XXXII. Funkeln (in ihren Schoß)

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N E B E L

XXXII.

Funkeln (in ihren Schoß)



Verena credeva di aver arginato il danno alla bombola del gas quando una vampata di fuoco le esplose in faccia.

Urlò, indietreggiando d'istinto, e cadde a terra. Si tastò freneticamente il volto e i vestiti per il terrore di essersi ustionata, eppure non sentiva dolore, soltanto caldo. Il fiato le ritornò bollente nei polmoni, mentre un fischio le tagliò la testa da un orecchio all'altro.

«Ri... Richard...» chiamò, boccheggiando e cercando il ragazzo alle proprie spalle, ma lui non era lì.

Non appena si voltò capì di non essere più a casa.

Lo spazio si era ampliato a dismisura. E tutto andava a fuoco.

L'unica parte del corpo che riuscì a muovere fu il capo: alzò lo sguardo alla ricerca del soffitto sopra di sé, sopra le pareti divorate dalle fiamme, e lo trovò molto in alto, nella forma di volte a crociera.

Una cattedrale.

Uno degli antichi e imponenti lampadari della navata centrale precipitò in quel momento poco lontano da lei, generando un frastuono di vetro e metallo. Verena gridò di nuovo e arretrò strisciando tra le pietre sul pavimento.

Si guardò intorno e scoprì che il crocifisso era crollato sull'altare in mezzo alle ghirlande e i candelabri. Il Cristo si era staccato dalla croce e agonizzava tra i resti di se stesso, come invocando il suo aiuto. Il rosone e tutte le altre vetrate erano scoppiate, ma il fumo le impediva di scorgere l'esterno, come se al di fuori di quel luogo non ci fosse nient'altro. Solo il fuoco e nulla più, in una bolla solitaria dell'universo.

Verena si sforzò di mettersi in piedi. Si coprì naso e bocca con il collo del maglione ai primi colpi di tosse. L'aria era densa quanto il respiro di un vulcano, un esalare pigro di faville e ceneri danzanti. Tutto ondeggiava. Presto l'edificio si sarebbe accartocciato per essere ingoiato nelle viscere della terra. Non sapeva dove girarsi. Ovunque posasse gli occhi qualcosa stava franando al suolo o era vittima del fuoco. Anche i quattro portoni neri dell'entrata principale erano ostruiti dalle macerie.

Verena si rese conto che era il Duomo di Brema. Riconobbe l'angolo delle preghiere, con il cerchio di lumini che recitava Ich bin das Licht der Welt (1), e il pulpito, addossato a un pilastro, interamente in legno e pieno fregi ornamentali. Anch'esso bruciava. Poteva quasi sentirlo lamentarsi. Apprese che le fiamme sapevano gemere, crepitare e persino ululare cupe come il vento durante una notte d'autunno, uno dei dettagli tremendi che si possono notare solo quando ci si ritrova in una situazione al limite che non si è mai immaginato di poter vivere in prima persona. Era di sicuro una cosa che avevano avuto modo di imparare anche Richard e Sonne quando avevano assistito all'incendio in università.

Li chiamò, disperata, con il pensiero.

Reni, mi dispiace, cazzo, mi dispiace, mi dispiace, non dovevo voltarmi..., le disse il primo. Dove sei?

Dovete aiutarmi! Sono nel Duomo di Brema e c'è un incendio, ma non trovo vie d'uscita!

Un istante di silenzio nel cranio e, poi, la voce ferma di Sonne. Parlò come se si stesse convincendo di avere tutto sotto controllo. Prova a uscire dalla sagrestia, dovrebbe condurti fuori. È sulla sinistra.

Verena non si chiese nemmeno come facesse a saperlo. Imboccò di corsa la navata sulla sinistra alla ricerca di una porta, passando sotto gli archi di mattoni in stile romanico che prima o poi avrebbero ceduto. Si domandò, piuttosto, se potessero arrivare dei soccorsi, se qualcuno li avesse chiamati, se fosse sola lì dentro.

Trovò la porta, massiccia e circondata da una cornice di decorazioni in marmo. Un grosso candelabro era caduto dinanzi ad essa. Verena lo scavalcò e, abbassata la maniglia, seppur rovente, si fiondò dall'altro lato, verso l'ala ovest del Duomo, reggendosi la mano dolorante. Il fumo affluì nella sagrestia con lei, come a breve avrebbero fatto anche le fiamme, più affamate di qualsiasi creatura conosciuta: adesso capiva perché Sonne avesse il terrore del fuoco. Richiuse la porta con un calcio.

L'ho trovata.

Bene, d'accordo. Cammina basso, dove l'aria è più respirabile. Se trovi dell'acqua bagnati i vestiti.

Verena s'incurvò più che poteva, ma nella sagrestia, vuota a parte per il mobilio sacro, tutto di legno, tutto infiammabile e pronto a disfarsi, non trovò acqua. Nonostante ciò poté concedersi un moto di ottimismo: dallo stanzone si diramava un lungo corridoio che sembrava ancora intatto. L'incendio doveva essere partito dall'edificio principale, ma come? Qualcosa le suggeriva che non era stato causato da un incidente.

Percorse il corridoio di fretta, cercando una nuova porta aperta, ma le uniche che vide nella penombra e che tentò di varcare sbattendoci contro erano chiuse a chiave. Più avanzava, più era buio. Era un buon segno. L'oscurità le aveva sempre trasmesso una sensazione di gran lunga più confortante della luce.

Alla fine del corridoio si stagliava la figura di una persona.

Verena si fermò. La distingueva a stento.

«C'è una via d'uscita?» domandò d'impulso, perché era il primo essere umano che incontrava, e sentì la propria voce rimbalzare terrorizzata tra le pareti, come se non le appartenesse e la stesse ascoltando da un altoparlante.

L'individuo non replicò. Per qualche secondo rimase immobile, muto, lontano. Verena si chiese se non fosse una propria allucinazione o una statua, un guardiano che l'attendeva sulla soglia della sua unica via di salvezza. Poi cominciò, semplicemente, a camminare verso di lei.

Il passo era inconfondibile, così come il suono: un cigolio di stivali con le suole di gomma. Un brivido le fece vibrare la schiena.

Era lui.

L'uomo che la seguiva sin dalla prima sparizione.

Non era Günther. Non sapeva chi fosse, né ne vedeva il viso.

Si voltò e riprese a correre nella direzione opposta, con l'istinto di una gazzella, che le suggeriva soltanto di fuggire, non importava dove. Se c'era una cosa di cui era sicura a un livello viscerale era che non si sarebbe mai voluta trovare faccia a faccia con quella persona. Doveva scappare da lui, anche a costo di tornare nelle fiamme.

Rispuntò nella sagrestia e la attraversò riprendendo a tossire, una tosse che le raschiava in petto, perché il fumo aveva invaso l'intero ambiente.

Devo... devo tornare indietro...

Come indietro?! Non hai trovato vie di fuga?, proruppe Richard. Verena provò in quell'istante un desiderio smisurato di arrendersi e inciampare tra le sue braccia, anzi, di svegliarsi e scoprire di esserci sempre stata, al sicuro nel proprio letto, per poter dire: era solo un brutto sogno. Una cosa simile non può capitare a me. Posso continuare a vivere. Fatemi continuare a vivere.

Tossì fino a lacrimare, mentre si spingeva con tutto il corpo contro la porta che l'avrebbe riportata all'inferno.

Mi sta inseguendo di nuovo.

Chi?, e Sonne, che sapeva ancora pochissimo del panico che si provava dall'altra parte...

Lui. Sempre lui.

Si ritrovò sulla navata laterale. Richiuse la porta, anche se sarebbe valso a poco. Sapeva che neanche il fuoco l'avrebbe fermato. La voleva. E l'avrebbe avuta. Di dimensione in dimensione, dove ogni luogo sembrava in suo dominio, la cercava per potersi ricongiungere a lei. In questo caso, forse, per morire con lei.

Riprese a correre senza un criterio, nuotando appesantita nell'aria liquida, in un mare d'oro e d'arancio.

Zigzagò a vuoto. Non c'era angolo in cui potesse nascondersi.

Ogni cosa era illuminata: Verena per prima, con quella luce abbagliante che le veniva gettata addosso. Il fuoco divino la indicava da tutte le direzioni al suo inseguitore. Non stavano dalla sua parte, realizzò, né la luce né Dio.

Evitò di striscio delle travi che precipitarono dal soffitto, sfondando una serie di panche. E tra le due file di panche Verena camminò – sempre più fiacca, come un debole Mosè tra le acque divise, tra onde d'un altro elemento – verso l'ingresso, pur sapendo che era bloccato. Il pavimento era ricoperto di intonaco, schegge di legno e frammenti di vetro. Si sarebbe ferita anche solo cadendo. Ma era ancora determinata a uscire, perciò si sarebbe messa a spostare pietra per pietra, se necessario, con le forze che le rimanevano.

S'immaginò che l'organo iniziasse a suonare dal nulla per accompagnare la sua uscita. Una marcia nuziale al contrario, sulle cui note rifiutava il matrimonio con quella realtà.

Tossì, piegandosi per un attimo sulle ginocchia, nel centro esatto della cattedrale. Ci mise più tempo a calmarsi, stavolta.

Il suo respiro si tramutò in un sibilo e la portò a un'improvvisa disillusione.

Sarebbe morta, capì. Soffocata, schiacciata o bruciata. A meno che l'altro lato non avesse deciso di richiamarla indietro in quel preciso istante.

Ma a chiamarla fu un'altra voce, che non proveniva dalla sua testa.

«Vera.»

Verena si raddrizzò lentamente, con la pelle d'oca, e si voltò verso l'inseguitore.

Era lì di fronte a lei, anche lui nella navata centrale, ma a una certa distanza, proprio davanti all'altare.

Alto, grosso, con un cappotto nero aperto sul petto. Nel viso, ombre inedite create dai riflessi del fuoco, di gran lunga diverse rispetto a quelle che conosceva e amava.

Verena fece d'istinto un passo in avanti.

Sonne?

Sonne le rispose. Sei riuscita a fuggire, Verena?

Eppure, per qualche motivo, la risposta non sembrò provenire dalla persona in carne e ossa che aveva dinanzi – sembrava quasi una presa in giro. Dopotutto, era una regola che ricordava molto bene: non potevano comunicare quando si trovavano dalla stessa parte.

Non riuscì a mettere insieme i pezzi.

Sonne era a casa ma era anche nella cattedrale con lei. Da quella prospettiva, sotto il rosone esploso, prendeva il posto del crocifisso, in una posa altrettanto ieratica. Le fiamme gli creavano intorno un'aura luminosa che baciava il suo corpo, come se fosse lui ad emanarla. Un Dio fatto di fuoco. Un Dio Sole. Alludeva a questo il suo nome?

Ich bin das Licht der Welt.

Verena sbattè le palpebre, incapace di qualsiasi ragionamento, lasciando la presa sul maglione con cui si proteggeva la bocca. «Sonne?» ripeté.

Fu lui, quella versione di lui, a parlare ora. «Finalmente ti ho raggiunto.»

«Eri tu? Sei sempre stato tu a inseguirmi?»

«Non ti ho lasciata sola nemmeno per un attimo.»

Sonne avanzò misurando i passi, lasciandole il tempo per digerire ciascuno di essi. Verena, che faticava a trovare le parole, deglutì. Notò che sotto il cappotto, lo stesso che aveva nella realtà, il petto era nudo e sporco di fuliggine. Le sembrò assurdo che potesse vedere per la prima volta un nuovo pezzo della sua pelle in quel modo. Era ricoperto da peli sottili e i muscoli sembravano allenati. Niente di cui vergognarsi, dunque. In qualche misura, appariva anche più bello del suo corrispettivo reale, di una bellezza efferata, solenne, specialmente nel volto, che non era butterato da alcuna imperfezione. La cicatrice accanto all'occhio era sparita. Eppure il suo sguardo era più duro e intransigente che mai. Era un'illusione? Un impostore? Un'altra domanda che le balenò in mente: era lui ad aver appiccato l'incendio? Esisteva un suo doppio che non aveva paura del fuoco, in quel mondo?

Verena, dimmi che stai bene.

Verena ignorò l'altro Sonne. «Se sai...» tossì, «se sai qualcosa di quello che ci sta succedendo...»

Azzardò un passo verso di lui, ma inchiodò all'istante quando lui alzò una pistola che teneva seminascosta nelle pieghe del cappotto.

A quel movimento, delle finissime ciocche di capelli gli sfiorarono le tempie.

Verena non guardò l'arma, ma Sonne, di cui l'arma era un prolungamento. Lo guardò tanto intensamente da potergli sciogliere il volto bellissimo e disumano che si era ritrovato d'improvviso. Come se non ci credesse. Come se stesse vedendo il suo vero io, sotto il travestimento di cui si era liberato, e stesse pensando: no, non può essere riuscito a ingannarmi per tutto questo tempo. Non sono così stupida.

Accadde tutto troppo in fretta perché potesse aggrapparsi a quella speranza.

Sonne mirò alla testa.

Una brezza fredda le attraversò le ossa. Portò con sé un terrore che la riempì tutta d'un pezzo, come un calco, per pietrificarla. E, confuso nella paura, un sentimento che le era affine: l'odio. Fu l'odio, l'orgoglio, a farla restare in piedi all'impatto con quel tradimento, a farle contrarre i muscoli del viso in un'espressione di disgusto.

Sonne prese un respiro profondo, indugiò un paio di secondi con il braccio teso. Fino all'ultimo sembrò inflessibile e deciso a sparare, ma infine una ruga di rimorso, o mancanza di coraggio, intaccò quella sua maschera crudele.

Verena non avrebbe voluto supplicarlo, ma lo supplicò comunque con lo sguardo.

Lui, però, sparò lo stesso.

Dalla canna della pistola fioccò un bouquet di scintille.




Verena non riuscì a cogliere l'esatto momento in cui il proiettile le perforò il grembo. Oscillò solo per un attimo all'indietro. Poi si tastò il basso ventre con entrambe le mani, dove aveva la sensazione di essere stata trapassata da una sbarra di ferro, anche se senza dolore, non un dolore chiaro, noto, quantomeno. Abbassò lo sguardo e si vide le dita inzuppate di sangue. Le uscì un altro sibilo dalla bocca, e subito dopo un suono acuto, da bambina.

Non capiva. Non immaginava cosa fosse ricevere un colpo di pistola. Non era stramazzata al suolo. Il tempo era sospeso e poteva ancora camminare. Camminò con altri passi traballanti, ondeggiando, come ondeggiavano le immagini intorno, le fiamme, il fumo, Sonne. Superò Sonne. Sbatté per errore contro la sua spalla, perché era convinta di star andando dritto quando in realtà stava sbandando, ma si scostò immediatamente con una smorfia nauseata e non badò più alla sua presenza. L'unico scopo era allontanarsi da lì.

Via, via, via da lui. Per sempre.

Riuscì a camminare fino all'altare, dove il suo corpo non resse più, costringendola a consegnarsi alla divinità che governava quel mondo e a cui Sonne la stava sacrificando.

Cadde sui gradini di marmo.

O non fece in tempo a cadere.

Sonne la prese in braccio prima che potesse toccare terra e la sollevò tenendola stretta a sé, al petto nudo. Verena lo guardò in faccia mentre la vista si offuscava. Voleva rifiutarsi. Voleva urlargli: lasciami qui tra le tue fiamme. Non toccarmi mai più.

Lui le rivolse uno sguardo altero. «Ricordi? "Non ci sarà una seconda vita"» le disse, mentre la portava via, attraversando il fuoco, diretto verso l'esterno. Verena, braccia e gambe a penzoloni, non ricordava una frase del genere. Era ancora abbastanza cosciente per notare che né lui né lei si bruciarono lungo il percorso, come se fossero diventati ignifughi, nel bel mezzo dell'apocalisse.




Uscirono e tutto d'un tratto si alzò la nebbia.

Le entrò in bocca, nelle narici, nelle orecchie. La avvelenò. Non vide niente di cosa ci fosse all'esterno: perse i sensi cullata dall'andatura calma di Sonne.

Tornò in sé poco dopo, o quasi, ancora tra le sue braccia, mentre lui percorreva il corridoio di quello che sembrava un ospedale in rovina. Il suono dei suoi stivali si moltiplicava nel silenzio, ma non era l'unico. Giunse un verso stridulo e delirante, la risata di una iena, a cui se ne unì presto una speculare, proveniente da una porta che dondolava sui cardini. Poi, ancora altri versi laceranti che arrivarono fino a lei da lontano, di animali tenuti in cattività con collari e camicie di forza, che a breve sarebbero stati sedati con i farmaci.

Verena voltò la testa per quel che poteva e, tra le luci al neon sfarfallanti, un gioco perenne tra luce e buio, tra realtà e suggestione, vide una grossa testuggine che avanzava a fatica al loro fianco, su zampe così gonfie che parevano sul punto di esplodere, e che infatti rimase presto indietro. Su un lettino a rotelle lasciato maldestramente a metà corridoio, invece, due serpenti si attorcigliavano a vicenda come facendo l'amore, finché uno non ingoiò l'altro per intero e, al loro passaggio, si rizzò per fissarla dritto negli occhi con le sue pupille verticali.

Sui muri si espandevano piante rampicanti, vive, che strisciavano con lo stesso identico movimento dei serpenti, fino al soffitto, dove sfondavano i pannelli e si avvolgevano ai tubi e ai cavi per spezzarli. Una venere acchiappamosche a pochi centimetri dai suoi piedi cercò di addentarle l'alluce con la mandibola verde-rossa.

«D-dove siamo...?» si sforzò di chiedere. La sua voce echeggiò roca e sottile, come se si levasse dall'oltretomba.

Sonne non abbassò lo sguardo su di lei. «Usa l'immaginazione» si limitò a dire.

Non ebbe la forza di ribattere e fare altre domande. Stava per svenire di nuovo. Si concentrò sulla striscia adesiva azzurra che a tratti emergeva sulle pareti, sotto i rami e le foglie carnose, ad altezza della testa di Sonne. Divideva il muro in due sezioni come per separare il basso dall'alto. Fu la sua unica guida. Non si soffermò più sulle creature lì rinchiuse. L'unica presenza umana, e al contempo la più animale, era la loro.

Sonne svoltò in una sala operatoria. La adagiò sul lettino con lo schienale rialzato e, a quello spostamento, il ventre le restituì una fitta che la fece gridare. Verena si posò di nuovo una mano in grembo, dove il maglione era diventato uno straccio impregnato di sangue. Guardò a destra e a sinistra con le lacrime agli occhi per cercare di capire quali fossero le prossime intenzioni del Sonne aguzzino.

Lui si muoveva deciso tra i vari attrezzi della stanza: adesso stava preparando un macchinario accanto al letto a cui era collegato un respiratore artificiale. I suoi stivali producevano un rumore ancora più sinistro nell'acqua melmosa. Notava ora che la sala operatoria era allagata. S'immaginò che presto sarebbero comparse delle rane che le sarebbero saltate addosso mentre Sonne tentava di rimuoverle il proiettile, o addirittura dei coccodrilli con proiettili affilati al posto dei denti.

«Mi curerai la ferita...?» biascicò, in cerca di una conferma.

«Sì.»

«Allora perché...» Ma non fece in tempo a terminare la domanda. Sonne le poggiò la mascherina di plastica del respiratore sul naso. La tenne premuta con la propria mano.

«Respira. Ti aiuterà con il dolore.»

Verena agganciò il suo sguardo. Per qualche secondo non inalò il fumo che fuoriusciva dal tubo. Però non aveva scelta. Non si fidava più di lui e la repulsione nei suoi confronti aumentava di minuto in minuto, ma era certa che non volesse ammazzarla, o l'avrebbe già fatto. Pensava che morire fosse la cosa peggiore che poteva capitarle. Così respirò. Respirò a fondo. L'immagine di Sonne, del suo viso a pochi centimetri, si sdoppiò, si separò, poi tornò unita, per poi ricominciare il ciclo.

Credeva che quel gas l'avrebbe fatta addormentare, invece rimase sveglia, anche se non riusciva più a muoversi, bloccata nel suo stesso corpo e ad esso insensibile, come se fosse uno spirito che aveva posseduto Verena e non lei in prima persona.

Dopo un paio di minuti, Sonne rimosse il respiratore e lo sostituì con una museruola. Gliela legò dietro la testa e poi la strinse bene sotto il mento per non permetterle di aprire la bocca. Verena si chiese a cosa potesse servire quando non riusciva neanche più a parlare. Fu il suo ultimo pensiero lucido.

Sonne accese la lampada che pendeva accanto a loro e gliela puntò sul ventre. Non indossò né guanti né altre protezioni. Le alzò il maglione fin sotto il seno e le abbassò i pantaloni sotto il bacino. Verena vide finalmente che forma aveva quella violenza: un fiore di sangue, con i petali di sangue, con una corolla che sputava sangue, tra l'ombelico e il pube. C'era un buco profondo nel suo grembo in cui una scheggia d'argento si era fatta strada per raggiungere l'origine della sua vita, una piccola sfera incandescente che con l'immaginazione aveva sempre collocato lì, nel centro di sé.

Toglilo, cercò di dire. Cava l'argento dalla mia carne.

Dall'altro lato dell'universo, Richard e Sonne la sentirono. Le risposero, o forse no, la loro voce le risuonò in testa come se fosse la propria, e i pensieri si mescolarono, senza più un senso, e cominciarono a sembrare tutti un unico flusso che le apparteneva, a cui si aggiunsero anche le voci dei suoi fratelli, di suo padre, di Dio, tutti ad abitare contemporaneamente la stessa persona.

Dove sono? Dove sei? Ancora a Brema, una città parallela, oppure su un altro pianeta, o in una voragine del nostro. Ci senti, Verena? Rispondi, Verena? Dove sei? Ti troveremo. Non puoi fuggire per sempre. Perché mi hai fatto questo? Perché tratti con una tale crudeltà qualcuno che ami? Che stai dicendo? Non riesco più a parlare. Non ho più una mia voce. Aiuto! La mia voce! La mia vita! Non voglio morire! Non morirai. Te lo prometto. Non puoi promettere niente. Non puoi più rimediare. L'hai seminato? È la stessa persona a inseguirci? L'hai visto? Lui mi odia. Mio padre mi odia. Dio mi odia. Sì, ti odio. Voglio eliminarti da me. Non saresti mai dovuta nascere. E adesso impedirò...

Sonne fece pressione con le dita ai lati della ferita per espellere il proiettile. Ne conseguì una nuova eruzione di sangue che gli schizzò in faccia. Se Verena avesse potuto sentire dolore, adesso, ne era sicura, avrebbe urlato con tutto il fiato che le rimaneva in gola. Sonne prese una pinza. Non sapeva come, ma l'acqua sul pavimento si era alzata e ora gli lambiva i polpacci. Dentro vi nuotavano pesci fluorescenti e oggetti di vario tipo, garze, siringhe, scatole di farmaci e di fiammiferi, persino dei libri, una coperta di lana a quadri, una radiolina anni Settanta, un pupazzo di Sandmännchen (2).

Sonne inserì la pinza nel buco e riuscì ad afferrare il proiettile. Lo tirò via lentamente, con una mano fermissima, per poi abbandonarlo in un innocuo tintinnio su un carrello di metallo ai piedi del letto, troppo lontano perché Verena potesse esaminarlo.

«Ti starai chiedendo dove abbia imparato a fare tutto questo» le disse Sonne allora, o meglio, la sua sagoma distorta, con un certo sprezzo, lanciandole un'occhiata mentre si allontanava. Non si pulì neanche le mani. Le diede le spalle e recuperò qualche altro strumento da un cassetto, probabilmente qualcosa con cui avrebbe ricucito la ferita.

Le palpebre di Verena si fecero sempre più pesanti. Non riusciva a chiuderle ma nemmeno a sollevarle del tutto.

Non ho scelta. O te o la morte. Una volta hai detto che non mi avresti mai lasciata morire, neanche se te l'avessi chiesto. È per questo che non hai avuto abbastanza coraggio? Hai bisogno di me? Non sai neanche tu quanto hai bisogno di me.

Sonne: lo so benissimo, meine Liebe.

Il padre: non osare, meine Liebe.

Dio: sei tu ad avere bisogno di me.

No! Non più.

«In questo posto» continuò Sonne, «posso fare qualunque cosa. Sono io a decidere cosa accade. Non esiste libero arbitrio. Posso manipolare le regole della natura a mio piacimento, perché tutto mi appartiene e dipende da me. Persino tu.» Si voltò di nuovo e tornò da lei con flemma, attraversando l'alta marea, scansando gli ostacoli che galleggiavano nell'acqua. In una mano reggeva un bisturi.

Verena ebbe la sensazione di scivolare all'indietro. Nei fatti, era ancora paralizzata sul letto, una visione di cui l'altro si compiaceva.

«Anche quando sei fuori dal mio controllo, mi appartieni» proseguì lui, affondando le braccia ai lati del suo corpo e inclinandosi per guardarla meglio in faccia, due spilli di giada al posto delle iridi. «Anche quando pensi di essere libera, in realtà sei confinata entro i miei limiti. Io sono tutto ciò che vedi. Io sono nascosto nei tuoi occhi. Non ci sarà un singolo istante della tua vita in cui io non sarò dentro di te.»

A quelle parole, Verena pensò che Sonne volesse impiantarle qualcosa in grembo. Poi, però, quando cominciò a tagliarle la pelle morbida del ventre con il bisturi, capì che il suo intento era quello di rimuovere.

Non possiamo portare, ma possiamo lasciare.

Cercò di dimenarsi con tutta se stessa, ma ciò che ottenne fu un mero movimento delle dita delle mani e dei piedi, una specie di convulsione a cui Sonne non prestò la benché minima attenzione. Le incise una lunga linea dritta sulla traiettoria della ferita già esistente, da cui sgorgò un nuovo fiotto di sangue che avrebbe nutrito le creature sotto il letto: beveraggio prelibato dalla sua pancia aperta, un sorriso con tanto di labbra. Sonne posò il bisturi e afferrò i due lembi che si erano formati per allargare lo squarcio.

Il mio corpo! – Il tuo corpo non è tuo – è mio – Lascialo in pace! Il tuo – mio – corpo è – mio.

Mio.

Mio.

Mio.

MIO.

Quando Verena vide la carne rosa che foderava l'interno dell'addome, il rovescio di una buccia di pesca, cominciò ad avvertire con più prepotenza l'effetto della sostanza che aveva inalato, come per l'ordine di qualcuno, come un trucco di magia. Allora non sentì più la voce di nessuno in testa, nemmeno la propria. La stanza si riempì di piccole nubi color indaco. I pesci presero a saltare dall'acqua e rimasero sospesi in aria, dove poi si misero a nuotare, passandole accanto, mentre Sonne spingeva entrambe le mani nel suo ventre. Un pesce le urtò la guancia, e sulla pelle le rimase una sostanza viscida. Sonne strappò. Verena credette che stessero fluttuando. Che tutto fosse acqua. Voleva diventare un pesce. Perdere la memoria ogni secondo. Andare giù nell'oceano per allontanarsi il più possibile dalla luce del sole, toccare l'ultimo strato della terra con il fianco, stesa sulla sabbia, a riposare in pace. La luce andò via. Sonne tirò fuori dallo squarcio un organo rossastro, liscio, a cui erano legati due satelliti ovali e che al buio poté osservare a malapena. Lo tenne in pugno per un momento, poi se ne sbarazzò lanciandolo sul carrello con indifferenza. Le lacrime, perle che le si erano formate tra le ciglia, scivolarono da sole sulle gote.

Sonne la guardò. Non come una persona, ma come uno dei suoi animali per cui si rassegnava a provare un briciolo di pietà dopo mille bastonate. Tornò a maneggiarle la ferita, stavolta con ago e filo. Verena si concentrò su un angolo della sala operatoria, dove si era aperto un buco nero grande quanto un armadio. Un'apertura come la sua, generata da una stella morta. L'acqua cominciò a defluire dentro di esso, trascinando con sé oggetti e creature. Ma non loro.

Alla fine rimasero soli.

Sonne aveva terminato la propria opera e le aveva abbassato di nuovo il maglione. Era tornata anche la luce, persino le lampade nel corridoio non tremavano più. Addosso a entrambi restavano le tracce di sangue di un macello. «Ascoltami bene. Quando tornerai dall'altra parte i punti saranno spariti. Dovrà essere Richard a ricucirti. Lui saprà come fare.»

Ecco l'ultima cosa che le disse. Fece un paio di passi indietro per osservarla nel suo insieme, con le braccia incrociate dietro la schiena e il mento sollevato in segno di superiorità.

Verena avrebbe voluto dirgli che anche lui era un pesce in quel mare che li avvolgeva tutti. L'ultimo desiderio. Dopodiché, crollò.




Si risvegliò con la mente offuscata, nella penombra del salotto di casa. Era stesa sul divano, tra i cuscini su cui poggiava la guancia ogni sera.

Seppe subito di essere tornata. Aveva riattraversato i cancelli.

Per qualche attimo credette di non riuscire ancora a muoversi, ma poi confutò da sola questa ipotesi spostando i piedi, che presero a formicolare a contatto con il pavimento. Nello stesso istante, Sonne e Richard rientrarono nell'appartamento girando le chiavi nel portone. Dovevano essere andati a cercarla nei pressi del Duomo. In preda all'affanno, accesero la luce e videro che lei era lì.

Verena si tirò su con lentezza, sfibrata e ricurva, reggendosi alla spalliera del divano. Li guardò in faccia con le palpebre basse, tanto che i suoi occhi dovettero sembrare loro quasi completamente bianchi. Fu chiaro, sui volti di entrambi, lo spavento, che sconfinò quando notarono i suoi vestiti imbevuti di sangue.

E non appena Verena incrociò lo sguardo atterrito di Sonne, fu come se un gancio impigliato al suo ombelico fosse stato tirato via di colpo strappandole qualcosa da dentro. Quello strattone lancinante le rubò un grido che riecheggiò in tutte le stanze di casa. Finalmente poteva sfogarsi con la voce, adesso che la museruola si era dissolta. Insieme all'effetto dell'anestetico.

Si accasciò a terra, piegata in due.

Richard e Sonne si precipitarono su di lei. Parlarono, chiamarono il suo nome, le fecero delle domande, ma nella sua testa – persino nelle sue orecchie – non c'era altro spazio che per il dolore. Pervadeva ogni cosa. La realtà aveva assunto i colori del dolore. Il respiro, di contro, il sapore, amarissimo sulla lingua, simile a quello della neve sui loro cappotti.

Richard le alzò il maglione e vide la ferita, fresca e spalancata su di lui come delle fauci. Un lungo taglio che le attraversava tutto il ventre. Imprecò, inorridito, e la scosse per le spalle. «Chi ti ha fatto questo? Chi ti ha fatto questo?!»

Ma lei non gli rispose.

«Dobbiamo portarti in ospedale» farfugliò, guardandosi intorno come se non ricordasse dove fosse il telefono per chiamare l'ambulanza.

Verena emise un «No» di protesta estremamente flebile.

Richard si alzò e si coprì il volto con le mani, continuando a ripetere una serie di imprecazioni soffocate.

Sonne, invece, la sollevò da terra prendendola in braccio.

«No!» contestò Verena, stavolta con più voce e uno spasmo, terrorizzata all'idea di essere di nuovo tra le sue grinfie.

«Ora ti porto di là» cercò di rassicurarla lui, mentre la conduceva in camera.

Richard li seguì, sconvolto. «Dobbiamo portarla in ospedale.»

«No.» Inaspettatamente, Sonne le diede man forte. Forse perché voleva lasciarla morire.

«Che significa no, porca puttana?»

«Non posso» disse Verena, mentre l'altro la aiutava a stendersi sul letto. Di nuovo. Non avrebbe potuto spiegare la sua reticenza se non dicendo la verità. «Non ho l'assicur–ah... l'assicurazione sanitaria...»

Richard sbatté le palpebre. «Cosa? E come facciamo con 'sto disastro?»

Lei si ricordò le ultime parole che le aveva rivolto Sonne dall'altro lato. Per quanto lo detestasse, doveva ammettere che avevano senso. Guardò Richard con la faccia accartocciata dalla sofferenza. «Devi ricucirmela tu.»

Qualche secondo di silenzio.

«Sì, Richard. È la sua unica speranza» la assecondò Sonne, cinereo in volto. «In ospedale chiamerebbero la polizia e si metterebbero a indagare su chi possa averle fatto una cosa del genere, e come. Non possiamo spiegargli quello che sta succedendo.»

Richard indietreggiò scuotendo la testa, gli occhi sgranati. «Vi siete fottuti il cervello per caso? A stento ricordo qualcosa di anatomia! Non ho mai ricucito una ferita.»

«Sì che l'hai fatto» controbatté Sonne, severo. «Al tirocinio.»

«Come fai a saperlo?»

L'altro gli si avvicinò, ignorando la domanda, e gli strinse forte i polsi. «La sua vita è nelle tue mani, adesso» disse, a voce più bassa, ma Verena lo sentì lo stesso. Uno che me la toglie e uno che me la ridà: se solo potessi essere io a decidere della mia vita. «Confido in te. So che riuscirai a salvarla, l'hai fatto già con me.»

Richard guardò disperato prima Sonne, poi lei. Infine annuì con un sospiro tremante. «Hai... hai ago e filo?»

Sonne andò subito nella sua stanza a recuperarlo.

Verena, intanto, si alzò su un gomito con una smorfia tra le sopracciglia e fece cenno a Richard di venirle incontro. Lui si inclinò sul letto, ma non abbastanza, così lei gli artigliò i capelli sulla nuca per farlo abbassare ancora di più.

«Non fidarti più di lui» gli disse all'orecchio in un sussurro, tempia contro tempia, laddove solo uno strato di cute separava le loro menti comunicanti.

Richard, stupito come un bambino, le rivolse un'occhiata interrogativa, ma Verena gli intimò con lo sguardo di tacere. Sonne era già tornato da loro.

Si stese meglio tra le lenzuola quando entrambi si sedettero al suo fianco e si preparò a ricevere quell'ulteriore tortura mordendosi l'interno della guancia. Soppresse l'istinto di pregare. Sentiva che adesso Dio le era nemico. Tuttavia, non poté fare a meno di scoppiare a piangere non appena l'ago nelle mani incerte di Richard le perforò la pelle.

Pur stordito dai suoi singhiozzi, lui si sforzò di proseguire. Nel frattempo, Sonne le asciugò le lacrime e le prese la testa per cullarla, ignaro di quanto ogni suo gesto, adesso, le facesse venire la bile in bocca. «Shhh, Liebe, non guardare. Sono qui con te.»

Non ti ho lasciata sola nemmeno per un attimo.







(1) Io sono la luce del mondo.

(2) Sabbiolino: una serie tv per bambini che andava in onda la sera nella DDR, basata sulla figura dell'uomo della sabbia (Sandman) dei fratelli Grimm.







Note d'autrice:

Buona Vigilia di Natale, meine lieben Leser ♥ Giuro che non avrei voluto pubblicare questo capitolo tragicissimo durante le feste... ma è andata così. 

Dunque, un altro tassello fondamentale di Nebel è stato rivelato: era proprio Sonne che inseguiva Richard e Verena nelle 'dimensioni' in cui sono capitati. Dopotutto, sono le dimensioni dei suoi racconti... avete notato che Sonne si inserisce sempre in ciò che scrive, in un modo o in un altro? Ecco. Esiste una versione di lui nella sua immaginazione che non solo è onnipotente, onnipresente e onnisciente, ma anche particolarmente spietata. Come qualsiasi scrittore nei confronti di ciò che produce e gli appartiene, tutto sommato. La questione del possesso sarà un leitmotiv anche nei capitoli futuri, per cui non mi dilungo troppo su questo concetto e lascio a voi eventuali riflessioni.

Perché, secondo voi, quel Sonne voleva fare del male a Verena? E perché ha deciso, infine, di farle quell'operazione?

Come si comporteranno Verena e Richard d'ora in avanti con il Sonne reale? Capiranno qualcosa di quello che sta succedendo?

Vi ricordate, poi, in che contesto era stata pronunciata la frase "Non ci sarà una seconda vita"? Questa è difficile, nel caso, complimenti per la memoria u.u

Il titolo del capitolo, Funkeln (in ihren Schoß), significa Scintille (nel suo grembo). Funkeln era il titolo di un racconto di Sonne, proprio quello sulla cattedrale in fiamme, che veniva menzionato nel capitolo 16.

Vi lascio qui, ai vostri pandori&panettoni (#teampandoro). Spero di pubblicare presto anche il capitolo 33. Intanto, mando un grande abbraccio a voi e alle vostre famiglie ♥

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