XXXIII. Gute Miene zum bösen Spiel

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N E B E L

XXXIII.

Gute Miene zum bösen Spiel



A volte aveva la sensazione che l'utero le stesse crescendo di nuovo, dall'interno, come un frutto tra rami gravidi di linfa. Ogni tanto si tastava l'addome con i polpastrelli per scoprire quanto fosse gonfia, perché avvertiva in sé la presenza di una massa in espansione, un organo fantasma.

Sognava, nei rari momenti di riposo, che nella sua pancia ci fosse un palloncino pieno d'acqua, la stessa che aveva allagato la stanza d'ospedale dove Sonne le aveva praticato l'intervento; sognava di farsi piccola piccola e di poterci nuotare dentro, al sicuro da lui, insieme alle altre creature e senza bisogno di respirare. S'immaginava soprattutto che a farle compagnia ci fosse la ragazza a cui avevano fatto saltare la testa in aria nella foresta: lei, i capelli d'oro fluttuanti e dei riflessi azzurri nel volto, la guardava con un'espressione affranta nel silenzio subacqueo, triste di essere stata raggiunta lì nel luogo in cui era finita dopo la morte, così simile a quello che precede la nascita. Se si incontravano di nuovo, significava che anche a Verena era successo qualcosa. Nelle sue membra non c'era più spazio per la furia che l'aveva animata, soltanto per il dolore.

Era proprio il dolore a dominare le sue giornate. Per la maggior parte del tempo sferragliava nel ventre come un coltello a farfalla impazzito, con pochissime pause e variazioni di intensità. Neanche gli antidolorifici riuscivano a placarlo del tutto, ma erano l'unica soluzione disponibile, dato che non poteva farsi prescrivere farmaci più potenti. Verena dimenticò presto com'era quando si stava bene. Si convinse che non sarebbe mai più tornata a uno stato di benessere fisico.

E se pure il dolore fosse scomparso, nessuno le avrebbe mai restituito ciò che le era stato strappato via, nessuno avrebbe potuto porre rimedio alla sua mutilazione.

Sonne non le aveva solo asportato una parte del corpo. Le aveva sottratto il futuro. Aveva ammazzato il principio di vita in lei, la sua più antica radice. Da Verena non sarebbe potuto più nascere nulla di vivo: d'ora in avanti iniziava l'era della morte, di certo a lui più familiare.

Indirizzò spesso i propri pensieri alla madre di Sonne, nei primi giorni di convalescenza – i peggiori. Cominciò a chiedersi come fosse morta. Fantasticò a tal punto sulla questione, per evadere dalla sua bolla di dolore, da arrivare a concludere che doveva averla uccisa lui, in qualche modo, per rivoltarsi contro il ventre da cui era stato generato, colmo di superbia.

Una notte glielo domandò, mentre era il turno di Richard di dormire – lui che faceva più turni di veglia in assoluto, finché non era esausto e crollava rannicchiandosi su se stesso per occupare meno spazio, debole e smagrito. Verena stava appoggiata allo schienale del letto, con il sudore freddo sul collo e le mani strette in grembo a reggere il dolore che traboccava dalla fasciatura, un essere smanioso con gli artigli che grattava per uscire. Spendeva tutta la concentrazione che aveva per cercare di gestirlo, contenerlo, pilotarlo. Accanto al comodino c'era il secchio d'emergenza in cui talvolta vomitava nell'intento.

Sonne era seduto su una sedia, per far stare lei e Richard più comodi sul materasso. Le riservò un'occhiata tesa, alzando dal nulla una barriera difensiva.

Aprì bocca per dire: «Arresto cardiaco», anche se Verena si aspettava un «L'ho ammazzata io».

Verena annuì tra sé e distolse lo sguardo.

«O suicidio. Non l'ho mai saputo» aggiunse Sonne. «Era molto depressa.»

«Non te l'hanno detto?»

«Ero un ragazzino.»

Annuì di nuovo. Si è sicuramente suicidata, riformulò, senza alcuna voglia di proseguire quella conversazione o mostrargli compassione.

Sonne non sapeva più come prenderla.

«Come va il dolore? Te la senti di dormire un po'? Sveglio Richard.»

«Non va via» mugugnò lei, chiudendo gli occhi anche se le era impossibile addormentarsi. «Sento che non andrà più via.»

«Richard ha detto che è normale, per i primi tempi. Ma anche che non sembrano esserci complicazioni.»

«Non può esserne certo.»

«Non ti fidi di lui?»

Verena si sforzò di sollevare le palpebre e di guardarlo, spossata. «Non mi fido del mio dolore

Sonne avvicinò di più la sedia al letto senza trascinarla sul pavimento. Si piegò appena, con i gomiti sulle ginocchia, e le prese una mano tra le proprie. Verena la ritrasse istintivamente, poi gliela riconsegnò cercando di mascherare la propria riluttanza. Le sue dita la ripugnavano, ormai. Al tatto erano vermi grassocci che volevano cibarsi dei resti di lei.

Lo sapeva che non era lo stesso Sonne che le aveva squarciato la pancia, ma non poteva fare a meno di tornare con la mente alla cattedrale, prima, e alla sala operatoria, dopo. Dovevano pur avere un legame, i due. Anche se uno era la versione più crudele dell'altro, celavano la stessa essenza. Verena intercettava in lui segni del Sonne aguzzino, sprazzi che comparivano al cambiar della luce, specialmente nello sguardo. Se pensava che doveva aggrapparsi ai suoi occhi per sopravvivere, la pelle le iniziava a sfrigolare.

Non gli avrebbe detto la verità finché non avesse scoperto cosa nascondeva. Gli aveva raccontato che a spararle era stato un uomo che non aveva mai visto. A Richard, invece, com'erano andati realmente i fatti. Ne aveva approfittato un mattino che il proprietario di casa era uscito a comprarle delle medicine. Di recente non lasciava il suo capezzale nemmeno per scrivere, e si faceva portare la spesa a domicilio. Ogni tre giorni saliva da loro un fattorino con le buste cariche: Sonne gli passava in fretta le banconote e poi richiudeva la porta; ma in farmacia doveva recarsi per forza di persona.

Richard era rimasto sconvolto dalla verità. Non aveva più parlato per ore, aveva vagato in giro per la stanza leggero come se venisse sospinto dal vento, in balia di un potere sconosciuto che discendeva dall'alto. Verena, tra una fitta e l'altra, lo aveva supplicato di comportarsi normalmente e di reggerle il gioco.

Sonne non si era accorto di nulla. O meglio, attribuiva il loro atteggiamento alla situazione traumatica in cui si erano ritrovati. Anche lui appariva provato, perso. Era diventato oltremodo premuroso nei confronti di Verena, come un padre più che come un amante. Richard, assente, arenato da sé e con lo sguardo sbiadito, si limitava a eseguire i compiti che gli venivano richiesti senza fiatare, già dopo un po' in maniera meno maldestra. Nessuno dei tre era più lo stesso.

Erano sempre accanto a lei.

Adesso che avevano confermato la teoria degli sguardi, adesso che la disattenzione aveva prodotto conseguenze catastrofiche, non si sarebbero separati neanche per un minuto. Erano atterriti come mai prima d'ora dall'eventualità di tornare dall'altro lato e dover affrontare la violenza che vi si nascondeva. Si sarebbero protetti custodendosi a vicenda l'uno negli occhi dell'altro.

Sonne le strinse la mano. «Vedrò di trovarti qualcosa di più forte» le promise.

Verena, alla luce della lampada, notò quante nuove piccole rughe ci fossero sul suo viso. «Sarebbe magnifico» rispose, e una parte di lei, incapace di sopportare ancora quel dolore, lo credeva davvero, ma un'altra decise proprio mentre lo diceva che non avrebbe accettato alcun tipo di sostanza da parte sua. Non si sarebbe mai più fatta sedare da nessuno.

Sonne si sporse per baciarla sulle labbra.

Ogni suo bacio ora sapeva di sale, un sapore che le faceva ribaltare lo stomaco senza darle alcun sollievo. Tutto il corpo reagiva alla sua vicinanza. Il cuore accelerava in preda alla paura, insieme al dolore.

Verena desiderava soltanto che smettesse.

Simulò la piega di un sorriso tutto per lui.

Per il riflesso del suo nemico.




Era vero. L'intervento, per quanto feroce, non aveva prodotto complicazioni, come se fosse stato eseguito alla perfezione da un medico esperto. La ferita cominciò presto a rimarginarsi e Richard, che la puliva e monitorava giorno e notte sperando di notare in tempo delle anomalie, poté toglierle i punti già dopo una settimana. Era sbalordito quanto lei. Non c'erano state infezioni né ulteriori sanguinamenti, se non qualche traccia di sangue nell'urina.

Il dolore, però, non si alleviò per oltre un mese. Non peggiorò, ma rimase costante. Verena s'impegnò a sopportare un giorno dopo l'altro quella mandibola che le masticava la carne da dentro. Dopo un po' non si trattò neanche più di conviverci: poiché non si era mai interrotto, era diventato la sua condizione di base. Le fitte, un'abitudine.

Il giorno di Capodanno, il primo del 1994, dopo una nottata di festeggiamenti a cui non avevano partecipato e fuochi d'artificio che avevano potuto ascoltare solo a distanza, come se il fuori fosse un mondo fantastico di cui giungevano soltanto racconti sporadici, si convinse a provare a muovere qualche passo per casa. Rimetteva i piedi a terra per la prima volta dal giorno dello sparo. Fuori dalle coperte venne abbracciata da un'aria fredda ma nitida, attraverso la quale le sembrò di riuscire a vedere con più chiarezza. Lo prese come un presagio positivo. Era aria di verità, quella con cui l'anno si apriva. La città esalava un silenzio carico di significato e si preparava a una nuova nevicata.

Sonne e Richard la aiutarono ad alzarsi e infilarsi una vestaglia, reggendola ciascuno per un braccio. Le sue gambe fremevano di tornare libere e scattanti, ma l'addome non era dello stesso avviso, pertanto le mandò una contrazione che le fece raggrinzire d'istinto la faccia dal dolore. Si portò una mano al ventre e fece un lungo respiro. Guardò il letto sfatto, che puzzava di corpo malato, la padella per i bisogni, il secchio, e poi la porta aperta sul salotto, indecisa.

«Puoi riprovare anche un altro giorno» tentò di tranquillizzarla Richard.

«No, voglio farlo adesso.»

Sonne la incitò a fare il primo passo, anche se pareva angosciato. Verena si aggrappò controvoglia a lui, mentre teneva la mano di Richard. Gliela strizzò così forte che avrebbe potuto spezzargli le dita. Insieme, piano, camminarono fino al salotto, poi tornarono indietro. Ci misero più di cinque minuti. Una volta tornata a letto, Verena non riuscì a frenare i singhiozzi che stava trattenendo in gola.

Faceva troppo male. Era troppo difficile, come avere una cintura di rovi che stringeva la presa a ogni movimento.

Richard fece per avvicinarsi, ma Sonne lo afferrò nella piega del gomito e lo condusse nell'angolo opposto della stanza. A bassa voce, gli chiese qualcosa che Verena non captò. Richard lo guardò con un cipiglio greve, che raramente gli spuntava sul volto, e poi disse: «Sì. Conoscevo qualcuno al pub.»

«Dove posso trovarlo?»

«Credo lavori ancora lì.»

Senza spiegare nulla a Verena, il giorno dopo Sonne sparì per tutto il pomeriggio.

Fu Richard a dirle da chi era andato non appena furono soli. «Vuole prenderti della morfina. Mi ha detto che te l'aveva promesso. L'ho mandato da questo mio collega che sapeva dove procurarsi un po' di tutto...» le raccontò, girandosi nervosamente un braccialetto intorno al polso.

Verena si lisciò in automatico la fasciatura. «Non pensavo che l'avrebbe fatto davvero.»

«Lo sai che con le promesse è serissimo.»

Non ti lascerei mai morire, Verena. Neanche se me lo chiedessi. È bene che tu lo sappia.

«Questo va un po' contro i suoi principi.»

«Non si tratta di principi. È che ha paura delle droghe, te l'ha detto, no? Della dipendenza. Però di fronte al tuo dolore si sente impotente.»

Verena si rabbuiò. «È stato lui a causarlo.»

«Non era lui!» obiettò Richard. «Chiunque fosse, non era Sonne. Lui era proprio qui con me, al mio fianco, mentre eri sparita... Non poteva farti del male. Non te ne farebbe mai, tantomeno... così

Non era la prima volta che ne parlavano. «Ma è palese che sta nascondendo qualcosa! Perché secondo te è l'unico che non sparisce mai anche se è quello che si allontana più spesso? Non era lui, ma ha di sicuro un nesso con il Sonne dell'altra parte. Io ce l'ho, con la me più giovane che ho visto lì.»

«Questo... questo lo so...» provò a dire lui, che cercava ancora di convincersi dell'innocenza di Sonne.

«Non prenderò la morfina che mi darà.»

«Cosa? Perché no?»

«Credo che voglia solo tenermi buona e sedata.»

«Cristo, Reni, no! Vuole soltanto che tu stia meglio. Neanche io ce la faccio a vederti piangere ogni giorno. E poi... pensaci, se la prendessi il dolore si placherebbe, finalmente.»

«Preferisco sopportare il dolore che fargli fare qualunque altra cosa con il mio corpo» ribatté, determinata, seppur con una morsa alla bocca dello stomaco.

«Santo cielo...»

Richard si alzò e si mise a camminare avanti e indietro di fronte al letto.

«Dobbiamo scoprire cosa nasconde» lo incitò Verena, con uno sguardo supplichevole. «Ti prego, Richie, posso contare solo su di te in questo momento.»

Lui si fermò per osservarla, mai prima d'ora con occhi così tristi. Cosa poteva provare, se non una tristezza sconfinata? «Io spero tanto che tu ti stia sbagliando.»

Verena ripensò a tutte le volte che Sonne si era preso cura di lei, che l'aveva amata a modo suo, innanzitutto a livello mentale, facendo crollare le proprie difese per loro due, per amarli meglio, e sentì scivolare sullo zigomo un'altra, solitaria lacrima. «Lo spero anch'io.»

Ma nel profondo lo sapeva che era lui, l'antagonista della storia. Ne aveva avuto il sentore sin da quando le aveva sputato in bocca quella sera, lì, su quello stesso letto. La rivendicava come Apollo aveva rivendicato Cassandra, per poi maledirla. L'aveva rivendicata estirpandole l'utero e impedendole di avere una continuazione nel mondo.

Il suo sangue fertile era stato sprecato.




Sonne non tornò con la morfina quella sera, bensì dopo un secondo tentativo, un altro giorno.

Entrò in camera da lei, le mostrò un cilindro di plastica con una decina di capsule rosso cremisi e gliene fece cadere una in mano. Verena la fissò, poi fissò lui, che incombeva sul letto, che non si era nemmeno tolto il cappotto – lo stesso cappotto.

«Prendila con un lungo sorso d'acqua» la esortò, con un cenno del mento.

Verena temporeggiò. «Dove l'hai presa?»

«Da un ex collega di Richard.»

«Non dovevi. Ti sarà costata tanto.»

Sonne sembrò perplesso. «Non importa. Te l'ho detto che avrei trovato qualcosa di più forte. Coraggio, prendila. Starai molto meglio.»

Richard, steso scompostamente lì accanto, osservò Verena di sottecchi, in attesa di ciò che sapeva avrebbe fatto.

Lei si riempì il bicchiere che stava sempre sul comodino, bevve un sorso d'acqua, tenne ferma la pillola in una piega del palmo, finse di prenderla portandosi la mano alla bocca e bevve un altro sorso per fingere di ingoiarla. Non distolse mai lo sguardo da Sonne, quasi per dirgli: guardami, ti sto ingannando davanti ai tuoi stessi occhi.

Gli sorrise. «Grazie.» Si girò verso Richard, che era un po' a disagio. Non era mai stato granché bravo a mentire, ma confidava che non si sarebbe tradito, che avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco, anche se si sentiva in colpa, perché dopotutto era assetato di verità tanto quanto lei. «Entro quanto dovrebbe fare effetto?»

«Un'ora al massimo, che io sappia.»

Mentre Sonne si spogliava, Verena mise al sicuro la capsula sotto il materasso. Avrebbe fatto lo stesso con le successive, una alla volta, e soprattutto avrebbe stretto i denti con il doppio delle forze per fingere di essere sollevata da un dolore che, in realtà, non sarebbe mai scomparso. Le sue doti da bugiarda avrebbero dovuto affinarsi a un livello straordinario, addirittura corporeo. «Sei fuori di testa» le aveva detto Richard quando gli aveva spiegato come si sarebbe comportata.

Avevano un piano: ingraziarselo e attendere che Verena si rimettesse in sesto per potergli scassinare la stanza. Se nascondeva qualcosa, era di sicuro nascosta lì dentro, nel suo antro proibito.

Verena cominciò a contare i giorni – persino i sorrisi falsi. Uno, due, il dolore non le dava tregua, rimase a letto a fingere di dormire, simulando un torpore beato, mentre invece affondava la faccia nel cuscino, sommersa dai capelli, per occultare le sue espressioni di sofferenza. Tre, quattro, altre pillole mai ingoiate, Sonne che diventava più sereno in risposta alla sua serenità fasulla, che tornava a baciarla con maggior frequenza, sulla fronte, sulla guancia, sulle labbra, un bacio persino sul collo, e lei che reagiva ogni volta con un brivido di disgusto, un sentimento che non avrebbe mai voluto provare per lui. Cinque, sei, quasi una settimana in cui spinse il proprio corpo al limite, riprese a esercitarsi a camminare, prima sotto il braccio di Sonne e Richard, poi da sola ma sempre con loro nei dintorni, e sempre, sempre, sempre con fitte strazianti al basso ventre che era costretta a reprimere irrigidendosi tutta, bloccandosi a metà di un passo, di un'azione, pur di non lasciar trasparire niente. Sette, otto, sembrava che fosse gennaio da mesi, Richard le cambiò la fasciatura e le disse che avrebbe potuto farne anche a meno, adesso più in giù dell'ombelico c'era una lunga linea seghettata che l'attraversava da un'anca all'altra, come se qualcuno avesse voluto separarla in due, ma aveva fallito, perché ora le stava ricrescendo una pelle nuova di zecca, di un colore rosa uniforme.

Decise di farsi un bagno, per rimuovere il marcio che ancora si portava addosso, una melma invisibile che era svanita nel passaggio da una dimensione all'altra e che pure le era rimasta attaccata alla cute. Richard e Sonne la seguirono in bagno, la aiutarono a scavalcare la vasca, si sedettero lì sul bordo mentre lei reclinava la testa e rilassava i muscoli nell'acqua calda che profumava di bagnoschiuma alla vaniglia. Era protetta se loro la guardavano.

«Ti aiuto a insaponarti?» le domandò Richard, facendo oscillare una mano nell'acqua. Tristemente, non era una delle sue battute maliziose. Verena scoprì che le mancavano. Le si spezzava il cuore all'idea che neanche lui, che era in grado di alleggerire qualsiasi situazione, riuscisse a pensare a qualcosa di felice.

«No, non serve.»

Gli prese la mano, lo tirò a sé con la delicatezza di una ninfa per baciarlo, senza farlo cadere. Lui non si oppose. Durò qualche secondo, sotto lo sguardo vigile di Sonne, come ai vecchi tempi. Per la prima volta rifletté su come sarebbe stato il sesso d'ora in avanti.

L'angoscia ripiombò su di lei più violenta che mai. Si separò da Richard e lo guardò negli occhi, inorridita. Capì che Sonne non le aveva soltanto rubato la possibilità di avere dei figli, ma anche di godere. Forse non avrebbe potuto avere più orgasmi per il resto della vita.

Un nuovo tipo di panico le frullò in petto.

«Cosa c'è?» le chiese Richard, accarezzandole la testa.

La voce le tremò più che mai nello sforzò di non scoppiare ancora una volta in lacrime. Si raddrizzò con il busto e si affacciò sulle sue gambe con un gomito, appoggiandovi la guancia. «... ti amo tanto, Richie...»

Lo disse senza vergogna, senza imbarazzo davanti al loro spettatore, ma non era una dichiarazione d'amore normale. Intendeva affermare contemporaneamente anche un'altra cosa, d'una perfetta simmetria: che odiava Sonne.

Lui era proprio lì accanto e la guardava in silenzio, la sua nudità e il suo essere inerme, con l'aria di un avvoltoio paziente. Era impassibile come al solito, a tal punto che Verena avrebbe voluto spingerlo nella vasca e costringerlo con la testa sott'acqua per vederlo dimenarsi e disperarsi, per fargli capire in modo inequivocabile la portata di quello che le aveva fatto dall'altra parte.

Si spaventò da sola a quel pensiero. Sperò che Sonne non avesse percepito quel moto d'odio. Doveva tenerselo stretto ancora per un po'.

Richard invece parve cogliere il sottotesto e smise subito di accarezzarla, di toccare la sua pelle ridotta alla consistenza di un fazzoletto bagnato. Rispose «Anch'io, Reni» con il tono più desolato possibile. Anche lui si stava sgretolando. Era suo complice, lo sarebbe stato fino alla fine, ma lo faceva a pezzi l'idea di mentire a Sonne, e ancora di più l'idea che lui li stesse tradendo.

In quel momento Verena vide chiaramente la distorsione che si era creata, l'ordigno inesploso che giaceva tra loro.

Era questione di giorni.




Sonne si insospettì presto. Prese a osservarla con più attenzione dopo che le dava la morfina, come se qualcosa non gli tornasse. Doveva esserle sfuggita qualche espressione sofferente di troppo.

Verena divenne paranoica. Spesso Sonne si accorse dello sguardo terrorizzato che lei gli rivolgeva.

La prima volta le chiese: «Perché mi guardi così, Liebe

«Così come?»

Le volte successive corrugò la fronte senza dire nulla. Lo vide cercare conforto in Richard, ma anche lui si comportava in maniera strana e sfuggente, per lo più rimanendo attaccato a Verena, come se volesse scongiurare la tentazione che Sonne rappresentava evitando di starci troppo a contatto. Una sera, una delle prime in cui erano tornati a stendersi tutti e tre sul letto, Sonne sembrò volersi riconquistare l'affetto di Richard, dandogli un buffetto sul naso mentre stavano parlando e poi sorridendogli placido, nel modo che dedicava soltanto a lui. Richard si arrese a baciarlo, non per stare al gioco, ma perché stava morendo dalla voglia di farlo, di ritrovare un cantuccio di normalità. Mai come allora Verena si sentì infiammare di gelosia e risentimento.

Non potevano tornare alla normalità, e lui, bloccato tra due fuochi, non l'aveva ancora capito. Da una parte non riusciva a biasimarlo: l'uomo e la donna che amava erano finiti l'uno contro l'altra, ai lati opposti del fronte. C'era chi sarebbe impazzito al posto suo, a tenere le redini di un tale conflitto con se stessi. Ecco perché era diventato così assorto, perché impiegava le energie residue a combattere con la propria coscienza, perché voleva dissociarsi dalla persona che avrebbe tradito uno dei due.

Quella notte gli chiese sottovoce, mentre Sonne dormiva, di controllarle il cibo prima che glielo portassero in camera.

«Ho paura che lui ci metta la morfina dentro. Credo si sia accorto che non la sto prendendo, ma non so perché non abbia detto niente.»

«Non lo farebbe mai.»

«Non ne sarei così sicura» sussurrò. «Smettila di difenderlo.»

Richard contorse il collo per lanciare un'occhiata preoccupata a Sonne, che quando riposava a stento pareva respirare. Faticava ancora a credere che potesse essere una specie di assassino. Non riusciva a lasciar andare l'immagine idealizzata che aveva di lui. Invece Verena aveva visto la realtà da una nuova prospettiva. Osava pensare, la sua vera natura.

Decise che avrebbero dovuto agire entro la fine del mese, non appena il dolore fosse divenuto più docile.

Accadde, inaspettatamente, qualche giorno dopo, il primo in cui le fitte non arrivarono a tormentarla a raffica. La mattina si alzò dal letto e camminò scalza per tutta la casa, lieve, come se il corpo le fosse tornato familiare. Faceva davvero molto freddo, e forse a breve si sarebbe formata una patina sottile di ghiaccio sui mobili, ma non se ne curò, perché si sentiva ribollire. L'adrenalina la rese più svelta del solito, tuttavia dovette contenersi, perché il piano prevedeva di mandare Sonne a comprare delle medicine, adesso che la morfina era finita. Avvertì Richard mentre erano in bagno. «Oggi» gli disse, evitando il proprio riflesso nello specchio. Lui piombò all'istante sulle spine. Ma assentì.

Tornarono in stanza da Sonne, che stava rifacendo il letto dopo più di un mese.

«No!» esclamò Verena, forse un po' troppo in fretta, per timore che potesse trovare le capsule abbandonate sotto il materasso. «Voglio stendermi un altro po', aspetta. Mi stanno tornando le fitte.»

Sonne la accontentò senza remore. «Hai fatto colazione?»

«Non mi va... però in effetti vorrei prendere un antidolorifico, non posso stare a stomaco vuoto. Ne sono rimasti?»

«Mi sembra di sì.»

Sonne frugò nella scatola di latta delle medicine che aveva ormai sistemato sopra la cassettiera, ma non trovò nulla.

«Strano... Ero convinto che ce ne fossero ancora.»

Era stato Richard a nascondere le bustine di antidolorifico superstiti.

Verena si sedette sul letto con un lamento – che paradosso, ora che stava meglio doveva fingere di stare male – e per essere più convincente si portò una mano in grembo. «Puoi andare in farmacia, per favore?»

«È domenica» osservò lui, stirando le labbra. «Non so quante farmacie siano aperte.»

Meglio, molto meglio, pensò Verena. Avrebbe perso più tempo. «Per favore...» ripeté. «Adesso che non posso più prendere la morfina...»

Sonne tentennò per un attimo, una breve frazione in cui assottigliò gli occhi e parve aver capito tutto del tiro mancino che gli stavano giocando, dopodiché sospirò. «Va bene.»

Si fidava ancora di lei. Ancora per poco, perlomeno. Quella scena aveva un che di decisivo.

È questa l'ultima conversazione normale che avremo, è questo l'addio a ciò che siamo?

Quando uscì dall'appartamento, Verena e Richard non ebbero il coraggio di muoversi per diversi secondi. Rimasero in ascolto per assicurarsi che non sarebbe tornato indietro.

Richard, poi, si alzò per primo, senza pronunciare una parola, e si avviò verso la stanza di Sonne.

Era il momento.

«Richie...» lo chiamò lei nel seguirlo, non perché avesse ripensamenti, ma perché il cuore aveva cominciato a batterle compulsivamente in gola, nelle tempie, nei polsi, e non voleva stargli lontana.

Si fermarono dinanzi alla porta che mai avevano avuto il permesso di oltrepassare, le loro personalissime colonne d'Ercole, con un'emozione in petto che non riuscivano a spiegare, che li faceva sentire sporchi, arrabbiati, ansiosi e speranzosi allo stesso tempo.

Richard cominciò a prenderla a calci, un calcio alla volta, ben assestato vicino alla serratura, con la gamba dominante. Il legno restituì una serie di tonfi cigolanti a ogni colpo, e la bocca di Richard dei versi di sforzo. La porta non cedette, tuttavia si incrinò lungo l'infisso.

Allora lui prese una breve rincorsa e procedette con una spallata. Anch'essa non bastò. Richard imprecò, prima di ritentare.

Verena rimase a guardarlo con le braccia lungo i fianchi, anche se avrebbe voluto contribuire. Il solo sfogarsi sulla porta di Sonne stava dando un senso a quel mese di sofferenza, anzi, stava persino accrescendo l'ira di Richard, che era rimasta sopita troppo a lungo. Verena era felice che si fosse risvegliata anche in lui. Tutto ciò che desiderava, adesso, era distruggere qualcosa che apparteneva a Sonne, un uomo che era così ossessionato da ciò che era suo – e che non aveva esitato quando si era trattato di rubare qualcosa che apparteneva a lei.

Non era lui, cercò di ripetersi.

Non era lui.

Non era lui.

Ma ormai non aveva neanche più importanza. Niente aveva importanza davanti alla verità che si celava dietro quella porta.

Verena si aspettava quasi di trovarvi la pistola con cui le aveva sparato.

Un'altra spallata, la definitiva.

La porta si spalancò su una stanza in cui pioveva la luce lattea del sole d'inverno. Richard vi si ritrovò già all'interno, massaggiandosi la spalla, immerso in quel candore e consapevole di aver appena violato un tempio sacro. Verena avanzò lentamente.

Chissà cosa si era aspettata. Per un anno e mezzo non aveva fatto altro che immaginare, con quell'immaginazione di sottofondo, di cui ci si rende conto solo nei sogni, quando si incontra il suo prodotto più onesto e brutale, cosa ci fosse in quella stanza. Qualcosa di terribile, aveva concluso, oppure tesori preziosi che Sonne si era affannato a nascondere.

Invece quella che vedeva era una semplicissima, anonima camera da letto, persino più modesta di quella di Richard. Le pareti erano verniciate di bianco. C'era un letto singolo con testata imbottita e coperte blu, un ampio armadio sul lato opposto, una piccola libreria con pochi volumi, una porta che conduceva al suo bagno privato. Non c'erano quadri o decorazioni a muro, né cimeli di alcun tipo, nemmeno delle pantofole ai piedi del letto o dei vestiti ripiegati sulla sedia. Era tutto tremendamente in ordine e senza carattere, come se non ci avesse mai vissuto nessuno, come se fosse la stanza appena svuotata di una persona morta.

L'unico accenno di vita era dato dalla scrivania posta sotto la finestra a tre ante della parete centrale. La luce proveniva da lì, perché le tende erano scostate. Affacciava sullo stesso scorcio di Violenstraße della cucina. In quell'esatto punto era compressa tutta l'esistenza di Sonne: dove si stagliava, illuminata dal sole, la sua macchina da scrivere.

Verena e Richard ne sentirono il richiamo. Vi si avvicinarono adagio, in preda a un improvviso timore reverenziale. Notarono che, in realtà, qualcosa di fuori posto c'era eccome.

La superficie della scrivania era ingombra di fogli. Due pile in un angolo, presumibilmente il suo romanzo, e altri sparpagliati davanti alla tastiera senza criterio, pieni di note e segni vergati a penna.

Dunque era quello il suo unico tesoro. Avrebbero dovuto prevederlo, si disse Verena. Erano qui per questo, si disse. Per leggerli. Sin da quando aveva varcato la soglia di casa sua – non aveva fatto altro che varcare soglie, nella vita? – il suo destino era stato di leggere quelle pagine. Di disobbedire.

Prese la prima che attirò il suo sguardo, che sembrava l'inizio di un racconto. Richard la imitò. In alto a destra il foglio recitava: Brema, 2 marzo 1982. Dovrei smetterla di scrivere di padri. Un titolo provvisorio, Der Alptraum der Väter, il nome e lo pseudonimo dell'autore, seguiti da una citazione di Rilke e un'altra dal vangelo di Giovanni.

Verena lesse.






Note d'autrice:

Salve a tuttx, approfitto di quest'aggiornamento per farvi gli auguri di buon anno (un pochino in ritardo) ♥ 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Vi consiglio, in proposito, di ascoltare Avalanches di IAMX, il brano che mi ha accompagnata durante tutta la stesura.

Il titolo, Gute Miene zum bösen Spiel, significa Buon viso a cattivo gioco. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo della seconda parte. Sono emozionata, non vedo l'ora di introdurvi al terzo e ultimo atto della storia... il più angst in assoluto :D

Cosa pensate che accadrà in questo "finale di stagione"? Come reagiranno Richard e Verena ai loro racconti? Fatemelo sapere se vi va!

Un abbraccio ♥


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