XXXI. Augenblick

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N E B E L

XXXI.

Augenblick



A Richard sembrava di star nuotando anche nella realtà. Si muoveva a fatica, con le membra pesanti e fiacche, come se fosse stato troppo tempo a galla e perciò stesse per annegare dallo sfinimento.

Era tutto acqua che lo faceva scivolare. Era tutto reale. Anche l'altra dimensione. Gli aveva appena restituito uno stralcio del suo passato, una riproduzione identica ai suoi ricordi, fino all'attimo in cui tutto si era spento. Doveva credere per forza che fosse reale: non c'era qualcuno che lo conoscesse così bene e potesse creargli quell'illusione davanti agli occhi così come la custodiva dentro di sé.

Anche Verena l'aveva detto.

«È reale. Qualunque cosa sia successa di là, è successa davvero.»

Le era fiorita un'ecchimosi rossastra sulla guancia, che tentava di nascondere un po' con i capelli.

Stavano seduti al tavolo in cucina, tutti e tre, un po' distanti l'uno dall'altro, per fare un resoconto degli ultimi avvenimenti. Era l'alba. Era passata solo qualche ora dal loro ritorno.

Richard e Verena avevano indossato abiti puliti e un paio di maglioni a testa, lei persino una coperta di ciniglia sulle spalle, ma nonostante ciò continuavano a rabbrividire e battere i denti. Niente riusciva a riscaldarli, anche se erano abituati alla nudità tanto quanto alla temperatura dell'appartamento. Gli venne in mente che i teli per la doccia erano rimasti dall'altra parte. Non potevano trasportare materia estranea, a quanto pareva, ma potevano perdere per sempre quella del loro mondo se la abbandonavano lì.

Sonne, a differenza loro, non aveva freddo. Aveva intrecciato le mani davanti a sé, nella sua classica posa riflessiva, e li guardava senza fiatare. A dire il vero, li guardava in modo strano, inebetito, come se avesse di fronte delle creature aliene e fosse incapace di reagire alla loro esistenza. Aveva ancora gli occhi lucidi, leggermente sgranati nel vuoto.

Doveva averlo terrorizzato l'idea di perdere entrambi nello stesso momento. Richard non l'aveva mai visto in quello stato, né l'aveva mai visto piangere.

Non rispose neanche alla loro domanda. Non stava ascoltando.

Richard si sporse con il busto sul tavolo e gli sventolò una mano vicino alla faccia. «Sonne? Stiamo parlando con te.»

Lui si ridestò, ma si ritrasse sulla sedia in segno di difesa. «Sì. Scusate.»

«Dicevamo: cos'è successo ad Amburgo?»

«Cosa?»

«Ad Amburgo, Sonne, Amburgo! Perché ti sei comportato così con noi in questi giorni?»

Richard tornò dritto e incrociò le braccia, richiudendosi su se stesso. Quel minimo spostamento gli aveva risucchiato ancora di più le energie. Mettersi in piedi avrebbe richiesto uno sforzo disumano. Aveva il sentore che il sangue non gli scorresse più in corpo. Ricambiò lo sguardo di Sonne, incitandolo a parlare. Stavano esigendo delle spiegazioni che lui chiaramente non voleva dare, per qualche motivo a loro ignoto. Ma questo non li faceva arrendere.

Sonne si voltò prima verso Verena e poi verso Richard. Stava cercando le parole giuste e la persona più adatta da affrontare, ma alla fine, messo alle strette, si concentrò sulle proprie mani sul tavolo ed emise un forte sospiro dal naso. «Va bene» disse. «Ad Amburgo è capitato anche a me. Sono sparito anch'io.»

Si trovarono entrambi spaesati. Non era ciò che si aspettavano.

Fu il coronamento della debolezza di Richard, un improvviso impulso di sprofondare. «Sul serio?» chiese, d'istinto.

Verena, che parlava molto meno da quando era tornata, con un'espressione tirata e scura, intervenne adesso. «Perché non ce l'hai detto?»

In effetti era la domanda più sensata. Il tono e le labbra arricciate tradivano una vena di sospetto.

Sonne si fece sbiancare le nocche a furia di stringere la presa. «Ero in stato di shock, presumo. Non mi sono ancora ripreso. Mi sento come se stessi galleggiando... come se una parte di me fosse ancora dall'altra parte.»

Questo addolcì la corazza di Verena. Aveva toccato le corde più delicate. Era ciò che provavano anche loro ogni volta.

Richard protese una mano verso le sue, unite, su cui posò una carezza lieve. Si stupì di quanto fosse pallido il proprio incarnato. «E com'è accaduto? Dove sei finito?»

«Ero in albergo, dopo il colloquio con Meier. Ero appena entrato nella mia camera. Il tempo di guardarmi intorno e... ho capito di non essere più ad Amburgo. Dalla finestra vedevo la cupola della Frauenkirche di Dresda.»

«Anche tu nel tuo passato, quindi?» lo incalzò.

Sonne annuì greve. «Ho rivissuto la morte di mia madre.»

Non aggiunse altro, non sembrava intenzionato a farlo.

Richard non aveva mai sentito pronunciare quelle parole dalla sua bocca. La morte di mia madre. Le sparizioni, quella volta, gli stavano dando l'occasione di aprirsi sul proprio passato. Su ciò che avevano voluto seppellire sotto terra, per poi fuggire via, tutti e tre verso Brema, un altro mondo, una nuova vita. Tutto sommato, Richard poteva ritenersi anche fortunato rispetto agli eventi nefasti che avevano colpito Sonne e Verena. Lei, soprattutto, con la sua folle famiglia nei boschi.

Era quello il fine ultimo delle sparizioni, dunque? Dare loro modo di fare i conti con se stessi? Di manifestare i ricordi più dolorosi e parlarne?

Era tutto troppo semplice.

Da un lato, però, era impossibile ricavare interpretazioni certe. La scienza, la religione e la filosofia cercavano di fare lo stesso con la realtà: trovare risposte ai misteri della vita. In alcuni casi ci erano voluti secoli di tentativi, indagini ed esplorazioni. In altri, dogmi e fede cieca. In altri ancora, non erano state mai trovate soluzioni.

La prospettiva di restare all'oscuro in quell'istante lo avvilì come non lo aveva mai avvilito prima. Aveva creduto che a Sonne sarebbe stata risparmiata quella sofferenza, che l'avrebbe vissuta soltanto attraverso di loro, ma allo stesso tempo gli sembrava naturale che stesse accadendo anche a lui. Erano sempre stati legati da qualcosa di più grande a cui nessuno dei tre poteva sottrarsi.

«Hai sentito anche tu il fischio?» gli domandò Verena.

Sonne si umettò le labbra. «Sì. Una specie di... ronzio.»

«E poi?»

«Poi sono tornato nella stanza d'albergo. Non è durato molto, ora che ci penso.»

Richard si inserì di nuovo. «Ma scusa, non hai provato a comunicare con noi?»

«Certo che ci ho provato. Non so perché, ma non è servito a nulla. Non vi ho sentiti, né voi avete sentito me.»

«Avevi preso dei tranquillanti, come Verena quella volta?»

«No.» Fece una pausa, rifletté. «Però avevo bevuto.»

Verena inarcò le sopracciglia. «Tu che bevi?»

«Rhum offerto da Meier. Non ho voluto rifiutare.»

«Di primo mattino, all'università?»

«Di primo mattino. Ma ci siamo incontrati fuori dall'università. Non ero ubriaco, ovviamente. Però l'alcool potrebbe aver alterato la nostra connessione, come le pastiglie.»

Quelle domande lo stavano rendendo piuttosto nervoso. Richard, in parte, riusciva a immedesimarsi in lui. Non avevano motivi per non credergli. L'avevano già trattato abbastanza duramente – come lui aveva trattato loro nel momento del bisogno. Ma era meglio che diventasse acqua passata. D'ora in avanti avrebbero dovuto collaborare al massimo delle loro forze.

Gli accarezzò di nuovo le mani. «Sonne... non so cosa ti sia passato per la testa, ma non devi aver paura di parlarne con noi, soprattutto se dovesse accadere di nuovo. So che può far male rievocarlo, ma pensa che noi siamo gli unici che possono capirti. Con noi sei al sicuro. Ricordatelo sempre. Non isolarti più così... è soltanto peggio.»

Le mani di Sonne tremarono sotto quella fredda di Richard. «Lo so. Mi dispiace.»

Richard ritrovò in sé un barlume di calore, energia, e la utilizzò per alzarsi dalla sedia e andare ad abbracciarlo. Sonne appoggiò la fronte sul suo addome chiudendo gli occhi, stanco ma anche sollevato. Poi lo fece sedere sulle proprie gambe. Richard avvertì un piccolo guizzo di felicità sotto pelle quando gli avvolse un braccio intorno alla vita e lo trattenne saldamente per il maglione.

Verena rivolse loro un sorriso mite. Si era tranquillizzata anche lei. Ma non si alzò, anzi, si strinse ancora di più la coperta addosso, un mantello che non aveva nulla di regale. Poi si massaggiò la nuca con un gemito non del tutto udibile, come stava facendo da quando era tornata. A Richard ribolliva il sangue nella pancia al pensiero di ciò che il fratello maggiore poteva averle fatto.

«Stavo pensando a una cosa» disse, assorta. «Mi sono resa conto che ogni volta che siamo spariti non ci ha visto nessuno. Eravamo sempre soli. O stavamo dormendo, com'è successo stavolta.»

Richard corrugò la fronte. «Giusto. Ne abbiamo parlato già io e te qualche tempo fa, se non erro.»

«Credo che la logica sia questa: non possiamo sparire davanti agli occhi di qualcun altro, così che nessuno possa testimoniare il modo in cui avviene.»

«Sì, in effetti... A stento possiamo testimoniarlo noi. Sembra di viaggiare da un luogo all'altro di un sogno... Quando ci ripensi non ti ricordi di come è accaduto, è accaduto è basta.»

«È una teoria sensata» si limitò a dire Sonne.

«Possiamo testarla» propose Verena, piegandosi un po' sul tavolo. «Ogni volta che siamo stati a stretto contatto non è mai successo.»

Richard ci rimuginò su. «Intendi che dovremmo stare giorno e notte insieme, uno accanto all'altra, senza mai allontanarci o perderci di vista?»

«Esatto.»

«Wow.» Ci fu qualche attimo di silenzio che nessuno degli altri due colmò. «Si potrebbe provare. Come un esperimento. In tre è anche meglio, visto che di notte possiamo fare i turni.»

Sentì Sonne irrigidirsi, laddove Verena sembrava già molto convinta.

«Cosa c'è?» gli chiese lei.

«Mi sembra una follia» disse Sonne.

«Certo che lo è. Hai altre idee?»

Lui tornò di nuovo sulla difensiva, quasi spaventato da quello che stavano prendendo in considerazione. «Lo sapete quanto è importante per me lo spazio personale.»

Richard lo guardò di sottecchi. «Vuoi ancora che non entriamo nella tua stanza?»

«Non si tratta di quello. Ho solo bisogno di stare da solo, in certi momenti. Quando scrivo o sono in bagno, ad esempio. So che voi fate anche la doccia assieme... io non posso. Non posso arrivare a tanto, non ci riesco.»

Verena distolse lo sguardo e non rispose.

«Per me va bene se a volte vuoi restare solo. Ma è a tuo rischio e pericolo, lo sai, no?» gli domandò Richard. «Come dire... sono cazzi tuoi se poi sparisci.»

«Me ne assumerò la responsabilità.»

«Allora per me possiamo cominciare anche subito. Sono stanco di dissolvermi nel nulla per finire chissà dove.»

Verena fu d'accordo.

Proprio in quel momento la luce dell'alba li colpì dai vetri delle finestre. Dopo tutto quel gelo, arrivava per bruciarli.




L'esperimento funzionò, per qualche settimana.

Fino a metà dicembre Richard, Sonne e Verena poterono godersi la vicinanza e la realtà. All'inizio non risultò arduo come avevano immaginato, neanche i turni di notte, che in qualche modo avevano già praticato spontaneamente in passato. Riuscirono a vederci dei vantaggi, nelle spire di quell'uroboro, in quella dinamica di inseparabilità, e grazie ad essa furono in grado di appianare i conflitti irrisolti, oltre a ricostruire la quotidianità che le sparizioni avevano tentato di far crollare. Anche la disperazione, che non era mancata, l'avevano affrontata insieme. Quando Verena lo abbracciava da dietro, la schiena di Richard diventava una valle di carne per la sua valle di lacrime: lei iniziava a piangere e a versare ruscelli che scorrevano su di lui come giù per una montagna. Si baciavano i lividi a vicenda. Si inabissavano all'unisono, e Sonne, con il peso del silenzio, era quello che li tirava di più verso il fondo.

L'unico ad allontanarsi, almeno un paio di volte al giorno, era lui. Si chiudeva in stanza per scrivere o usciva a prendere una boccata d'aria, e per questo gli avevano affidato il compito della spesa e di tutte le faccende non strettamente domestiche. Sonne fu l'unico a sentire la morsa alla gola sin da subito. Aveva cominciato a sentirla, in effetti, e Richard lo sapeva, dall'istante in cui lui e Verena avevano lasciato il lavoro ed erano rimasti in pianta stabile nell'appartamento. Desiderava proteggerli ma desiderava anche scucirsi da loro.

Richard temeva che sarebbe sparito presto. Gli veniva la nausea al solo pensiero, tutte le sante volte che Sonne non era a portata del suo sguardo. Così, quando era accanto a lui, lo toccava e lo guardava il più possibile, anche più di Verena, fino ad avvicinarsi pericolosamente alla soglia che separava affetto e fastidio. «Richard, un giorno mi consumerai» gli aveva detto una sera a letto, forse con ironia, non appena aveva intrecciato in maniera troppo ferrea le gambe alle sue. Richard pensava che fosse vero, ma lì per lì aveva negato, anche se non ne aveva motivo.

Quanto al modo in cui Sonne guardava loro, entrambi avevano notato un cambiamento non indifferente, a partire da un mutamento di postura. Era divenuto più cedevole nei gesti e nei movimenti. Anche Verena si era accorta che li osservava in modo diverso, da un po': sempre e soltanto con un velo negli occhi, come se posando lo sguardo su di loro si estraniasse nella sua testa e, nascosto lì dentro, cercasse di camminare su un sentiero di fragilissime uova, un'operazione che richiedeva tutta la sua concentrazione. La luce in lui – che poteva essere luce tanto quanto tenebra, in ogni caso intensa – era stata sostituita da una nebbia fitta e perenne, in cui né Richard né Verena riuscivano a leggere.

Talvolta faceva loro delle richieste inaspettate.

Come quel pomeriggio. Fuori nevicava, ed era già buio. La neve, la prima dell'inverno, aveva gettato un silenzio irreale sulla città intera, come se si stesse rendendo complice della sepoltura di un segreto. Gravava un senso di pace ma anche di morte, che in fondo erano la stessa cosa. Il bianco, sì, doveva essere il bianco il colore del lutto.

Sonne aveva proibito categoricamente l'utilizzo di stufe e caloriferi, per cui giravano tutto il giorno con strati e strati di vestiti addosso e borse d'acqua calda, al pari dell'anno precedente. Quel pomeriggio, nonostante il freddo acuto, Richard credeva di essere al sicuro. Dopo tanto tempo non aveva paura. Non sapeva dire perché. In parte, però, si sentiva in colpa per quella sensazione. Non la vedeva riflessa in Sonne e Verena. Avrebbe voluto scuoterli e dirgli: questo potrebbe essere l'ultimo giorno felice della nostra vita. Non dovremmo sprecarlo.

Stavano seduti a terra davanti al divano, su tappeti, coperte e cuscini, con una tazza fumante di tè tra le mani. Verena leggeva distrattamente un libro dalla collezione di Sonne, di una delle autrici che portavano il nome delle sue sorelle. La lettura per lei si era trasformata in un'abitudine essenziale, come la musica per Richard. Senza non sapevano trovare un senso all'universo. Ogni giorno Verena curiosava sugli scaffali della libreria e sceglieva ciò che più la aggradava. Sonne non era contrario, affatto, ma la guardava, libro dopo libro, con una ruga d'ansia nella fronte, come se temesse che attraverso quelle pagine potesse scoprire qualcosa di lui che non andava scoperto. In effetti, grazie ai suoi libri stava imparando a conoscerlo da una nuova prospettiva. Si faceva addirittura prendere dal disappunto quando alcuni di essi si rivelavano opposti ai suoi gusti o ai suoi principi. Aveva richiuso subito un saggio di Heidegger dopo che Sonne le aveva raccontato che per molti anni si era ritirato a scrivere in una baita nella Foresta Nera.

Avevano spostato il tavolino basso a ridosso del muro e acceso soltanto una lampada dalla luce sui toni dell'arancio. Dei piccoli accorgimenti avevano reso l'austero salotto un luogo più accogliente e l'atmosfera più rilassata. L'idea era stata sua. Avrebbe voluto accendere anche la radio, ma Sonne l'aveva pregato di non farlo per via di un principio di emicrania. Si stavano limitando, perciò, a parlare e a sorseggiare il tè, in cerchio.

Poi Sonne aveva proposto a Verena di pettinarle i capelli.

Lei, stupita, si era stretta le ginocchia al petto. «Come mai?»

«Non ho mai pettinato una donna» ammise lui, «ma mi piacerebbe molto. Toccarti i capelli mi rilassa come mi rilassava toccare quelli di mia madre. I suoi erano simili ai tuoi, solo un po' più radi, e lei li legava sempre, tutti tirati all'indietro.» Aveva formulato quella richiesta come se fosse un bisogno.

Verena rimase in silenzio per un paio di secondi. «Va bene.» Anche se non sembrava particolarmente entusiasta, capì che non poteva rifiutare, non ora che l'altro aveva mostrato un minimo di apertura con quella confessione.

Sonne andò a prendere la spazzola ovale in camera sua. Quando tornò, si sedette sul divano, e lei gli si avvicinò gattonando. Sia lui che Richard la fissarono. Nelle sue movenze, ad esempio nel movimento della schiena e persino in quello respiratorio, c'era sempre qualcosa di ipnotico e animalesco, che emanava una vibrazione calda, di cui probabilmente era ignara. Il fuoco dentro di lei non si era mai spento neanche con le tragedie che le erano piovute addosso. Nessun essere umano sarebbe mai riuscito a estinguerlo. Era questo che amava di Verena. La sua forza.

Si alzò sulle ginocchia e si appoggiò con i gomiti alle cosce di Sonne come se si stesse affacciando a una finestra. «Fa' piano, ok? Ho molti nodi. E inizia dal basso.» Si sporse per baciarlo, e poi si sedette di nuovo a terra con le gambe incrociate, dandogli le spalle. Sorrise a Richard. «Vuoi essere tu il prossimo?»

«La mia chioma non è indisciplinata come la tua.»

Sonne le sollevò la massa di capelli e iniziò a spazzolare.

Richard poteva vedere il viso di entrambi, perché stava loro di fronte. In lei, nella piega delle labbra, sebbene si mostrasse calma e indolente, persino con una vena di malizia, emergeva una sorta di reticenza. Non sembrava a proprio agio. Non le era mai successo per il tocco di Sonne, soprattutto quando si trattava di farsi accarezzare i capelli. Evidentemente percepiva l'atto del pettinare come più aggressivo e aveva accettato solo per accontentare lui, ossia, per il suo benessere.

Sonne li districava facendo scorrere tra di essi una mano aperta, da cui le ciocche pendevano come grappoli di fiori da rami antichi, e poi dava una spazzolata morbida, paziente.

Richard le passò di nuovo la sua tazza di tè, che aveva appoggiato poco lontano. «Mi piace molto quest'atmosfera, comunque. Potremmo anche costruire dei fortini con le lenzuola. E accendere delle cande- ah, no.»

Sonne gli lanciò un'occhiata vagamente divertita, che tuttavia tornò subito seria. Era concentrato. «Non esagerare. Va benissimo così.»

«Esagerare? Stavo anche per proporti di mettere degli addobbi di Natale, quest'anno. Non mi dai mai soddisfazione!»

«Non ne ho.»

«Non avevo dubbi» sbuffò. «Potremmo andare a comprarli. Vi dirò, non sono mai stato attaccato alle festività, ma questi mercatini di Natale mi ispirano. Sbaglio o quelli di Brema sono tra i più famosi d'Europa?»

Gli stava tornando voglia di uscire. Voleva sentire la neve posarsi sulla sua pelle, sulla punta del naso, pattinare sulle piste installate in centro, ascoltare le canzoni che i bambini con il volto dipinto di nero cantavano per la Nikolauslaufen (1). Voleva passeggiare con Sonne e Verena nella Marktplatz addobbata di luci, stand e giostre sfavillanti, di cui poteva avere un assaggio solo guardando fuori dalla finestra. Voleva strafogarsi di dolci che lasciavano le dita tutte appiccicose, con loro. Voleva sorprenderli con dei regali.

Niente sorprese. Non possiamo allontanarci l'uno dall'altro, quali sorprese?

Si demotivò all'istante, a quel pensiero, e a ciò contribuirono le facce per nulla condiscendenti degli altri due. Quella di Verena diceva: cosa c'è da festeggiare, questo terrore che portiamo sempre con noi?

Non intendevano accogliere il potere rincuorante delle festività.

Alzò le mani ancor prima che loro potessero ribattere. «Lasciate perdere. Vada di tè e treccine anche il 25. Dopotutto, perché mai si dovrebbe festeggiare la nascita di un tizio immaginario di cui si parla in un libro?»

Sonne chiuse gli occhi e si fermò per un secondo, poi riprese con i colpi di spazzola e il loro suono ruvido. «Credo che attualmente il Natale abbia ben poco a che fare con la religiosità. È solo una festa consumistica basata...»

«... sul modello americano, lo so, lo so. Santo cielo. Non te li meriti neanche i regali a cui stavo pensando.»

Verena ridacchiò. «Adesso sono curiosa, però.»

«Te lo ricordi il sexy shop dove abbiamo comprato quella roba quest'estate?»

«Ovvio.»

«Ecco. C'erano tanti articoli interessanti che potevano fare al caso suo.»

«Sarebbe dovuto andare comunque lui a comprarli. Ce lo vedi, a entrare in quel negozio?»

Sonne le sfiorò il collo con la mano libera. «Tu mi sottovaluti, Vera.»

Verena si voltò per guardarlo, con un'espressione interrogativa. Anche Richard era sorpreso. Vera. Non aveva mai dato loro dei soprannomi o dei nomignoli affettuosi. Non aveva mai adottato né ReniRichie. Forse Vera gli piaceva di più o lo trovava più adatto. C'era da capire se piacesse a lei.

Ma non disse nulla in merito, soltanto: «Beh, mi ricrederò quando tornerai a casa con un plug anale o un gatto a nove code.»

Richard rise di gusto. «Ottimo spunto.»

Sonne fu sul punto di replicare, ma venne colto da un colpo di tosse. Si schiarì la gola e poi annusò l'aria.

Si pietrificò.

«Sentite anche voi?» chiese con un filo di voce. Per diversi attimi non sbatté le palpebre.

Verena si osservò attorno stranita. Richard inspirò e comprese al volo il timore di Sonne. Un odore pungente che aleggiava tra le pareti, in alto, più leggero dell'ossigeno.

«È puzza di gas?»

Si misero tutti e tre in piedi, la spazzola venne abbandonata sul divano insieme ai capelli che le si erano impigliati attorno. Verena confermò. «Credo di sì. Forse c'è qualche problema con la bombola. Vado a controllare e ad aprire le finestre.»

«Aspetta, vengo anch'io» disse Richard, che non poteva esimersi dal seguirla.

Avanzò giusto di qualche passo insieme a lei, prima di sentire i passi pesanti di Sonne andare in tutt'altra direzione e, poi, il rumore della porta di casa che veniva spalancata.

«Sonne! Dove cazzo vai?»

Si era precipitato per le scale del palazzo, in panico.

Richard si lanciò trafelato verso la porta e il pianerottolo. Strinse le mani alla ringhiera delle scale guardando di sotto: Sonne stava correndo via, voleva uscire in strada. Li aveva lasciati da soli. Si era lasciato da solo, ancora una volta. «Sonne! Torna su, porca puttana!» Voleva urlargli che era un codardo, ma si trattenne. L'aveva visto reagire al fuoco soltanto in un'occasione, all'università, e lì era rimasto inchiodato al suolo, immobilizzato dalla paura, mentre adesso preferiva scappare.

Verena intanto gridò dalla cucina: «Non è niente! Ho risolto!»

Nell'udire la sua voce, un brivido gli scivolò sulla nuca. Verena. Sola dentro casa. Lontana dai loro sguardi. Ripiombò nell'appartamento con il cuore che batteva in petto e nelle orecchie i colpi d'un ariete. Andò in cucina.

«Reni...»

Fu tremendo scoprire che avevano avuto ragione.

Poteva accadere solo quando non c'erano sguardi a cui affidarsi.

Dalle finestre aperte soffiò su di lui un vento gelido, insieme ad alcuni fiocchi di neve che si posarono sul davanzale con la leggiadria di batuffoli di cotone. Le braccia di Richard si fecero di piombo.

Verena era sparita.

E adesso era solo anche lui, ad attendere la risacca di un mare invisibile.

Si sfogò con un grido di rabbia diretto al vuoto. Era bastato soltanto un istante, un minuscolo, maledetto, importantissimo istante. Imparò che anche le frazioni di secondo contavano in quel gioco. Senza poterlo impedire, pensò a un'espressione che gli sembrò piuttosto calzante per quella circostanza: si veniva inghiottiti, ironia della sorte, in un batter d'occhio.






(1) Nikolauslaufen: la camminata di San Nicola. Antica tradizione del periodo natalizio di Brema.






Note d'autrice:

Cerco di essere breve... Bentornatx su questi schermi! ♥ È dicembre (come per il trio!), i pomeriggi trascorrono sotto le coperte e con una bella tisana tra le mani, e mancano solo tre capitoli alla fine della seconda parte. Volendo concluderla il più presto possibile - cioè prima della prossima sessione di esami - intendo pubblicare un capitolo ogni dieci giorni, per cui ci vedremo presto con il prossimo, dal pov di Verena, che sarà uno dei più cruciali e difficili di tutta la storia. Soprattutto da scrivere. Pregate per me.

Il titolo di questo capitolo, Augenblick, significa letteralmente batter d'occhio, ma in tedesco viene usato anche solo per dire "istante, momento". E... nulla, mi piaceva perché ci stava da morire con la riflessione finale del capitolo, soprattutto per il simbolismo dello sguardo. 

Voi avevate capito che Richard e Verena possono sparire solo se non sono visti da nessuno? E vi aspettavate che Sonne si sarebbe inventato una bugia del genere per giustificare il suo comportamento?

Vi aspetto, un abbraccio ♥

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