XXVIII. Geister

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N E B E L

XXVIII.

Geister



Fu il rumore delle chiavi che ruotavano nella serratura, con una forza tale che sembrava volessero distruggere la porta di casa e non di aprirla, a farle alzare lo sguardo dal tavolo.

In lei si snodò un moto di euforia.

Finalmente. Finalmente sei tornato da noi.

Verena abbandonò l'impasto per i biscotti che stava preparando, un soffice panetto appiccicoso, si sciacquò al volo le mani e si precipitò in salotto. Richard, che la stava osservando dal divano, si alzò in piedi e la seguì, ma rimanendo un po' indietro.

Si erano rinchiusi con molte mandate. Non per paura che qualcuno potesse entrare nell'appartamento e saccheggiarlo, bensì per esprimere concretamente la determinazione di restare dentro.

Sonne, annullato quell'ostacolo, comparve sulla soglia.

Verena accolse il brivido di sollievo che la pervase in un'onda dalla base del collo ai talloni, tuttavia non bastò a farle dimenticare l'ansia tremenda che aveva provato in quei due giorni. «Diamine, Sonne, si può sapere dov'eri finito? Ci hai fatto morire di paura... potevi almeno avvisare che saresti stato via un altro giorno!» Cercò di non farlo suonare troppo come un rimprovero, anche perché le stava nascendo spontaneamente un sorriso tra le labbra.

Sonne però la guardò a stento, forse nemmeno la ascoltò. Non solo gli tremava la palpebra, ma anche il respiro tra i denti, e aveva le guance arrossate dal freddo. Verena si accorse subito che qualcosa non andava. Il suo lungo cappotto nero era sgualcito, pieno di pelucchi e bagnato di pioggia, come se non se lo fosse mai tolto da quand'era partito, e così i suoi capelli. Dava l'impressione di un tronco d'albero sopravvissuto per miracolo a una frana.

Si voltò per cercare Richard con lo sguardo. Quando lo individuò – gli ci era voluto qualche secondo in più per vederlo davvero – lasciò scivolare lo zaino a terra e si fiondò su di lui.

Gli afferrò il volto con entrambe le mani, ma non per baciarlo. Solo per fissarlo, con gli occhi spiritati.

Richard indietreggiò fino al muro, sorpreso da quel gesto insondabile, ma Sonne non gli tolse le mani di dosso, anzi, lo spinse anche lui contro il muro, a dire il vero Verena non capì da chi dei due venisse l'azione.

Richard non riuscì a parlare. Sonne prese a tastargli la faccia, la fronte, gli zigomi, il naso, la mandibola, le durezze che permettevano alla sua faccia di essere quella che era e di non sciogliersi all'improvviso in una brodaglia di carne e sangue. Cercava qualcosa. E tutto, del volto di Richard, non faceva che confermargli di non averla – o averla – trovata.

Anche lui aveva spalancato gli occhi. In un certo senso, la sua espressione e quella di Sonne erano identiche. Riflettevano un tipo di terrore diverso, però. Richard non capiva cosa stesse accadendo, e la sua paura, così vivida da avergli fatto assumere il colorito di un crisantemo, era la diretta conseguenza di quel disorientamento.

Sonne, invece...

Sonne smise di toccarlo e fermò le mani sul suo collo. Solo allora Richard trovò delle parole da pronunciare, seppur ancora pietrificato e intrappolato dal corpo dell'altro.

«Ma... che ti prende?» chiese in un soffio.

Sonne si scostò bruscamente e arretrò di un paio di passi, oscillando su se stesso, senza mai distogliere lo sguardo da Richard.

Verena gli si avvicinò e fece per posargli una mano sul braccio, ma lui le sfuggì prima che potesse raggiungerlo. Semplicemente, voltò loro le spalle e andò a chiudersi in camera sua.

Altro rumore di chiavi.

Altra separazione.

Aveva persino lasciato lo zaino a terra.

Verena guardò Richard spaesata. Richard, ancora esangue come se Sonne avesse prosciugato qualcosa da lui, adesso sembrava anche deluso. Non poteva biasimarlo. Avevano aspettato il ritorno di Sonne con trepidazione per due giorni, fremendo di riabbracciarlo e di consolarsi in una rinnovata bolla quotidiana oltre che nella sua protezione, e lui si ripresentava così, in uno stato alienato, fuori di sé.

Non faticava a immaginare che gli fosse successo qualcosa. Ebbe uno strappo al cuore nel confrontarsi con la porta sprangata della sua stanza, adesso più simile a un muro. Era tornato ma era come se non fosse tornato. Era ferito, a un livello tale che Verena riusciva a percepire la sua sofferenza sospesa nell'aria, un miasma visibile controluce insieme ai granelli di polvere che si erano accumulati nelle ultime settimane.

Richard avanzò verso la porta.

«No, aspetta» lo bloccò lei. «Diamogli il tempo di calmarsi. Non ci aprirebbe comunque, adesso.»

Lui frenò, tentennò, si grattò la nuca, imprecò sottovoce. «Che cazzo è successo secondo te?»

Verena si lasciò cadere sul divano con le mani tra le ginocchia. «Non lo so.» Si stupì genuinamente di quanto il proprio tono fosse impaurito. Era come se avesse assistito al crollo di una pietra dal soffitto e ora dovesse prepararsi al crollo imminente di tutta la casa. Era una questione di secondi. Non poteva aggrapparsi a nulla, non c'era niente che potesse mettere in salvo. Non le rimaneva altro che precipitare insieme al resto. Lo ripeté. «Non lo so.»




«Mi formicola ancora la faccia.» Richard si tastò le guance, anche se con meno foga rispetto a come aveva fatto Sonne qualche ora prima. «Ho qualcosa sulla faccia, Reni?»

Verena lo osservò corrugando la fronte. «No.»

Richard batteva ritmicamente il piede sotto il tavolo dal nervosismo. Erano seduti l'uno di fronte all'altra, in cucina, proprio sotto il fascio di luce smorta del lampadario, e avevano cenato in fretta in un'atmosfera spettrale, e senza biscotti come dessert, perché Verena non li aveva più infornati. Sonne invece era rimasto a digiuno: non era mai uscito dalla stanza.

«Che dici, ora possiamo andare a chiamarlo?»

Verena guardò l'orologio appeso alla parete. Erano le venti. Il limite che si erano dati. Non avrebbero aspettato oltre.

Si alzarono e percorsero l'uno dietro l'altra, cauti, la distanza che li separava dalla porta di Sonne.

A dare un primo paio di colpi con le nocche fu Richard, ma la voce gentile che lo chiamò fu quella di Verena: «Sonne?»

Richard provò a ingoiare il silenzio che ricevettero in risposta, ma gli restò bloccato in gola. Bussò di nuovo, e stavolta si aggiunse anche lui. «Sonne, come stai? Puoi uscire per favore?»

Verena appoggiò una mano sulla superficie della porta come se volesse accarezzare il volto di Sonne dall'altro lato.

Ma lui persisteva nel suo mutismo.

Mai si erano infilati nel ritaglio di casa proibito che era quella stanza, eppure mai come in quel momento Richard avrebbe voluto crearsi un varco per entrare e andare a scuoterlo di persona. Si tratteneva soltanto perché aveva acconsentito alla richiesta di Verena di prenderlo con le buone, anche se era già consapevole che non avrebbero ottenuto risultati.

Era arrabbiato. Avrebbe voluto riavvolgere il nastro e tornare a due giorni prima per impedirgli di partire. Era tutta colpa di quella città maledetta. Lo sapeva, lo sentiva che nessuno di loro avrebbe più dovuto avvicinarsi, a meno di non voler essere investito dalle forze maligne che vi strisciavano silenti, in agguato. Sonne aveva trovato qualcosa o qualcuno, lì ad Amburgo, che l'aveva sconvolto. Richard avrebbe dato qualsiasi cosa pur di raderla al suolo seduta stante. Si augurò che non facessero in tempo a disinnescare una delle innumerevoli bombe inesplose della guerra che trovavano puntualmente in quella zona e che saltasse tutto in aria, in coriandoli di cemento, vetro e acciaio. Poteva sopportare che Amburgo avesse fatto del male a lui; non poteva sopportare che ne avesse fatto a Sonne.

«Avevi promesso che saresti tornato presto» insisté, con una voce più perentoria. «Beh, ora torna

«Non vedevamo l'ora» si accodò Verena. «Per favore, Sonne...»

Stavolta ci fu una risposta. Tempestiva, appena ovattata, stanca e brutale.

«Andate via.»

Richard e Verena si guardarono. Un'ombra calò su entrambi e con un movimento languido trascinò verso il basso, sotto terra, i residui superstiti della loro felicità.

Poi lei fece scivolare la mano sulla porta, finché non le ricadde lungo il fianco. Si allontanò con le braccia conserte come per proteggersi e riscaldarsi da quel freddo mortale che le era piovuto addosso. Richard rimase ancora per qualche attimo là davanti. Non è giusto, si diceva. Cosa gli avevano fatto per essere trattati così? Andò a sedersi sul divano biascicando un'altra imprecazione.

Trascorsero le ore successive in silenzio. Richard non riusciva a pensare a nulla che non fosse il Sonne antecedente alla partenza, colui che gli aveva premuto un lungo bacio su ciascuno dei palmi delle mani in segno di saluto, un saluto così devoto da assomigliare all'incontro con un martire o un santo. Richard se li guardò anche quella sera, come se la guarigione dalle ustioni fosse dovuta a quel bacio e non al mese trascorso, in cui aveva dovuto usare e cambiare le bende tutti i giorni per non recare ulteriori danni alla pelle. Per fortuna non si erano formate bolle e il dolore era sparito presto. Adesso gli restava solo qualche macchia rossastra. Se pensava a quante volte si era fatto male a Brema nell'ultimo anno gli veniva quasi da ridere. Era iniziato tutto con il pestaggio in strada di ritorno dalla discoteca, di cui gli restavano due segni evidenti: il naso leggermente più storto e un dente d'argento. Poi si erano inserite anche le sparizioni e i pericoli che comportavano di volta in volta.

Il suo corpo, però, c'era da dirlo, resisteva. L'energia che vibrava dentro di lui non l'aveva mai abbandonato, anche se non di rado Richard aveva temuto che stesse per farlo.

Verena aveva deciso di impiegare quel tempo fluttuando da un lato all'altro della cucina e del salotto per fare le pulizie, nonostante si fosse fatto piuttosto tardi.

«Devo fare qualcosa per distrarmi» aveva detto, più a se stessa che a lui, riempiendo un secchio per lavare a terra.

Richard si era stravaccato davanti alla tv con una sigaretta in bocca. «Che voglia che c'hai. Quando vuoi andare a dormire ti seguo, comunque.»

«Dubito che dormirò.»

«Figurati io.»

Non riusciva a concentrarsi neanche su quello stupido programma di musica che aveva trovato per caso facendo zapping. Ogni tanto tornava in automatico con lo sguardo alla porta di Sonne, da cui non proveniva alcun rumore. Poi picchiettava la sigaretta nel posacenere che aveva appoggiato in bilico sul bracciolo del divano. E poi di nuovo, in un circolo infinito, televisione-porta-posacenere, fatta eccezione per i momenti in cui Verena entrava nel suo campo visivo passando lo straccio bagnato sul pavimento.

Dopo, lei si mise a lavare i piatti e a riporre gli oggetti che aveva lasciato in giro. Le sigarette di Richard intanto erano diventate tre. Dalla stanza di Sonne mai un suono. Richard non sapeva quanto fosse sensato sperare che di colpo uscisse da lì e chiedesse scusa per il suo comportamento, magari con un altro bacio sulle mani. Ma probabilmente si era già addormentato.

Si corrucciò ancora di più all'idea che quella notte non avrebbe potuto accoccolarsi al petto di Sonne come nell'ultimo mese, cosa che gli mancava già da impazzire, insieme al suo respiro caldo sul collo, che gli smuoveva appena i capelli quando s'appesantiva per la stanchezza.

«Forse è colpa del professore» insinuò Verena dal nulla, mentre sistemava sugli scaffali i libri che Sonne le aveva prestato qualche tempo prima e che ormai aveva finito di leggere. Anzi, ne aveva finito uno proprio il giorno che era partito, e gli aveva anche confessato che non vedeva l'ora di parlarne con lui quando sarebbe tornato a casa. Peccato che dovesse rimandare. «Potrebbe avergli detto qualcosa di umiliante sul romanzo.»

«Ci stavo pensando anch'io, ma... cosa c'entriamo noi? Cosa c'entra la mia faccia

Richard non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che il turbamento di Sonne avesse a che fare con lui.

Verena infilò l'ultimo volume nella libreria, che poi era anche il primo che aveva letto, se Richard ricordava bene dalla copertina, quella che aveva visto sparsa per le superfici della casa più volte. Doveva essere stato il suo preferito.

«A volte lo shock ti impedisce di riconoscere le persone, anche quelle che ami... però se si trattasse di questo significherebbe che è successo qualcosa di molto più grave» rifletté lei, facendo scorrere una mano sul dorso dei libri, con fare nostalgico. Aveva già nostalgia di lui. Lui che era nella stanza accanto, eppure distante anni luce, nella sua dimensione privata che nessuno sarebbe riuscito a raggiungere.

Chissà se li stava ascoltando.

«Reni, guarda che mi ha riconosciuto benissimo. È venuto da me apposta. Non riesco a capire perché. Se solo aprisse quella cazzo di porta...» alzò il tono sull'ultima parte, desiderando che sentisse.

Ma Verena si era distratta. Stava ancora fissando i libri, così intensamente che avrebbe potuto consumarli con gli occhi. Indietreggiò di qualche passo. Si era zittita.

«Che c'è?» le domandò lui.

In mancanza di una replica, si alzò dal divano e le si accostò, mettendosi a guardare lo stesso punto che stava guardando lei, uno scaffale che all'apparenza non aveva nulla di strano.

«Che coincidenza» commentò Verena dopo qualche secondo, a voce piuttosto bassa. «Gli autori di questo scaffale hanno tutti i nomi dei miei fratelli.»

Richard strizzò gli occhi e lesse con più attenzione sui dorsi: Günther Anders, Ingeborg Bachmann, Erich Kästner, Christa Wolf, in quest'ordine. Alfabetico, per gli autori. Dal maggiore alla minore, per i fratelli. In effetti era un caso sbalorditivo.

«In pratica manchi solo tu. Devi chiedere allo stronzo di là se esiste qualche autrice che si chiama Verena, così puoi completare il quadro.»

Ma Verena non sembrava intenzionata a fare dell'ironia sulla questione. Distolse lo sguardo e disse soltanto, sbrigativamente: «Lascia perdere. Andiamo a letto.»

Prima di dileguarsi in camera si prepararono due tazze di latte caldo, l'unica cosa che di solito era in grado di tranquillizzarli. L'unico rimedio e riempimento, per Richard, rispetto al vuoto, alla mancanza, ai buchi che aveva scoperto di avere dentro di sé, di cui i tatuaggi che aveva sul braccio e a cui non era più riuscito ad attribuire un significato erano un costante memento, tanto che ormai evitava di osservarli per non farsi prendere dalla smania di strapparseli via.

A volte aveva una voglia così viscerale di latte che se ne spaventava, anche perché gli veniva un curioso tremolio in tutto il corpo se non la soddisfava in breve tempo.

Quella sera, però, neanche quello li confortò. Mentre lo sorseggiavano, si voltarono entrambi un ultimo istante verso la porta di Sonne.




Fino a quel momento non si era soffermato neanche di sfuggita sulla fame.

Il terzo giorno di reclusione Sonne venne svegliato al sorgere del sole dai crampi allo stomaco. Furono così intensi che per qualche secondo faticò persino a mettersi a sedere sul letto. Si tolse le coperte di dosso, si premette una mano sull'addome e restò in ascolto per capire se avesse via libera.

Ma dalla cucina giungevano i suoni della colazione di Richard e Verena, le ante dei pensili, la porta del frigo che con gli anni faceva sempre più rumore quando sbatteva, le loro voci strascicate di primo mattino. Anche loro erano già svegli. Forse lo facevano di proposito, stavano appostati ad attendere l'attimo in cui sarebbe uscito, per assaltarlo. Anche stavolta Sonne non avrebbe mangiato pur di non affrontarli.

Aveva sempre detestato essere schiavo dei bisogni corporei. Nella maggior parte dei casi lo intralciavano. Spesso addirittura se ne dimenticava, e il suo corpo, da cui era totalmente scollato, era costretto a mettersi a protestare per sollecitarlo. Allora si ricordava che finché era vivo non gli era permesso di non occuparsi della propria vita.

Emise un sospiro afflitto e lanciò un'occhiata alla macchina da scrivere che sembrava invocarlo dalla scrivania. Poteva approfittarne per continuare il capitolo del romanzo che aveva lasciato in sospeso. Da quando era tornato e si era chiuso in camera non l'aveva toccato neanche una volta. Non trovava il coraggio di ricominciare. Dopotutto, a poco sarebbe valso quello sforzo se entro breve fosse morto di fame.

Dunque in quei tre giorni non aveva mangiato né scritto. Si era fatto un paio di docce, quello sì, soltanto per mettersi in abiti più comodi e non marcire nel suo stesso fetore. Cos'altro aveva fatto, allora?

Aveva pensato. Aveva pensato moltissimo. Era stata un'attività estenuante che l'aveva sfiancato. A dispetto dei suoi pronostici di insonnia, Sonne aveva dormito, e tanto, anche di pomeriggio. Il sonno era diventato un meccanismo di difesa, una fortezza in cui nemmeno i sogni venivano a disturbarlo.

Solo i crampi. Ogni tanto Verena che bussava, «Sonne? Ti porto qualcosa da mangiare?». Lui neanche le rispondeva. Tentava di farsi odiare, così avrebbero smesso di sperare che sarebbe tutto tornato come prima. Richard aveva già smesso; dopo la prima volta non era più venuto. Lei invece era ostinata e apprensiva in modo irritante, come soltanto una donna poteva esserlo. Anche se quel giorno pareva essersi placata. Nonostante la fame pungente, Sonne la ignorava anche perché aveva quasi più paura di fare i conti con lei che con Richard.

I suoi due impostori. I suoi due fantasmi.

Non sapeva ancora a quale ipotesi credere. Il fatto che entrambi sparissero letteralmente dalla realtà lo faceva propendere per la seconda. E poi Richard era uguale al Richard di Amburgo, chi altri poteva essere? Ma magari era un suo sosia, un attore formidabile, qualcuno che con qualche accorgimento estetico aveva studiato così bene la parte da riuscire a ingannarlo sin dal primo giorno. In combutta con Verena, presto l'avrebbero derubato o peggio, ammazzato, e sarebbero rimasti a vivere in casa sua, l'unica sua ricchezza, l'unica cosa che avesse mai posseduto. Perché avevano scelto proprio Sonne come vittima? E Verena, lei chi era? Anche lei aveva sottratto il nome, quel suo nome così comune, a qualche persona morta?

I pensieri ricominciarono a vorticare, così rapidamente che gli mozzarono il respiro. Volevano farlo impazzire, era questa la verità. Chiunque fossero, qualunque cosa fossero, l'obiettivo doveva essere quello. E chissà se anche le sparizioni non erano tutta una finzione, un'allucinazione di cui l'avevano convinto per accelerare i loro piani.

Non avrebbe mai dovuto farli entrare in casa sua. Non si sarebbe mai dovuto lasciare irretire da loro. Non avrebbe mai dovuto innamorarsene.

Seduto immobile sul letto, Sonne si sentì uno stupido. Sarebbe stato di gran lunga migliore restare fedele a se stesso, bloccato, represso, chiuso al mondo e alla vita. Il cambiamento l'aveva reso vulnerabile. Adesso avvertiva un disperato bisogno di isolarsi. Lo terrorizzava l'idea di tornare a guardarli in faccia.

Gli restava la sua stanza. Lì non avevano mai messo piede, era l'ultimo avamposto sicuro insieme alla sua testa, due celle inespugnabili, una di cemento e l'altra di ossa – quelle del cranio –, costruite per proteggerlo, per allontanare gli altri da lui, non viceversa.

No, loro riescono a infilarsi ovunque, si corresse. Erano dentro di lui, parti così radicate da essersi inserite tra le sue idee costituenti, primigenie, che ormai avrebbe trovato espresse ovunque, anche dove non c'erano, anche al buio, soprattutto al buio, e in tutta la materia presente sulla Terra. Ogni cosa si delineava a partire dalla loro forma, ai suoi occhi, perché lui l'aveva permesso, li aveva assimilati, non aveva saputo resistere. Ormai davano fondamento a ciò che Sonne era e lui non poteva più separarsene.

La stanza era colma di loro pur non avendoli mai ospitati; la testa anche.

Quelli in carne e ossa, fuori, continuavano a ingannarlo. Li sentiva parlare. Fingevano di non sapere, o realmente non sapevano. Sonne non riusciva a decidere cosa fosse più terribile. Sapeva soltanto che se fosse uscito non avrebbe retto la loro vista (lui che aveva sempre amato così tanto guardarli).

Due impostori. Due fantasmi.

Incredibile che fossero stati proprio loro a ridare vita a quella casa. In un certo senso, Sonne era più morto di loro.

Quel pensiero lo fece rabbrividire di terrore fino alla punta delle dita e lo spinse a rintanarsi nuovamente sotto le coperte. Premette forte la guancia sul cuscino, girandosi dal lato della parete bianca, un'altra tela vuota per la sua immaginazione. Non riusciva a capire se avesse freddo o caldo.

Di colpo gli venne in mente il camino della sua casa a Dresda, il fuoco che crepitava nelle lunghe notti invernali prima che sua madre lo spegnesse per andare a dormire. Si procurava sempre la legna dal loro vicino di casa, che era un falegname, un altro fervido socialista con cui era in buoni rapporti. A volte mandava Sonne a ritirarla, pur sapendo quanto lo imbarazzasse bussare alla sua porta. A Dresda aveva sempre fatto più freddo che a Brema, per via del clima continentale, e nevicava molto di più, servivano molta legna e abiti più pesanti. Sua madre aveva decine e decine di coperte stipate negli armadi. Chissà che fine avevano fatto, dopo la sua morte, a chi erano andate. Sonne avrebbe dato qualsiasi cosa, adesso, per averne portata con sé almeno una. Su tutte, quella a quadri rossi e verdi che compariva in giro nel mese di dicembre. Si concentrò ardentemente sul ricordo della coperta come se potesse materializzarla. Vi si sarebbe avvolto come un bambino, convinto di ritrovarvi il suo odore.

Iniziò a chiedersi se Petra non avesse avuto ragione a credere in Dio nell'ultima parte della sua vita. Se credeva in Dio credeva anche nell'aldilà, nel Paradiso e nell'Inferno. Forse credeva anche ai fantasmi. Forse un giorno anche lei sarebbe tornata da lui, aveva motivi molto più validi di Richard e Verena per farlo. Sarebbe tornata per perseguitarlo o perdonarlo. Era lei la sola che potesse redimerlo, persino da morta: suo padre, che era vivo, l'unico vivo, non capiva niente di quello che era successo. Invece sua madre aveva capito subito, senza nemmeno farsi spiegare nulla. Non appena Sonne aveva aperto bocca. Aveva tentato di fermarlo, ma nessuno le aveva creduto, nemmeno i medici, avevano tutti creduto al ragazzino sopravvissuto per miracolo. Invece lei aveva capito tutto. E da allora l'aveva odiato, si era pentita di averlo portato in grembo e partorito. Sarebbe stata molto più felice se fosse rimasta sola con Gregor, piuttosto che con lui.

E pensare che quando era piccolo amava raccontargli del giorno in cui era nato. Sonne conosceva quella storia a memoria, ed era una delle storie che detestava di più, non solo perché gli era venuta la nausea a furia di ascoltarla. In sé non aveva nemmeno qualcosa di particolarmente grandioso. Il succo era che Petra era andata in ospedale da sola, a piedi, certa, con tutti i dolori che aveva, che il suo Stefan stesse ormai per nascere, invece il travaglio era durato dodici ore, e lui era venuto al mondo alle due di notte, con l'ultimo enorme sforzo della madre che aveva negato con tutta se stessa la possibilità di un cesareo. Pesava quasi quattro chili e, con grande sorpresa di tutti, piangeva pochissimo. Anche quando l'ostetrica l'aveva tirato fuori gli avevano dovuto dare qualche colpetto secco sulla schiena affinché piangesse e buttasse fuori l'aria per respirare. Lo Stato, in seguito, le aveva fornito tutto l'occorrente per prendersi cura del neonato. Ci teneva sempre a ribadirlo, alla fine della storia. Gli insegnava a rispettare il mondo in cui vivevano, a non darlo per scontato. A Sonne non importava nulla di quella parte. Col tempo aveva cominciato a non soffrire neppure il resto, ma solo da adulto aveva compreso da dove venisse quell'avversione.

Se ci rifletteva più approfonditamente diventata tutto più chiaro: l'aveva sempre ripugnato il pensiero che sua madre si fosse accoppiata con suo padre e che il prodotto di quell'abominio fosse stato lui. Lo ripugnava rappresentare in prima persona la conferma che facessero sesso. Doveva essere una consapevolezza che arrivava prima o poi per tutti i figli, ma a lui aveva sempre lasciato un disgusto incommensurabile, come quello che di norma susciterebbe un incesto. La percepiva come un'azione mostruosa e sbagliata per via della menomazione del padre, naturalmente. Come aveva potuto, lei che era così bella e vitale, scegliere di avere un figlio da lui? Un'azione mostruosa non poteva che generare conseguenze mostruose.

Sonne lo era eccome, mostruoso. Richard e Verena a lungo avevano provato a fargli credere il contrario, ma era stato inutile. Adesso si sentiva ancora peggio all'idea di aver quasi fatto sesso con due fantasmi. Si era trattenuto solo in virtù di quella mostruosità – la vergogna gliel'aveva impedito, almeno quello, gli aveva precluso la ripetizione di un'altra mostruosità, oltre che lo smascheramento della propria menomazione. La menomazione del padre era mentale, quella di Sonne corporea: il corpo di Sonne era la menomazione del padre, la sua eredità più lampante.

Di Petra cosa gli era rimasto?

Di sicuro non Dio. In lui non si era mai insediata la sua promessa seducente. Sonne aveva appreso molto più dal pragmatismo di Walter e Luciane che da lei, non si era mai fatto illudere. Però adesso, a trentun anni, doveva fare i conti con qualcosa per cui la razionalità non bastava, e Dio poteva essere una spiegazione molto allettante. Forse i suoi nonni avevano avuto torto e sua madre ragione. Petra aveva odiato anche loro, quando erano fuggiti dalla sua amata DDR, e si era rifiutata di seguirli. Era rimasta così sola, dopo che le avevano tolto Gregor. Le era rimasto soltanto Dio. Tutti le avevano fatto terra bruciata attorno: per primo, suo figlio.

Sonne ora le somigliava più che mai. Poteva provare anche lui ad aggrapparsi a Dio, solo che non sapeva da dove cominciare per credere, credere davvero. Cos'aveva visto, Petra, cosa le era capitato di così rivelatorio da farla andare contro ogni credenza che aveva avuto sino a quel momento, dritta tra le braccia di un essere onnipotente? A Sonne piaceva pensare che fosse stato grazie a lui. Non doveva essere un caso che avesse iniziato a pregare proprio dopo l'incidente. Quando si era risvegliato, in ospedale, lei era lì accanto al sacchetto di plastica della flebo, con il volto teso e fradicio di lacrime, e prima di aprire gli occhi l'aveva sentita mormorare concitata qualcosa che si avvicinava a una preghiera, o forse no, più a un dialogo con qualcuno che non era presente, dopotutto nessuno dei due sapeva come fosse fatta una preghiera. Poi Sonne aveva iniziato a mugugnare e piangere dal dolore – la sua prima azione in assoluto, come fosse appena nato, stavolta senza la necessità di un aiuto esterno per piangere – e lei aveva smesso per correre a chiamare i medici. In seguito gli avevano detto che non aveva mai abbandonato il suo capezzale, anche se le era proibito toccarlo.

Quando tornarono a casa, una casa ormai vuota del padre, Petra aveva continuato a ripetere tra sé quelle litanie senza senso fino alla sua morte.

Sonne continuò a pensare a lei per il resto della giornata. Non era meno deprimente, ma almeno aveva cambiato soggetto. Lo stillicidio all'interno di quella prigione sarebbe proseguito un pensiero per volta.

Venne il pomeriggio e venne un suono per cui non sapeva di aver sperato.

Lo scrosciare della doccia.

Sonne si mise in piedi in un lampo, affamato come uno squalo che ha fiutato l'odore del sangue. Ebbe giusto il tempo di realizzare che Richard e Verena facevano sempre la doccia insieme che le sue gambe lo condussero per scatti fuori dalla stanza. Lasciò la porta socchiusa.

Loro non erano né in salotto né in cucina, dove lui si fiondò. Il mondo fuori dalla sua camera, che era la sua stessa casa, lo lasciò disorientato. Il loro odore, le loro tracce... erano ovunque. Una maglietta di Richard abbandonata sullo schienale di una sedia. Il segno delle labbra di Verena su un bicchiere. Se avesse prelevato il loro dna, come su una scena del crimine, a chi sarebbe stato ricondotto? A resti organici interstellari, di materia sconosciuta, o a qualcuno che era già stato pianto e seppellito? Dove poteva arrivare l'assurdo? A lui, potevano i loro pezzi ricondurli a lui, come se fossero fatti della stessa sostanza, come se avessero le stesse origini? Se facevano così parte l'uno dell'altro, da essersi mescolati anche biologicamente...

Si affrettò ad aprire il cassetto del cibo in scatola: afferrò un paio di barattoli di manzo, poi prese un pacco intero di pane bianco, un barattolo di sottaceti dal frigo – il frigo sbatté –, una mela e una forchetta. Per il resto, poteva arrangiarsi e continuare a prendere da bere in bagno. Tenne tutto in equilibrio, sentendosi un ladro che andava a rubare nell'appartamento di qualcun altro, e uscì di nuovo in salotto, in fretta.

Ma l'acqua della doccia smise di scorrere proprio in quel momento. Verena e Richard comparvero di fronte a lui dall'altro lato della stanza, avvolti nei loro teli, con i piedi nudi. Dai loro capelli colavano delle goccioline che andavano a schiantarsi dritte a terra, e quelle sulla pelle li solcavano fino a sparire negli incavi del loro corpo.

L'avevano sentito. Lo fissarono, così vicini da sembrare attaccati l'uno all'altra.

Anche lui li fissò. Non poté impedire al suo sguardo di agganciarsi a quella visione. Verena si era portata una mano chiusa a pugno al petto, ma non stringeva la presa su se stessa, non era altro che un gesto di fragilità con cui lo implorava. E Richard, con tutti quei rossori sulla carne dovuti all'acqua bollente... Gli faceva male guardarlo per quanto era bello, per quanto era, inequivocabilmente, vivo.

Per un attimo gli salì a galla l'istinto di abbracciarli, e non solo, baciarli sulle clavicole bagnate, leccarli e morderli, e baciarne ancora i morsi, mentre sequestrava i teli della doccia e si prendeva i loro corpi, glielo gridava, i vostri corpi sono miei, miei.

Poi si ricordò che c'era una possibilità che volessero ammazzarlo, portarlo dall'altra parte con loro, e prevalse di nuovo l'orrore. Richard e Verena poterono leggerlo con chiarezza nei suoi occhi.

Sonne scattò goffamente verso la sua stanza.

«Sonne!» lo chiamò Verena.

Lo rincorsero entrambi, ma lui fu più rapido nonostante il carico che portava, si tuffò nello spiraglio aperto della porta e la richiuse dietro di sé, giusto in tempo per sentire le mani dei due picchiarla ancora una volta dall'altro lato. Si appoggiò ad essa con la schiena, perché pensava che l'avrebbero sfondata e perciò doveva proteggere la sua adorata cella a tutti i costi, anche fisicamente, e chiuse gli occhi, mentre i loro colpi gli riverberavano tra le vertebre.

La cosa peggiore fu che li sentì piangere.

Richard dalla rabbia, Verena dalla disperazione.

Non pensava che potessero attentare ancora al suo cuore così.

«Aprici, Sonne, ti prego, non ce la faccio più» lo supplicò lei, prima di essere interrotta dai singhiozzi. «Cos'è successo? Cos'è successo?»

E Richard: «Sei un maledetto bastardo, lo sai che siamo ogni giorno in pericolo e adesso te ne infischi. Dopo essere andato dal tuo professore del cazzo non te ne importa più niente! Pensi solo a lui e a quel fottutissimo romanzo! È bastato così poco perché venissimo rimpiazzati, eh? Due giorni, due cazzo di giorni!»

Quanto si sbagliava.

Niente e nessuno avrebbe mai potuto rimpiazzarli.

Allora non sapevano? Richard non sapeva di essere morto? Non lo stava ingannando? La sua sofferenza sembrava troppo vera, faceva soffrire anche lui di riflesso. Ma Sonne non trovava una via d'uscita in quel labirinto di domande. Cosa doveva fare? Sarebbe dovuto essere lui a dirglielo? E con quale spirito? Se tremava tutto solo a pensarci!

Si allontanò dalla porta e si mise alla scrivania. Appoggiò il cibo davanti a lui e si mise a mangiare mentre loro continuavano a gridare dall'altro lato della parete. S'impegnò per ignorarli. Prima o poi si sarebbero arresi, anche se non era da loro. Forse se ne sarebbero andati. Sarebbe stato meglio per tutti. Niente più vivere assieme. Niente più morire assieme.

«Vuoi vederci sparire per sempre? È questo che vuoi? Quanto ti converrebbe adesso!» sentì Richard urlare.

Sonne già non aveva più fame. Gli si era chiusa la gola. Gli era venuto mal di testa. Fu inevitabile per lui pensare, guardando distrattamente lo scorcio di città fuori dalla finestra: sì, sì, sì. Sparite. Sparite. Andatevene. Mi state facendo impazzire. Sbaglio o non desideravate altro che la libertà? Ecco, ora potete essere liberi davvero, senza di me, cogliete quest'occasione d'oro.

Per distrarsi, poggiò le dita sui tasti della macchina da scrivere. Il solo gesto gli diede un briciolo di sollievo. Non c'erano soltanto Richard e Verena ad attenderlo, c'era anche qualcuno di benevolo, il suo romanzo e i suoi personaggi, che non potevano ferirlo in alcun modo, solo amarlo passivamente, e un po' temerlo, perché era il Dio di quel mondo e non c'era niente che si sarebbe discostato da quanto lui imponeva. Non era la prima volta che si immaginava come Dio nelle sue storie. Si domandò come l'avrebbe presa sua madre se l'avesse saputo.

Ma non avrebbe mai potuto saperlo. Sua madre non sapeva neanche che scriveva, perché aveva cominciato a dedicarsi alla scrittura dopo essersi trasferito a Brema. Sua madre non sapeva nulla di chi fosse Sonne. Era certo che non avrebbe approvato quel nome che conteneva in sé sia il fuoco che la divinità, germi di una megalomania sotterranea, di un'ossessione che non accennava mai a estinguersi. Nei ricordi di lei, i ricordi di una morta, sarebbe stato per sempre Stefan. Sonne aveva perso la possibilità di esistere per sua madre.

Dopo un po' Richard e Verena smisero di piangere e urlargli contro. Tuttavia non se ne andarono. Li sentì distintamente scivolare verso il pavimento, stremati, con le schiene a ridosso della porta, che era diventata una nuova cortina di ferro. Grazie a lui stavano imparando cosa volesse dire ragionare per spaccature. Non parlarono più. Restarono lì per ore, asciugandosi tra gli spifferi freddi della casa.

Sonne avrebbe voluto raccoglierli e metterli a letto.

Avrebbe voluto rispondere con calma a ciò che gli avevano gridato.

Più di ogni altra cosa, avrebbe voluto azzerare tutto e tornare a un momento felice, a uno stato di innocenza: ne sfogliò, nella mente, alcuni vissuti negli ultimi mesi e infine decise che voleva tornare a Sylt. Sempre a Sylt.

Si mise a scrivere. Improvvisamente aveva avuto un'idea su come concludere il capitolo incompiuto.

Richard e Verena non si alzarono mai. Forse si erano addirittura addormentati, come prostrati ai suoi piedi.

Era ormai sera e l'ultimo paragrafo era stato scritto quando la voce di lei, avvilita, strisciò nella sua testa e lo avvolse con le proprie spire. Una sensazione che conosceva fin troppo bene.

Sonne. È successo di nuovo.

Sonne alzò di scatto lo sguardo sul nulla al di sopra della scrivania.

Si era avverato. Quel desiderio crudele che aveva espresso poco prima e di cui si era già pentito si era avverato.

Non volevo che spariste davvero, Verena, te lo giuro. Non volevo, l'ho pensato solo per esasperazione, una di quelle cose che si pensano di pancia, che vogliono dire l'esatto contrario...

Verena probabilmente fu stranita da quel flusso di coscienza, ma non perse altro tempo. Che stai dicendo? È sparito anche Richard? Non riesco a comunicare con lui... Puoi controllare se è ancora lì? Per favore. Ti scongiuro. Mi sto per sentire male.

Dove sei?, le chiese, intanto che si affrettava ad aprire la porta senza neanche rifletterci.

A casa.

Come?

A casa mia.

Sonne iniziò a sudare freddo. Girò la chiave nella serratura e abbassò la maniglia.

Com'è possibile...?, fece per domandarle, ma in quello stesso istante vide che il salotto si spalancava vuoto davanti a lui. Fece un rapido giro per le altre stanze, con il cuore che gli martellava nelle orecchie. Tutte vuote.

Un'altra voce si sovrappose a quella di Verena: Adesso sei contento, spero.

Richard? No, no, no, no, no, Richard..., si disperò, come se potesse afferrarlo con tutti quei no.

Sai che c'è, Sonne? Vaffanculo.

Erano tutti e due pieni di biasimo. Insinuavano che in qualche modo fossero spariti a causa sua, gli suggerivano Visto? Se te ne vai ci succede questo. Volevano che si sentisse in colpa. Il distacco e la separazione rendevano crudeli anche loro.

D'altronde era una caratteristica tipica dei fantasmi, il rancore. Ma potevano i fantasmi leggere nel pensiero, farsi carne, e come tale attraversare lo spazio e il tempo, attirati sempre più verso le loro origini anziché nell'oltretomba? All'improvviso Sonne sentiva di aver sbagliato tutto.

Realizzò di essere di nuovo solo in casa dopo più di un anno.

Richard e Verena erano tornati entrambi nella sua testa.






Note d'autrice:

Salve! Ritorno con un capitolo che, ammetto, mi piace molto. Inizialmente dovevano essere due capitoli distinti, uno dal punto di vista di Verena e Richard e l'altro da quello di Sonne, poi però ho deciso di accorparli perché alla fin fine giravano entrambi intorno alla stessa situazione e non mi andava di farne due 'puntate'. Che dire? Non mi aspettavo che il risultato mi soddisfacesse, e invece son contenta ♥ Se li avessi separati sarebbero stati di gran lunga più corti, questo sì, ma... dovete sopportarmi e soprattutto sopportare i pipponi mentali di Sonne, ormai lo sapete.

Il titolo, Geister, significa fantasmi. E voi cosa pensate? Tra morti, traumi, coincidenze, paranoie, sensi di colpa, sparizioni, Dio, latte, fuoco, luce, padri e madri, direi che tutte le carte sono state messe in tavola.

Spero che siate psicologicamente pronti per i prossimi capitoli. Perché io non lo sono.

Restate nei paraggi, mi raccomando ♥

Vi abbraccio, a presto!


PS: un giorno troverò un'altra soluzione per i dialoghi telepatici al posto del grassetto/sottolineato, giuro.

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