhi di Richard e Verena, quando i residui della vergogna che covava arrivavano a pizzicargli i polpastrelli. Sì, l'imbarazzo gli si manifestava dietro le orecchie e la vergogna sulla punta delle dita, da sempre. Capitava che si manifestasse ancora, da quando aveva baciato Richard. C'era qualcosa in lui che tuttora faticava ad accettarsi, ma Sonne stava imparando a silenziarla. I suoi sentimenti per Richard avevano avuto la meglio. La condizione in cui ormai vivevano e il terrore di perderlo gli avevano fatto realizzare, con una scossa, che tutto il tempo che aveva trascorso negandosi l'amore per lui non gli sarebbe stato restituito.

Le sue mani scottate erano state l'ultimo segnale, un'epifania.

Si era arreso scoprendo il piacere dell'arrendevolezza. Era stato un mese meraviglioso: avevano vissuto l'uno dell'altro, in un mare di felicità che aveva toccato ogni cosa, persino l'al di là, che non li aveva più chiamati a sé. Quel mese era stato un banchetto in cui avevano celebrato il loro legame fino all'ubriachezza, sfacciati di fronte all'ignoto, che fosse l'origine delle sparizioni, l'origine della vita o la morte stessa.

Adesso che era lontano da loro e dalla loro pelle calda, Sonne provava una sensazione di disorientamento. Cosa se ne faceva, ora, di quelle mani, a parte scrivere? Cos'altro avrebbe mai toccato con altrettanta devozione? Era diverso, o meglio, visibilmente diverso grazie a Richard e Verena? Cosa avrebbe rivisto in lui Heinrich Meier, che aveva letto ed esaminato con attenzione le sue parole come se avesse avuto libero accesso alla sua interiorità? E a breve avrebbe avuto modo di scoprire anche cos'era cambiato nel suo corpo – ciò che si era inciso grazie ad altre due persone, che a lui pareva invisibile ma era lì, lo sapeva che era lì, come testimoniava l'inchiostro – così da avere il quadro completo di Sonne Rothberger.

Non era una cosa che desiderava il professore, evidentemente, era una cosa che desiderava Sonne. Essere visto. Non voleva ammettere che, in parte, si stava recando da lui per esibire quel cambiamento, privo dopo anni di quell'eccessivo pudore che l'aveva portato a fuggire e troncare uno dei pochi rapporti significativi della sua vita, quello con l'unico mentore che avesse mai avuto.

Ma provava ancora un po' di vergogna. L'inchiostro la nascondeva, però era lì, nelle curve e nei solchi dei polpastrelli. Le dita che avevano giocato a lungo con il fuoco.

Chi era Sonne adesso?

Non ci fu tempo per altre domande, né per una risposta alla domanda più importante. La voce preregistrata della metro annunciò la sua fermata e lui fu costretto, infine, a uscire all'aperto.

Era arrivato.




Il quartiere di Rotherbaum, distante dalle rive dell'Elba, non era il più pittoresco, il più affollato, il più emozionante della città, ma neanche il più tranquillo. Era prevalentemente frequentato da studenti, che, anche quando Sonne tornò in quelle strade ampie costeggiate da alberi e palazzi di mattoni rossi, se ne andavano in giro sulle loro bici nonostante il rischio di pioggia. Sonne aveva sempre preferito muoversi a piedi, così si ritrovò ad attraversare con naturalezza il percorso che un tempo praticava sempre ogni giorno, fino a Von-Melle-Park, l'isola universitaria che comprendeva gran parte degli edifici del campus.

Non appena giunse nel piazzale principale, Sonne si fermò con le braccia pesanti lungo i fianchi e fece un respiro profondo. Si guardò intorno, sentendo svanire per qualche istante il coraggio di proseguire. Era vero, bisognava essere coraggiosi nel tornare da stranieri in un luogo familiare, che si sarebbe ripresentato intriso di nostalgia, freddo oppure ostile, non dipendeva da lui. Sulla facciata di uno degli edifici erano appesi dei manifesti per un corteo femminista che doveva essersi tenuto un paio di giorni addietro, e al di sotto altre decine di bici erano parcheggiate sulle rastrelliere. Il semestre era iniziato da poco e gli studenti erano più attivi che mai. C'era chi calpestava di fretta le foglie secche sulla pavimentazione di pietra per raggiungere le aule, chi raccoglieva firme all'entrata per una petizione, chi fumava seduto sul muretto che circondava le aiuole, c'era anche chi indugiava con un gruppo di amici organizzando una festa per il prossimo fine settimana. In quel posto si respirava una gioventù da cui Sonne non solo si era separato bruscamente, ma che non era neanche mai stata del tutto sua.

Si rivide, nella sua testa, sette o otto anni in meno, camminare lì per il piazzale, verso la biblioteca, con il capo chino e lo stesso cappotto lungo, sempre un po' più alto rispetto a chiunque avesse intorno, sempre seguito da qualche sguardo curioso, soprattutto dopo che si era procurato quella cicatrice vicino all'occhio. La gente lo conosceva senza che lui avesse desiderato farsi conoscere, anche perché spesso lo si vedeva in compagnia di Meier, che di solito faceva sentire tutti piuttosto in soggezione, per via della sua posizione accademica, ma non solo, per via della sua aura.

Di certo non l'aveva persa nemmeno dopo aver terminato l'incarico di rettore. Nei fatti, poi, era una persona molto più affabile di quel che si credesse.

Prima di raggiungere il suo studio nel Philosophenturm, l'edificio di riferimento delle facoltà umanistiche, vagabondò ancora un po' per il campus. Detestava essere in ritardo, ma l'impulso di rimandare quell'incontro si stava facendo strada dentro di lui con aggressività. Sonne non sapeva cosa temesse, di preciso. Forse proprio non riuscire a prevedere cosa il professore gli avrebbe detto. Non c'era stato un singolo indizio nel corso di quel mese, per telefono o per posta, neanche quando l'aveva contattato per prendere appuntamento. Intimamente sperava che Heinrich gli rivelasse una qualche verità nascosta su se stesso che era stato troppo cieco per vedere. Gli attribuiva un'intelligenza superiore: la capacità di comprenderlo, in ogni singola scelta ed errore della sua vita, dalla sola lettura di metà romanzo. Sarebbe potuto essere simile a un perdono che nessun altro poteva concedergli. Solo lui avrebbe potuto capire, alla luce di quell'intelligenza, lui che aveva una visione chiara anche della sua formazione, delle sue influenze e dei suoi lavori precedenti, tanti tasselli nella struttura che era Sonne; e poi gli avrebbe detto qualcosa di definitivo.

Se non fosse stato così Sonne ne sarebbe rimasto deluso a morte. Temeva anche questo. L'indifferenza quanto l'approvazione o la disapprovazione.

Passò davanti l'auditorium con la facciata ricurva e interamente in vetro, dove si era tenuta la sua cerimonia di laurea, dopodiché proseguì lungo il sentiero delimitato dalle aiuole fino ad arrivare all'edificio originario, quello più antico, risalente ai primissimi anni del Novecento: sormontato da coppie di colonne che gli davano un'ispirazione neoclassica e una grossa cupola verde al centro, aveva l'aria di prestigio che si attribuiva di norma a un'università, complice il motto che emergeva dal marmo: Der Forschung. Der Lehre. Der Bildung (1). Una volta si era intrattenuto sui gradini davanti alle porte principali, dopo pranzo, a leggere Günther Anders, perché la biblioteca era piena. Almeno, ricordava, era una gradevole giornata di maggio, e si era fumato più di una sigaretta. Una ragazza che conosceva di vista dal corso di letteratura contemporanea, di risaputa fede marxista, aveva intrapreso un breve dibattito con lui, giusto il tempo che anche lei finisse di fumare, su quella che Anders chiamava filosofia della discrepanza, cioè la divergenza tra ciò che è diventato possibile grazie alla tecnica e ciò che è immaginabile dalla mente umana. Ricordava anche che quella conversazione era stato uno stimolo a leggere altro del filosofo, oltre che un gradito contatto umano in un periodo in cui era solito allontanare chiunque. Non seppe perché gli era tornato in mente proprio quel frammento di sé, tra tanti simili e ordinari, appartenenti a un arco della vita che era trascorso ruotando solo e soltanto intorno all'università. La vera rivoluzione era stata l'aver incontrato Richard. Ma era accaduto sempre lì, in quel mondo circoscritto dentro un altro mondo circoscritto.

Sonne osservò ancora i dintorni.

Poco lontano svettava l'edificio che era andato in fiamme nell'87. S'intravedeva oltre le cime di alcuni alberi, moderno al pari degli altri che gli erano costruiti intorno, solo più annerito, come lo erano adesso le sue dita.

La sola visione lo spinse subito a cambiare rotta. Era quel ricordo a dover essere evitato. Senza neanche rendersene conto, tornò sui suoi passi e si diresse verso il Philosophenturm.

L'ansia aveva deciso di non dargli tregua.




Con i suoi quattordici piani, la torre era l'edificio più alto del campus, ma anche il più anonimo nell'aspetto, un blocco di cemento che s'imponeva sul paesaggio circostante. Sonne varcò l'ingresso al piano terra e andò spedito, seppur con il cuore che accelerava, verso gli ascensori, passando davanti alla caffetteria semivuota: le lezioni dovevano essere ormai tutte cominciate.

Nell'ascensore che gli aprì le porte in automatico, come se stesse attendendo proprio lui, non incontrò nessuno. Premette il pulsante dell'ottavo piano, dove si trovava lo studio di Meier.

Arrivò più velocemente del previsto. Ai suoi tempi, l'ascensore impiegava un'eternità per salire. Non ebbe neanche il tempo di pensare alle parole che avrebbe usato per salutare. Salve, Professore... Buongiorno, Heinrich... Professore, è un piacere rivederla...

Lo studio era situato nel corridoio accanto. Non l'aveva dimenticato. Sonne svoltò e bussò alla porta che recitava il suo nome su una targa.

«Avanti» disse distrattamente una voce ovattata.

Sonne entrò nella stanza. C'erano due finestre, e una era aperta, e da quella aperta il vento si insinuava facendo ondeggiare le tende. Heinrich era dietro la scrivania. Stava parlando con due studenti, un ragazzo e una ragazza molto giovani, su per giù delle matricole, che gli stavano mostrando una relazione.

«Ah, Sonne, salve. Un attimo solo» lo salutò il professore senza particolare calore, guardandolo per un istante e poi tornando a rivolgersi agli studenti. «Va benissimo così. Brandt, lei invece avrebbe potuto dedicare maggiore attenzione alle influenze del Pietismus. Anche se ha proposto riflessioni molto interessanti sulla figura di Ifigenia, sembra che le manchi una visione d'insieme rispetto al senso della riscrittura della tragedia.»

Il ragazzo premette per giustificare il suo punto di vista, con una sorta di ingenua arroganza, e fece prolungare la conversazione ancora per un po'. Parlavano, chiaramente, dell'Iphigenie auf Tauris di Goethe. Heinrich non si preoccupò di farlo attendere. Sonne rimase fermo davanti alla porta per qualche minuto, imbambolato ad osservare la scena. Si sentì la cosa meno importante in quella stanza, meno persino dei cassetti e delle mensole, delle penne, dei fogli vuoti, delle relazioni inaccurate da primo corso di letteratura; di certo meno importante di tutti gli anni di studio che si condensavano tra quelle pareti e si incarnavano nella figura di Meier; ovviamente meno importante del suo mezzo romanzo stampato che Meier doveva tenere lì da qualche parte, al riparo da sguardi indiscreti, o forse già archiviato, cestinato, superato.

La verità era che Sonne si era immaginato che Heinrich lo stesse ancora aspettando dopo tutto quel tempo. Adesso, invece, si rendeva conto di non occupare più alcun posto speciale nella sua mente. Credere il contrario – e con quanta fermezza l'aveva creduto! – era stato sciocco e presuntuoso, da parte sua. Si era illuso perché il pensiero di essere importante per qualcuno al di fuori di Richard e Verena era stato a lungo una piccola fonte di autostima, una certezza che aveva trattato sempre con noncuranza, dandola per scontato, anzi, fingendo anche fastidio verso di essa.

Dunque quella di Heinrich negli ultimi anni – le lettere, gli inviti e gli auguri di compleanno – era stata soltanto gentilezza. Nient'altro che la gentilezza che l'aveva sempre caratterizzato dietro l'apparenza severa. Forse una speranza di ristabilire i contatti con una persona di cui aveva stima, ma niente di più.

E poi Sonne era ricomparso per chiedergli un favore.

Si incontravano di nuovo così. Per un misero favore. Una cosa tanto infima ed egoista per una cosa di proporzioni mastodontiche come il suo romanzo, che avrebbe meritato un trattamento di gran lunga più rispettoso sia da parte di Meier che dell'autore stesso. Lo scarto tra le due cose, di cui era di colpo cosciente, gli fece venire voglia di voltare i tacchi e tornarsene a casa senza la benché minima benedizione del professore.

Ma Sonne restò.

Gli studenti, a un certo punto, ringraziarono e uscirono dalla stanza, oltrepassando l'ultimo arrivato con un'occhiata indiscreta. Una volta chiusa la porta, il silenzio calò dal soffitto. Erano sempre stati così bassi, i soffitti, lì? E il pavimento sempre di quella moquette dall'odore stantio?

«Vieni, Sonne, accomodati» gli disse Meier, mentre sistemava dei documenti personali in una cartella.

Sonne avanzò e si sedette su una delle due poltroncine davanti a lui. Si accorse di non aver ancora pronunciato nemmeno una parola. Attese che il professore finisse di fare qualunque cosa stesse facendo. Si sentì tornare un suo studente; non come quando il loro rapporto si era intensificato, ma come la prima volta che era andato a parlargli, per chiedergli delucidazioni sul programma d'esame.

Lo scrutò con curiosità. Dopo sei anni non era invecchiato alla velocità che ci si poteva aspettare. Era ormai prossimo alla pensione, ma non aveva perso neanche un briciolo del suo vigore intellettuale, che si rivelava soprattutto nella passione di cui erano intrisi gli occhi, mai miopi o affaticati, e anche il suo corpo non dava l'idea si essersi inflaccidito. Aveva sì messo peso, ma irrobustendosi. Il viso era curato e senza un filo di barba. Aveva soltanto più capelli bianchi, e più corti, rispetto all'ultima volta che si erano visti.

Sonne si guardò intorno per scoprire se ci fossero altre novità. Alle spalle del professore erano appesi alcuni poster e locandine di incontri, progetti e convegni che aveva organizzato o a cui aveva partecipato. Poi, incorniciata, una copia della Marzella di Kirchner, il pittore tedesco che più gli stava a cuore e a cui in passato avevano dedicato insieme numerose riflessioni. Per il resto, lo studio era sobrio e arredato con quei mobili assemblabili tutti uguali che si trovavano in qualsiasi studio, fatta eccezione per una piccola biblioteca privata da cui Sonne a lungo aveva attinto, con il suo benestare, per non parlare della ricchissima collezione nell'appartamento a Steinstraße.

In ogni caso, nessuna peculiarità che rivelasse la sua predilezione per gli uomini. Stava involontariamente cercando qualcosa a riguardo che magari gli era sfuggito, anni prima, per inesperienza. Ma cosa? Eppure altri studenti si erano sempre detti al corrente della cosa. Si vede, si capisce, insinuavano. Sonne adesso si chiedeva se potesse dare la stessa impressione, dall'esterno, pur nella propria sobrietà (non l'aveva imparata un po' anche da Meier, del resto?). Non gli era mai importato prima, non capiva perché gli importasse adesso.

Quando Heinrich richiuse la cartella, infine, rilassò la schiena sulla sedia e gli rivolse un sorriso mite. Questo poteva significare che un po' di affetto per Sonne gli era rimasto, nonostante tutto. «Allora!» esclamò, prendendo la copia del suo romanzo da sotto la cartella – era lì, era proprio lì e Sonne non l'aveva notato, scambiandolo per qualcos'altro... «Spero non ti dispiaccia che io abbia preso un po' di appunti. Era per tenere a mente le considerazioni che affioravano man mano.»

Glielo porse allungando un braccio sopra la scrivania. Sonne lo afferrò, sorpreso, e si mise a sfogliarlo. «No... anzi, la ringrazio. È un aiuto davvero prezioso.» Vide che alcune frasi erano sottolineate, in segno d'apprezzamento, altre erano addirittura corredate di punti esclamativi a lato. Altre ancora erano cancellate, o presentavano correzioni e suggerimenti. Degli asterischi conducevano a degli appunti scritti in una grafia meravigliosamente comprensibile a bordo pagina.

Sonne percepì un nuovo tipo di calore dentro di sé, nel tenere tra le mani quell'oggetto che era la commistione perfetta della sua creatività e del giudizio atteso del mentore. Allora non era stato tutto vano, pensò. Ad Heinrich, in fondo, faceva piacere incontrarlo di nuovo. Guardava la sua reazione, infatti, soddisfatto.

D'altro canto, Sonne sentì quel familiare imbarazzo benevolo sfiorargli la pelle dietro le orecchie, in particolare quando l'altro si accorse delle sue dita ancora sporche di inchiostro, come se avesse colto un ragazzino con le mani nella cioccolata.

«Scrivi così tanto che ormai non va più via?» gli chiese ironico.

Sonne richiuse il manoscritto e scosse la testa, anche lui con un sorriso. «Credo che le cose che ci ossessionano finiscano prima o poi per diventare visibili e permanenti anche sul nostro corpo, in un modo o in un altro.»

«Si sente, che questo romanzo ti ossessiona. Sono felice che hai già la certezza di pubblicarlo con un editore importante, e mi lusinga che tu abbia voluto conoscere comunque la mia opinione. Hai già un titolo?»

«In verità no. Credo che lo sceglierò alla fine.»

«Bene» annuì lui. «Tienimi aggiornato, poi. Volevo chiederti come continuasse la storia, ma sono quasi tentato di aspettare la pubblicazione per gustarmelo senza anticipazioni.»

«Come preferisce» ribatté Sonne, compiaciuto. «Però c'era una questione di cui volevo parlarle, proprio riguardo a un possibile finale...»

«Allora ti ascolto.»

Sonne gli spiegò a grandi linee la direzione che stava prendendo la trama e gli espresse gli ultimi dubbi che gli erano rimasti intorno all'ambientazione e alla presenza di un personaggio che non sapeva se inserire o meno: se stesso. Non era sicuro delle implicazioni di quell'operazione. Era in grado di calarsi a tal punto nella sua storia, più di quanto stava già facendo, senza rimanerne sopraffatto? Sonne confidava nell'assennatezza di Heinrich Meier per poter prendere la migliore decisione possibile.

«Intendi un alter-ego o proprio... te, con tutta la componente autobiografica?» gli chiese.

«Me, esatto. Me come scrittore della storia.»

«Potrebbe essere un azzardo. È un tocco un po' postmoderno che potrebbe ribaltare il senso del romanzo. Se ci sei tu, scrittore che si palesa, il senso finale è che tutto il libro non sia stato nient'altro che un'illusione, un'utopia irraggiungibile, un esercizio di immaginazione.»

«Non lo è, un esercizio di immaginazione? È proprio la premessa del romanzo: cosa sarebbe accaduto se la Germania si fosse riunita sotto il socialismo della DDR. Il lettore lo sa già. E la mia presenza non renderebbe meno reale il mondo che ho creato, né nella sua mente né in quella dei personaggi.»

«Molto postmoderno, ribadisco. Onestamente non mi convince. Trovo molto più sensato e critico il piglio realistico.»

Discussero ancora per un po' di quella questione, sciorinando riferimenti ad autori e opere di tutta l'Europa e non solo – tutte le «influenze contemporanee» che Meier aveva notato nel romanzo, che l'avevano stupito e a tratti anche contrariato. Però parlarono anche di quanto Sonne fosse «migliorato con la gestione dei personaggi», che non si muovevano più nella dimensione del racconto e non ruotavano più attorno a un unico aspetto del loro carattere, un solo desiderio o un solo conflitto, ma avevano «grande umanità e grande autonomia». La complessità degli argomenti fece loro perdere la cognizione del tempo, così com'era accaduto tante volte anni prima. Sonne non aveva mai più trovato una persona con cui potesse parlare come con Heinrich.

Fu un incontro tranquillo, acceso nei toni solo quando si toccava la materia più spinosa, e l'imbarazzo sparì molto presto, tanto che non ne restò nemmeno una traccia.

Sei anni non sembravano mai trascorsi.

«Vedo già la stampa liberale infervorata per questo romanzo» gli disse il professore dopo un po', divertito dalla sua stessa previsione.

«Ammetto che questo non mi rassicura.»

«Sonne... non ti è mai importato di assecondare i gusti il pubblico. Fa' che resti così.»

«Non si tratta di compiacere il pubblico, quanto più di averci a che fare, di doverci parlare... di dover affrontare tante reazioni differenti. In un certo senso, preferivo restare nella mia nicchia confortevole.»

Heinrich fece una pausa. «Tu sei uno degli scrittori più in gamba della tua generazione. Lo posso affermare con certezza e non perché sono di parte. Stavi aspettando da tempo il momento di far emergere la tua voce. Il romanzo ti ha dato questa possibilità molto più dei racconti... perché tu ti eri rinchiuso da solo a forza in quella formula che ti dava sicurezza, te l'ho sempre detto, mentre in realtà volevi esplodere e perderti nella tua stessa immaginazione, collegare tutto, scomodando persino la Storia, con la S maiuscola, capisci? Ho fiducia nelle tue capacità. Ne ho sempre avuta. La gente merita di scoprirti. E se dovessero esserci delle reazioni negative... tu instaura un dialogo. Sei perfettamente in grado di spiegarti e raccontare quello che hai scritto, proprio come stai facendo con me ora. Ti garantisco che ogni volta che ne parlerai a qualcuno scoprirai cose nuove anche di te stesso.»

Ecco la sua verità, la verità che Sonne stava aspettando.

«Grazie» fu l'unica cosa che riuscì a replicare, con un filo di voce. Aveva bisogno di sentirsi dire qualcosa del genere, di parole autentiche che non fossero del suo agente o dell'editore, né tantomeno di Richard e Verena.

Lo straniva pensare che Meier non sapesse nulla di loro; dopotutto Sonne non avrebbe saputo neanche come introdurre l'argomento. Dunque non poteva conoscere la verità su di lui fino in fondo. Non sapeva che la sua creatività era esplosa di nuovo grazie a Richard e Verena, o che si era bloccata dopo aver rivisto suo padre. Quella parte rientrava nel paradigma dell'inesprimibile.

Meier approfittò della chiusura del colloquio per riempirsi un bicchiere d'acqua e schiarirsi la voce. Si era affaticato più che durante una lezione, in un certo senso, ma con più piacere. Offrì da bere anche a lui.

Sonne accettò l'acqua. Era anche un po' sudato, per via della tensione accumulata e perché non si era tolto il cappotto.

Heinrich lo osservò con uno sguardo all'improvviso serio. «Comunque, Sonne... come stai? Non te l'avevo ancora chiesto.»

Non si trattava di convenevoli. Sonne lo sapeva che era una domanda sincera, forse un modo per indagare non troppo apertamente sul suo comportamento scostante degli ultimi anni.

In effetti era una domanda a cui era difficile rispondere, così come tutte quelle che si poneva di continuo in quel periodo. Come raccogliere in un'unica risposta la sua felicità per Richard e Verena, l'angoscia dell'al di là, l'eccitazione della scrittura, la lotta che ancora combatteva con il suo corpo e con il fuoco, l'autoreclusione, la follia che divorava la ragionevolezza?

Impensabile, poi, parlargli delle sparizioni. Avere un segreto così grande, qualcosa che chiunque altro non sarebbe mai stato in grado di comprendere senza poter testimoniare con i propri occhi, lo inorgogliva e turbava al contempo.

Cercò di semplificare senza mentire. Con quell'incontro gli sembrava di star tornando alla normalità e voleva evitare lui stesso di pensare all'inspiegabile. «Sto bene proprio perché ho ripreso a scrivere. Gli ultimi tre anni sono stati un abisso da cui sembrava impossibile uscire. Adesso però ho incontrato due persone che mi hanno cambiato la vita. Se sono qui è anche grazie a loro.»

Meier parve colpito da ciò che aveva detto. «Mi fa piacere» assentì, cortese. Poi ponderò per qualche secondo sulle molteplici interpretazioni dell'ultima frase. Ricordava che nel modo di parlare e raccontare di Sonne si celava sempre un contenuto inaspettato. «Non intendi che ti hanno accompagnato qui ad Amburgo, immagino.»

«No, non intendo quello.»

«Tempo fa mi avevi detto la stessa cosa di un'altra persona.»

Sonne nascose un sorriso. Stava parlando di Richard, ovviamente. Heinrich sapeva che gli aveva salvato la vita, sapeva quasi tutto. Non sapeva, però, che Richard era anche una delle due persone che l'avevano salvato adesso. Che era tornato da lui.

Il professore fece un'altra lunga pausa, come se si stesse preparando ora a pronunciare la cosa definitiva e stesse cercando di stabilire se fosse pronto ad ascoltarla.

Posò davanti a sé il bicchiere vuoto, che provocò un rumore sordo sulla superficie della scrivania.

«Sapevi che Richard Wagner è morto?»

La tranquillità svanì di colpo e Sonne avvertì un senso di gelo dietro la nuca.

Per qualche attimo regnò il silenzio.

«Richard chi?» chiese, sforzandosi di rimanere posato.

«Wagner. Quello che ti ha portato in salvo durante l'incendio.»

«Si chiama Richard Weigl.»

«Sono abbastanza sicuro che sia Wagner. È morto circa due anni fa. Di overdose, pare.»

Sonne corrugò la fronte. «Scusi, ma chi gliel'ha detto?»

«In università se n'è parlato. I ragazzi del giornale gli hanno dedicato anche un articolo, se non sbaglio, proprio per commemorare le sue gesta nell'episodio dell'incendio.»

Sonne cominciò a innervosirsi. Venne a galla un moto violento di gelosia nei confronti di Richard. Tutt'a un tratto gli pareva un affronto anche solo che Meier lo nominasse.

«Non può essere, glielo assicuro. Deve essersi confuso con qualcun altro.»

Il professore distolse lo sguardo, alla maniera di qualcuno che si addolora nel portare cattive notizie. «Sonne... mi dispiace che tu venga a saperlo soltanto adesso. So quanto abbia significato per te. Da un lato, e bada, forse è insensibile dirlo, potrebbe essere l'occasione per finire quel racconto ispirato a Mann di cui mi avevi-»

Insisteva. Ma Sonne non lo fece neanche finire. Si alzò di scatto dalla poltroncina, facendo cadere la copia del romanzo a terra, ai suoi piedi. Non aveva più niente da fare lì. La sua dignità non gli permetteva di farsi prendere in giro in quel modo. Guardò Meier con un'occhiata gelida, perché il gelo si era ormai propagato tutt'intorno. Come osava raccontargli una simile bugia, proprio quando gli aveva confessato di essere felice? Voleva vendicarsi del suo rifiuto di sei anni prima?

L'uomo che era stato grande ai suoi occhi fino a quel momento diventò improvvisamente piccolo e ripugnante, o peggio, insignificante. Un uomo che sapeva così tanto e che eppure dimostrava di non sapere niente.

«La ringrazio per il suo tempo, professore. Adesso però la saluto, si è fatto tardi.»

«Sonne, credi che io stia mentendo?» tentò di fermarlo Heinrich.

Ma Sonne voltò le spalle con un misero «Arrivederci» e uscì in fretta dallo studio dimenticandosi anche di raccogliere il manoscritto dal pavimento.




Dopo poco era di nuovo nel piazzale principale del campus. Camminava così velocemente da non essersene neanche accorto. Si dirigeva alla fermata dell'autobus più vicina. Aveva intenzione di andare in albergo. Una volta lì, avrebbe subito chiamato Richard e Verena. Avrebbe risentito la loro voce. Era un peccato, pensò, non poter comunicare con il pensiero in quel frangente.

Sto tornando da voi.

Domani.

Domani saremo di nuovo insieme.

Non sarei mai dovuto venire.

Vi chiedo perdono.

Perdonate questo povero scrittore illuso.

Sperava – ma ne era già convinto – che non appena li avesse rivisti l'amaro che sentiva sulla lingua si sarebbe dissipato. Non aveva nient'altro che loro su cui contare affinché venisse sostituito da una sensazione di gran lunga più dolce.

Si fermò sul marciapiede. Il semaforo era rosso. Stava quasi per attraversare lo stesso, perché ormai era del tutto assente e non vedeva più niente di quella città, anzi si rifiutava di vedere, perché si era rintanato in automatico nella propria testa, un guscio che gli avrebbe sempre dato rifugio dalla realtà. Non fece caso neanche alla pioggerellina che aveva iniziato a cadere.

Le parole di Meier continuavano, contro la sua volontà, a risuonargli nella mente. Richard Wagner. Morto. Due anni fa. In università se n'è parlato. I ragazzi del giornale. Overdose, pare.

Sonne si immobilizzò dinanzi alle strisce pedonali.

Scattò il verde, ma solo le persone accanto a lui si mossero in avanti.

Overdose.

Si soffermava adesso su quel particolare. Se Meier stava mentendo, come faceva a sapere dei sospetti che Sonne aveva sempre nutrito sul passato di Richard? Era una delle poche cose che non gli aveva detto, ne era sicuro. Perché specificare di che morte fosse morto il Richard della sua bugia, centrando un dettaglio delicatissimo della sua vita di cui neanche Sonne era certo?

Si disse, allora, che doveva trattarsi di un errore o di un fraintendimento, forse causato proprio dal giornale dell'università. Chiunque fosse Richard Wagner, non era il suo Richard, e nessuno doveva azzardarsi a pensarlo.

Stava per scattare di nuovo il rosso. Sonne avrebbe dovuto accelerare il passo e proseguire.

Invece tornò indietro.

Si era ricordato che al secondo piano del Philosophenturm c'era un archivio in cui custodivano anche le copie del giornale, per cui un tempo anche lui aveva scritto due o tre articoli. Forse l'avrebbero fatto entrare, se l'avessero riconosciuto.

S'incamminò di nuovo verso l'edificio con la stessa rapidità, come attirato da un magnete, senza nemmeno chiedersi perché lo stesse facendo. Non aveva di certo bisogno di conferme. Ciò che lo muoveva era unicamente la curiosità di svelare l'arcano e scoprire l'origine di quella fandonia – e pensare che Richard non aveva mai potuto smentirla perché se n'era andato... Magari anche a Dresda dicevano lo stesso di lui. Non dà notizie di sé a suo padre da più di un anno, sarà morto. Come biasimarli.

Era tranquillo.

(Se lo diceva da solo.)

Stava soltanto cedendo al suo desiderio di chiarezza.

(Al realizzare che qualcosa non tornava.)

Tra poco avrebbe fatto luce su quell'assurda vicenda così da poterne ridere con Richard e Verena, protetti a casa sua.

La torre gli riaprì le porte e poi anche l'ascensore.

Bussò all'archivio con la schiena dritta e il respiro controllato, ma c'era qualcosa in lui che stava tremando. Più cercava di fermarla, più tremava. Sulla soglia comparve uno degli studenti che si occupavano della gestione dell'archivio come attività integrativa, con un cartellino appeso al collo. Gli chiese il permesso scritto per entrare. Sonne rispose che non ce l'aveva, ma disse di essere un ex studente che aveva assolutamente bisogno di consultare i vecchi numeri del giornale dell'università. Il ragazzo non voleva farlo passare. Sonne s'intestardì specificando che lo mandava il Professor Meier. Sul viso dell'altro passò per un secondo un'ombra di soggezione, però non demorse. Accadde poi che Meier in persona si manifestò alle sue spalle, come se fosse sceso dall'ottavo piano proprio per cercarlo.

Gli poggiò una mano sul braccio, guardando fisso il ragazzo dell'archivio, composto e severo. «Sì, l'ho mandato io. Ha bisogno dei numeri del '91. Cercali per lui, per favore.»

Sonne fu sul punto di dirgli qualcosa, anche se non sapeva bene cosa, ma Meier gli rivolse una sola, ultima occhiata prima di allontanarsi dal corridoio in silenzio e con un passo un po' zoppicante. Nonostante la sua reazione di poco prima era venuto comunque in suo aiuto. Ma non sarebbe più successo, perché Sonne gli aveva mancato di rispetto.

Era quello il loro vero saluto, dunque. Un addio.

Avrebbe potuto raggiungerlo e scusarsi, ma non stette troppo tempo a rifletterci. Preferiva consultare gli articoli. Persino Meier voleva che entrasse e leggesse ciò che aveva letto lui. Si fece condurre dal ragazzo a una scrivania all'ingresso. Altre persone lavoravano lì dentro senza fiatare. L'archivio era molto esteso, conteneva stanze dentro stanze e reggeva tutta la propria esistenza sulle scartoffie. Odorava di carta vecchia e di polvere. Non c'era molto altro a parte gli scaffali, i cassetti, e quelle presenze così taciturne da ricordare i visitatori di un cimitero. Lo studente s'infilò in una delle stanze. Sonne lo attese tamburellando le dita ancora sporche di inchiostro sulla scrivania, con le ginocchia che puntavano nella direzione in cui era scomparso. I soffitti erano davvero troppo bassi in quell'edificio. Gli facevano mancare l'aria.

No, forse avrebbe dovuto andarsene. Non era necessario chiarire quella faccenda. Richard era a casa; era una delle cose di cui era più sicuro al mondo (anche se ogni tanto spariva), che sarebbe sempre stato al suo fianco.

Il ragazzo gli portò una pila di dodici giornali, di una carta quasi grigia. Babel, la testata, che non era cambiata rispetto all'ultima volta che ne aveva tenuto in mano una copia, svettava in un carattere più grosso in cima alla prima pagina.

Gennaio 1991.

Sonne lo sottrasse alla pila e lo sfogliò prestando attenzione soltanto ai titoli e alle foto. In evidenza, numerosi articoli sulla riunificazione e sulla crisi dell'Est. Helmut Kohl, Thilo Sarrazin, Hans Modrow. Nessun Richard Wagner. Anche se, come cognome, gli suonava familiare. Non poteva che essere così: era uno dei cognomi tedeschi più diffusi.

(«Weigl... Ero convinto che fosse Wagner.»

«No, sempre stato Weigl. Hai la memoria corta per essere uno scrittore.»)

Febbraio. Nulla che per lui fosse rilevante.

Marzo e poi aprile. Omicidio Rohwedder, RAF. Si iniziava a creare una nuova pila di numeri già sfogliati. Le sezioni più interessanti erano indubbiamente quelle che parlavano dei cambiamenti interni all'università. Se avesse avuto tempo, Sonne avrebbe letto quei giornali volentieri per scoprire le trasformazioni a cui non aveva assistito.

Maggio. Cominciava a perdere le speranze, in senso positivo. Non c'era niente, niente, niente che riguardasse Richard.

Giugno.

Voltò le pagine una a una finché, tra le ultime, non trovò un titolo che annunciava: Si spegne giovanissimo un nostro compagno. Sonne strizzò gli occhi e abbassò la testa per leggere meglio, seguendo con il dito il breve articolo che gli era dedicato. Richard Wagner. Studente di Medicina. Figlio del noto chirurgo Eduard Wagner. 21 giugno 1991 (il primo giorno d'estate). Overdose. Eroe che «ha salvato la vita a un altro studente durante l'incendio avvenuto quattro anni fa». Che la terra gli sia lieve.

Accanto al testo, Richard, il suo Richard con i capelli scarmigliati e il viso un po' più affilato, gli sorrideva guardandolo dritto in faccia in uno scatto stampato in bianco e nero, eppure luminosissimo.

Sonne balzò in piedi, i palmi ancora premuti sulla carta grigia del giornale e il cuore impazzito.

Fissava la foto come se la stesse interrogando in attesa di una risposta.

Non puoi essere tu.

Sonne provò a riflettere per capire che cosa fosse stato a generare un errore così abominevole nella continuità del quotidiano, ma, semplicemente, non ne fu capace. Una fitta al centro del petto glielo impedì.

Ebbe orrore di quella fatalità. Corse a toccarsi all'altezza del cuore con la mano e gli sembrò che non ci fosse più battito. Il ragazzo che gli aveva portato le copie del giornale gli si avvicinò per chiedere se stesse bene, ma lui si fiondò fuori dall'archivio alla ricerca di un posto in cui stare da solo. In cui morire da solo.

Il corridoio si era riempito di gente, insegnanti, personale e studenti in movimento. Sonne scansò senza garbo tutti quelli che gli capitavano davanti, con la vista che gli si appannava. Tutto si stava comprimendo, annodando, attorcigliando intorno al suo cuore per bloccare il passaggio dell'aria e del sangue o di qualunque cosa ci fosse all'interno del suo corpo.

Si precipitò nei bagni degli uomini e andò a chiudersi nell'unico libero. Il suono del chiavistello gli assicurò che non l'avrebbero disturbato.

Si accasciò a terra, accanto al water, bagnando il cappotto sul pavimento appena lavato, e si portò le ginocchia al petto perché lì dentro con le gambe distese proprio non ci stava. Si prese la testa tra le mani, chiuse gli occhi e mormorò come un mantra parole di cui a breve non avrebbe avuto neanche più memoria.

Cercò di respirare, tra il rumore degli scarichi e l'odore penetrante di detersivo: se qualcuno avesse forzato la porta in quel momento avrebbe contemplato dall'alto la creatura terrorizzata che era.




Mal di testa.

Tutto ciò che Sonne riuscì a capire quando riaprì gli occhi il giorno dopo, all'alba, era che si sarebbe volentieri dato una botta in fronte per non dover sentire più niente. Il suo sonno era stato così beato e pieno di nulla che adesso lo rimpiangeva.

Si era addormentato vestito, sopra le coperte di un letto matrimoniale, supino come un morto nella sua bara. Si accorse che aveva alzato troppo il riscaldamento, che era rimasto acceso tutta la notte. Quante ore aveva dormito? Sul comodino si stagliava controluce la bottiglia di rhum che aveva dimezzato.

Si detestò. Non si era mai ubriacato nella sua vita, ma le circostanze del giorno precedente l'avevano portato a credere che, per una volta, fosse una buona idea. L'alcol non era pericoloso se in giro non c'erano accendini. Ora, per ragioni diverse dal fuoco, bruciava tutto dentro di lui, quella massa di organi che sembrava essersi agglomerata e pressata tutta insieme per rendergli ancor più difficile l'esistenza nel corpo. Era destinato a bruciare in ogni caso.

Cercò di fare mente locale alzandosi a sedere, tuttavia il movimento gli causò un repentino conato di vomito. Barcollò fino al bagno della camera giusto in tempo per non rimettere fuori dalla tazza. Non durò molto; non aveva mangiato nulla, d'altronde, aveva lo stomaco vuoto. Scaricò subito per non far diffondere la puzza nell'ambiente, dopodiché si diede una sciacquata. Inevitabilmente nello specchio incontrò il suo volto pallidissimo e madido di sudore.

Si spogliò, dato che aveva ancora indosso i vestiti con cui era stato all'università. Girò per la stanza senza accappatoio, nudo, una cosa che probabilmente non faceva da quando era bambino. Si sedette di nuovo sul letto e fissò la parete davanti a sé, sulla quale erano incorniciate alcune stampe di Amburgo, l'unica decorazione e tocco di vivacità nell'arredamento classicheggiante: uno scorcio del porto, di Sankt Pauli, dei canali. Al di sotto, un tavolino con un televisore e il telefono dell'albergo.

Adesso la successione degli eventi tornava chiara. Dopo essersi calmato, nei bagni del Philosophenturm, era andato a prendere l'autobus. Rigido e dissociato, aveva proseguito per inerzia. Era sceso ad Altona, dove aveva prenotato una notte in un albergo alla sua portata. Non appena gli avevano consegnato le chiavi della stanza, Sonne aveva chiesto un favore a una cameriera robusta che stava trasportando le lenzuola da lavare su un carrello nel corridoio. Lei, seppur stranita, non era stata affatto intimidita da lui e perciò l'aveva assecondato. Doveva fare una chiamata per conto suo.

Aveva composto il numero dell'appartamento a Brema e le aveva passato la cornetta. «Mi deve solo dire se le rispondono.»

La donna non aveva fatto neanche in tempo a prenderla dalle sue mani che la voce di Richard era emersa dal ricevitore, così squillante che Sonne aveva potuto distinguere le sue parole senza che gli venissero riportate. «Alla buon'ora! Cominciavamo a temere che fossi stato rapito.»

La cameriera l'aveva scrutato come per chiedergli se dovesse dire qualcosa di rimando o meno.

Sonne aveva scosso la testa.

«Sonne...? Sei tu?»

E poi aveva premuto un dito sul gancio per far cadere la linea. «Ha sentito anche lei?» aveva domandato alla donna. «La voce di un ragazzo.»

«Sì... cosa avrei dovuto sentire?» Intuì, dall'accento, che proveniva dalla Germania dell'Est.

Sonne non aveva dato spiegazioni. L'aveva congedata, aveva richiuso la porta con il preziosissimo Bitte nicht stören (2) appeso alla maniglia ed era andato ad aprire il minibar senza ripensamenti. Non sapeva neanche quanto gli sarebbe stato addebitato in più sul conto. Aveva bevuto il rhum direttamente dalla bottiglia, anche se lo disgustava. In un momento indefinito durante il pomeriggio era crollato.

Sonne restò fermo in quella posizione per diversi, lunghi minuti. Intorno alle dieci avrebbe dovuto lasciare la stanza e poi dirigersi alla stazione per tornare a casa. Però non era sicuro di averne le forze. Sentiva di dover fare ancora un ultimo tentativo.

Gli ci sarebbe voluta un'altra giornata. Un'altra giornata per ristabilire il dominio del razionale, in cui una parte di lui – quanto forte, quanto già temprata e messa alla prova? – credeva ancora fermamente.




Mentre camminava per le strade del quartiere di Horn, svelto e con grande distacco, Sonne aveva elaborato una spiegazione. Ci ragionava da ore, da quando aveva fatto colazione in albergo e prenotato un'altra notte di soggiorno alla reception, ma solo a giornata inoltrata gli sembrò di essere giunto a una conclusione abbastanza solida.

Richard doveva aver finto la propria morte.

La prima cosa ad averlo fatto insospettire era stata la sua ostinazione nel rifiutarsi di accompagnarlo ad Amburgo. La seconda, la questione del cognome. Weigl e Wagner. Doveva averlo cambiato una volta fuggito dalla città, per ricominciare da zero, come una persona appena venuta al mondo. E poi aveva vagabondato per un po' prima di arrivare a Brema.

Sonne aveva sempre creduto che espedienti del genere esistessero soltanto al cinema, ma almeno non suonava così assurdo quanto le altre ipotesi che gli erano venute in mente. Richard non gli stava dando scelta: gli restava convincersi che avesse commesso qualche crimine di cui non aveva mai parlato, qualcosa che l'avesse spinto a non rimettere mai più piede a casa. Restava un risentimento tutto nuovo da provare nei suoi confronti.

Aveva sempre saputo, nel profondo, che Richard e Verena nascondessero degli scheletri nell'armadio tanto quanto lui, e tutti e tre erano stati d'accordo nel sottoscrivere una sorta di patto silenzioso per non farli venire mai alla luce, ma non avrebbe mai immaginato che i loro potessero essere più spaventosi dei suoi.

Sonne avrebbe preteso delle spiegazioni al rientro.

Ne sarebbe di sicuro nato un litigio, soprattutto quando Richard avrebbe scoperto che Sonne era andato a parlare con suo padre.

In tarda mattinata si era recato con la metro all'Hamburg-Eppendorf, l'ospedale in cui l'avevano ricoverato dopo l'incendio nell'87, per mettersi in contatto con Eduard Wagner, ma in sala d'accettazione gli avevano detto che non lavorava più lì, bensì in una clinica fuori città o alternativamente nel suo studio nel quartiere di Horn.

Era lì che Sonne si stava dirigendo adesso. Si augurava di trovarlo, anche se aveva stabilito che non sarebbe tornato a casa finché non l'avesse incontrato. Se necessario, avrebbe prolungato la sua permanenza ad Amburgo.

La giornata era fredda. Erano le quattro del pomeriggio e stava già per fare buio. Sonne infilò le mani nelle tasche del cappotto pensando a quanto gli facesse male non potersi più fidare di Richard. Provava una rabbia acuta e silente per tutto ciò che era accaduto nelle ultime ventiquattro ore, nonostante non riuscisse a indirizzarla a lui di preciso, come un tiratore che non sa mirare.

Se si figurava il suo volto rivedeva la foto che avevano stampato accanto all'articolo e si sentiva mancare il respiro. Il suo corpo reagiva come se Richard fosse morto davvero: era stata a lungo, ed era ancora, la cosa più tremenda che potesse immaginare. Perdere la persona che l'aveva salvato sotto innumerevoli punti di vista.

Non voleva incolparlo.

Voleva soltanto sapere la verità.

Trovò il palazzo in cui era situato lo studio del dottor Wagner, un altro modesto palazzo di mattoni rossi con le finestre bianche, tutte chiuse. Suonò al citofono: Eduard Wagner, cardiochirurgo. Ironia della sorte. Sonne chiese di lui alla voce femminile che gli rispose.

Gli aprirono subito il portone.

Lo studio era al primo piano. Era fortunato: il dottor Wagner quel giorno si trovava lì. Sonne entrò in una sala d'attesa illuminata da una rumorosa luce artificiale, dove non era seduto nessuno.

L'assistente, una sua coetanea con i capelli tutti tirati all'indietro e degli occhiali sottili, lo guardò da dietro la scrivania. «Prego?»

«Salve. Mi chiamo Sonne Rothberger, devo parlare con il dottor Wagner.»

«Deve fare una visita? Ha un appuntamento?» gli chiese, ma si mise a controllare da sola sul registro. Diffidava di lui perché non l'aveva mai visto prima.

«No. Posso aspettare la fine delle visite... anche se mi sembra che non ci sia nessuno.»

«Purtroppo non accettiamo visite senza prenotazione. Vuole prendere un appuntamento per la prossima volta?»

«Non devo fare una visita. Si tratta del figlio del dottore, Richard.»

L'assistente alzò di nuovo gli occhi su di lui, stupita. «Oh. Le posso lasciare il suo numero, se vuole... alle cinque il dottore va via, di solito, non si intrattiene mai.»

«Senta... devo parlargli adesso. Sono solo di passaggio qui ad Amburgo.»

Lei stava per rispondergli, ma in quello stesso istante un uomo con il camice bianco uscì da una porta, accompagnato da un paziente piuttosto anziano che lo stava ringraziando e salutando.

«Abbiamo finito per oggi, Lena?»

Era lui, Eduard.

«Dottore, il signore qui voleva-»

Sonne s'intromise per non perdere l'occasione propizia, avvicinandosi anche di qualche passo. «Buonasera, dottore. Mi dispiace se piombo da lei all'improvviso, ma a breve dovrò lasciare la città e non avrò più modo di incontrarla. Devo parlarle di suo figlio Richard.»

Eduard cambiò espressione nel giro di un attimo: s'illuminò, e alla stessa velocità s'incupì. «A proposito di cosa, se posso chiedere?»

«Preferirei parlare in privato.» Fece una pausa. «Non so, in effetti, se si ricorda di me.»

Il medico lo osservò meglio, poi si rilassò in un sorriso un po' debole. «Ma certo, come ho fatto a non collegare? Lei è il ragazzo dell'incendio. Venga, si accomodi pure all'interno.»

Sonne si fece scortare fino alla stanza in cui si tenevano le visite. In quell'ambiente tutto gli fece venire l'angoscia, il colore delle pareti, l'odore, i poster con le raffigurazioni dell'apparato cardiovascolare, il lettino, l'elettrocardiografo e gli strumenti, da quelli più comuni come lo stetoscopio e il misuratore di pressione fino a quelli che non aveva mai visto. La sua andatura divenne più oscillante, tanto che sentì un urgente bisogno di sedersi. Del resto era in giro da ore e doveva ancora smaltire tutti i postumi dell'ubriachezza.

Eduard Wagner si sedette dietro la propria scrivania e gli fece un cenno con il mento perché lui gli si mettesse di fronte. Sonne si ritrovò così in una situazione molto simile a quella che aveva vissuto con Meier il giorno prima. I suoi battiti accelerarono, ma in fin dei conti non era un problema: era un buon posto in cui sentirsi male, quello.

Eduard intrecciò le mani davanti a sé. Aveva un portamento elegante, che ben si confaceva al suo corpo snello e ancora prestante, persino abbronzato, oltre che all'aria da borghese perbene. Dimostrava una cinquantina d'anni, ma doveva averne qualcuno in più. L'aspetto più impressionante per Sonne, però, erano gli occhi, azzurri e identici a quelli di Richard. Se avesse avuto l'ardire di fissarlo più a lungo avrebbe scorto altre somiglianze, ma preferì abbassare lo sguardo, che gli cadde su una piccola cornice d'argento girata un po' di lato in modo che sia il paziente che il medico potessero prestarle attenzione.

Lo trovò lì, Richard, appena adolescente, più basso, magro come un giunco e con una delle sue adorate magliette, in quel caso degli Iron Maiden, abbracciato a suo padre. Richard sorrideva sfacciatamente all'obiettivo, mentre Eduard guardava lui, con un moto di fierezza. Stavano su un prato da qualche parte, una dimensione che non era necessario specificare non esistesse più, e il cielo pareva intenzionato a inghiottirli alle loro spalle. Era naturale per Sonne immaginare che facessero molte gite, visto che il padre era un tipo sportivo.

Eduard aveva notato che stava osservando la foto. «È una delle ultime che abbiamo scattato insieme. In tempi più recenti non me ne concedeva neanche una... però ho sempre pensato che questa fosse molto bella, per questo l'ho scelta.»

Sonne fu diretto. La lucidità lo stava abbandonando. «Dottore... Richard è morto?»

L'altro sembrò perplesso. «Aspetti, non lo sapeva?»

«Me l'hanno detto ieri» chiarì, comprendendo che doveva stare al gioco se anche Eduard Wagner era invischiato. «Ma non ero certo che fosse... una fonte attendibile. Per questo ho cercato in tutti i modi di contattarla. Nessuno più di lei poteva darmi conferma.»

«Capisco. Dunque si trattava di questo.»

Distolse lo sguardo, ma puntarlo sul lettino fu peggio. Gli stava tornando la nausea. «Sì.»

«Non mi risulta che lei... Stefan, giusto?»

Sonne annuì.

«Non mi risulta che lei conoscesse bene Richard. Come mai ha voluto cercare questa conferma a tutti i costi, Stefan?»

«Dovevo saperlo. Richard mi ha salvato la vita, le ricordo. Mi sento legato a lui più di quanto potrei provare a spiegare.»

Eduard si fece più assorto. «Non era ad Amburgo, due anni fa? Avrebbe potuto dedicargli qualche bella parola al funerale. Richard mi aveva detto che lei è uno scrittore. Ci sarebbe stato bisogno di un po' di bellezza. Sono state dette molte cose irrispettose in quel periodo, sa, che se l'è cercata, addirittura che se lo meritava...»

Dunque c'era stato un funerale. E Richard aveva parlato di lui a suo padre. «No, non abito più qui. Vivo a Brema. Avrei voluto esserci.» Erano parole vuote, o forse no; erano le parole che avrebbe detto se Richard fosse morto davvero e non l'avesse mai più incontrato dopo la laurea, che era ciò che stava inscenando. Però capì anche che era il momento di azzardare con qualche domanda, o la verità gli sarebbe definitivamente sfuggita dalle mani. «Mi perdoni se glielo chiedo, ma... chi ha trovato il corpo di Richard?»

Ora stava diventando lui, quello irrispettoso.

Eduard inarcò un sopracciglio proprio come avrebbe fatto Richard. «Io. È successo a casa mia, Stefan. Io ho tentato di rianimarlo.»

Sonne si asciugò le mani sudate sui pantaloni. Le macchie di inchiostro erano ancora lì, anche se più sbiadite. «E non ci è riuscito?»

«Se ci fossi riuscito Richard non sarebbe morto» disse, e la frase suonò più dura di quanto ne avesse intenzione, oltre che stracolma di dolore – solo adesso iniziava a trapelare dalla sua voce, perché per tutti quei mesi si era allenato a trattenerlo. «Se fossi arrivato in tempo... Ma ero in viaggio con la mia compagna, sono tornato al mattino e la festa era già finita. I suoi amici se n'erano andati tutti e così nessuno ha potuto aiutarlo, nessuno si è accorto che mio figlio era andato in overdose.»

«Overdose? Overdose di cosa? Eroina?»

«L'eroina è per la gente di strada, Stefan. Richard e i suoi amici si facevano di cocaina.»

Sonne non poté evitare di immaginarsi la scena: Eduard che entra dal portone di casa, una villetta di quelle moderne con il giardino rigoglioso, entra nel soggiorno open-space e trova Richard accasciato sul divano di pelle con le labbra cianotiche, senza più battito, morto nel sonno, la luce che inonda l'ambiente piovendo da una parete tutta di vetro, i resti del festino sparsi ovunque, bicchieri e bottiglie rovesciate, coriandoli, le bustine vuote di coca sul tavolo, gli ultimi granelli sfuggiti a delle sonore sniffate, i cuscini sul pavimento, la televisione accesa su un canale di musica, ma con il volume al minimo.

Sonne si passò una mano sul volto di nuovo imperlato di sudore. Ma a cosa stava pensando? Perché, perché la sua immaginazione lo costringeva a partecipare?

Richard era vivo. Tutto quello non era successo, tutti gli stavano mentendo per complottare contro di lui.

(Richard era morto.)

Una persona non può essere morta e viva allo stesso tempo.

«Si sente bene, Stefan?»

«Non...» tentò, «non può essersi sbagliato? Magari Richard è scappato, è scomparso...»

Eduard gli rivolse un'occhiata esterrefatta. «Ma ha ascoltato quello che ho detto? Non crede nemmeno a me? Sono suo padre, santo cielo.»

Sonne si alzò, agitato, e si mise a camminare avanti e indietro per la stanza. «Non importa che è suo padre. Richard voleva scappare da lei, perché la odiava, lo sa? Perché lei non l'ha mai accettato. Mi sembra lecito pensare che si sia voluto allontanare il più possibile senza più far avere notizie di sé.»

«Chi diavolo le ha detto queste cose? Io e Richard eravamo molto legati, nonostante i nostri diverbi, così com'era legato a sua madre. Se pure avesse voluto lasciare me, non si sarebbe allontanato da lei neanche sotto minaccia. Era il mio unico figlio ed era ancora un bambino, dentro. Lei... lei non immagina nemmeno quanto siamo stati indulgenti con lui. Forse è proprio qui che ho sbagliato. La smetta di parlare di una persona che neanche conosce. Nessuno le ha dato il diritto.»

«Io lo conosco. Lo conosco. Sapevo della droga anche se non me l'aveva detto.»

«E allora perché non riesce a credere all'overdose?»

«Perché...» Perché è vivo, vive a casa mia, è il motivo per cui io sono vivo.

L'ha sentito anche la cameriera. Non sto impazzendo, Eduard, suo figlio è vivo.

Io amo suo figlio. Questo lei lo sa? Lo sa quanto tempo ho dovuto aspettare per capirlo? Se solo l'avessi capito prima... se solo l'avessi saputo prima e non fossi venuto qui... Lei dice che non ho il diritto di parlare di lui, invece è lei che non ha il diritto di togliermi una delle poche certezze della mia vita.

Stava per dirglielo davvero. Suo figlio è vivo, venga a vedere. Anche se...

Anche se...

Sonne si sentì girare la testa – girò la stanza e tutto il mondo intorno a lui, la figura di Eduard si sfocò. Dovette appoggiarsi al lettino per non finire steso sul pavimento. Quel lettino che gli faceva torcere le viscere dalla paura.

Anche se ogni tanto sparisce. Sa cosa intendo? Che sparisce dalla realtà, va da qualche parte... in cui può comunicare con me e con Verena. Dove c'è una luce che lo chiama. Anche lei. Tutti e due. E non riusciamo a capire che cosa significhi...

Significava che Richard era morto.

In quell'istante tutto si appianò e gli apparì... semplice.

Il Richard che viveva in casa sua era un impostore o un fantasma. Qualcun altro. Qualcos'altro. E così anche Verena.

Non si era accorto che Eduard gli si era avvicinato, che si stava preoccupando di controllarlo, alzandogli una manica. «È meglio che le misuri la pressione.»

«Non mi tocchi!» Sonne si scostò violentemente con una spallata prima che potesse vedere cosa ci fosse sul suo braccio.

Il medico indietreggiò, di colpo intimorito dalla sua stazza, e gli disse gelido: «Allora se ne vada e non mi costringa a chiamare la polizia.»

Sonne non se lo fece ripetere due volte e camminò con passo instabile fino alla porta, poi di nuovo nella sala d'attesa senza salutare, poi sul pianerottolo, poi all'esterno, dov'era ormai calata la sera. Errò per le strade di Amburgo dimenticandosi di affidarsi al senso dell'orientamento, di conseguenza scoprì luoghi che non aveva mai visto, o visto e dimenticato, in-familiari e perturbanti, unheimlich, come avrebbe detto qualcuno (3). Tutta la vita si era d'un tratto fatta unheimlich. E non c'erano vie di fuga, se anche la morte ti riportava indietro, come corpo o come ricordo, fotografia, firma su un documento, qualcosa che c'è stato ed è stato visto. Arrivava così la consapevolezza che venire al mondo è una tragedia: una volta che accade si è condannati per sempre all'essere, anche per poco tempo, esistiti.

Sonne vagò alla ricerca dell'albergo per ore, al freddo. Ma non lo stava cercando davvero. Si ritrovò davanti all'entrata soltanto a notte fonda, quasi per caso. I lampioni facevano luce su di lui e sul marciapiede, mentre le facciate dei palazzi erano tutte scure e impenetrabili. Immaginò come sarebbe stato schiantarsi con un'auto contro uno di essi. Quanta materia si sarebbe crepata. Quanto rumore assordante.

No, non era da lui. Se fosse dovuto succedere, sarebbe stato di sicuro in una maniera di gran lunga più banale, come un infarto. Doveva lasciare la poeticità alle fantasie.

La morte ad Amburgo: ecco come doveva chiamarsi quel maledetto racconto.

E pensare che Aschenbach godeva all'idea che Tadzio morisse giovane, perché in questo modo la sua eterea bellezza non sarebbe mai potuta sfiorire. Aschenbach però moriva prima di Tadzio, nel suo ultimo slancio di godimento, per aver mangiato delle fragole. Sonne sarebbe dovuto morire prima di Richard, nelle fiamme.

Invece la vita aveva avuto qualcos'altro in serbo per loro.







(1) Der Forschung. Der Lehre. Der Bildung: Per la ricerca. Per l'insegnamento. Per la formazione.

(2) Bitte nicht stören: Non disturbare.

(3) Unheimlich: copio la definizione di Wikipedia che è davvero molto chiara. "È un aggettivo della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud come termine concettuale per esprimere una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, un'impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità."







Note d'autrice:

Ci siamo. Il capitolo che cambia tutto è arrivato. Ammetto che non vedevo l'ora di scriverlo da... mesi, praticamente, oltre che di farvelo leggere. Chiedo perdono per le proporzioni mostruose, sono arrivata a 9k e passa parole (cosa che spero non capiti mai più perlomeno in NEBEL ahahah), ma era necessario per sviscerare per bene le vicende di Amburgo (da qui il titolo del capitolo super semplice e sintentico, Hamburg appunto).

Tuttavia... mi sento di dire che non è finita qui, anche se sono sicura che lo sapevate già. 

È tempo di aggiornare le teorie ♥ (la mia parte preferita) E ovviamente, se vi va, di farmi sapere cosa ne pensate, ci tengo tantissimo cwc

Tanto da qui fino alla fine della seconda parte - fino al capitolo 35 - è tutto un rollercoaster infernale, potete sbizzarrirvi. Se qualcosa che è stato già detto non è chiaro, non esitate a chiedere!

Entusiasmo a parte, ho il cuore a pezzi. Ho di sicuro scordato cosa volevo dire qui nelle note. Per il momento, vi do un abbraccio di incoraggiamento per essere arrivat* fin qui e vi saluto.

A presto, prestissimo.

Grazie.

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