⁶⁷. 𝘖𝘣𝘭𝘪𝘰

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– Io ti ho già visto. Sei quello che a ottobre cercava una Levatrice per una Rievocazione. – La Madama era esterrefatta, e continuava a puntare il dito contro Florian, tremolando. Spostò lo sguardo verso Elsinore, la cui ferita al piede continuava a sanguinare, indifferente a tutto quel trambusto. – E lei ti aveva fatto da Ospitante.

Florian scorse Willas rivolgergli un'occhiata allarmata. Anche Elsinore si era pietrificata, alla vista della propria carceriera. Sembrava che all'interno della stanza fosse calata una coltre di nebbia, e che gli sguardi dei due ragazzi potessero raggiungerlo solo attraversando degli effimeri spiragli.

– Come avete osato ingannarmi? – disse la Madama, stridula. Sembrava fuori di sé. – La pagherete cara. Non andrete da nessuna parte, ve lo garantisco.

La donna picchiettò le dita sull'olo-tablet che aveva in mano, pronta a chiamare le guardie del cimitero. Florian osservò la scena come uscendo dal proprio corpo. È finita, pensò. Avrebbe perso Eddie, e non avrebbe mai saputo la verità su Dianne. Elsinore sarebbe tornata alla propria vita di sempre, abusata, picchiata, distrutta da quell'essere tutto fuorché umano. Si figurò anni di prigione per sé e per Willas, o una rapida e indolore Conclusione regalata dal Regime. Liberato dal guscio soffocante della vita, per sempre. Non desideravi la morte? disse la cosa che strisciava. Non desideravi la distruzione?

Ian percepì un singulto di rifiuto sconquassarlo dall'interno, allontanando ogni sua fibra da quel pensiero. Sentì il suo moto di ribellione provocare una risata nella cosa maligna, condita da un accenno di sarcasmo. Incredibile, gli disse. Non dirmi che adesso vuoi vivere.

La voce di Willas lo riportò alla realtà, riattaccandolo alla propria coscienza. Il ragazzo stava chiamando il suo nome, urlandolo a più riprese. Qualcosa riuscì a fendere il suo intorpidimento, schiacciando la voce assordante della "cosa". Una semplice, scarna, pericolosa parola: "usala".

Sentì il proprio corpo muoversi da sé, scattando verso la Madama Levatrice. Le sue sensazioni fisiche sembravano essersi acuite, eppure riuscì a ignorarle una per una. Un passo, e non sentiva più la divisa incollata al corpo, stretta sulle fasciature. Due passi, e le ferite avevano smesso di pulsare, come se non gli avessero mai aperto la pelle, riversando il nero della sua anima sul pavimento.

Quando arrivò alla donna, un barlume di lucidità gli impose di premere il pulsante dell'elettroshock sull'arma di Willas, sostituendolo al coltello che aveva usato per estrarre il chip dalla carne di Elsinore. Ma così non accadde. Un malfunzionamento, una svista, un difetto di fabbrica. Nessuno di loro sarebbe mai riuscito a capirlo.

Tempo dopo, riflettendo, Ian avrebbe deciso di porre lo spartiacque della propria vita proprio lì, in quell'istante e all'interno di quella stanza. Più del Giorno dell'Espiazione, più della morte di Nadine e Amélie, più della scomparsa di Eddie e Dianne. Dividendo la sua esistenza nettamente, come tagliandola in due con la lama di un pugnale. La stessa lama che aveva rivolto contro se stesso per vent'anni, e che adesso, per la prima volta, stava rivolgendo verso qualcun altro.

L'arma si piantò nel fianco della Madama, avvolgendola coi suoi guizzi bluastri. La vide stramazzare a terra e contrarsi in brevi spasmi, che le lacerarono il corpo in mille pezzi. Florian osservò sbigottito la tunica bianca imperlarsi di macchie scarlatte, diventando un'unica chiazza infuocata nel giro di un battito di ciglia. Solo allora posò lo sguardo sulle proprie mani, e sul coltello insanguinato che non si era ritratto quando gli aveva chiesto di farlo.

Il mondo si fermò. Sentì il metallo cadere a terra come in un'eco lontana, e la voce di Willas cercare ancora una volta di risvegliarlo, senza successo. Non lo raggiunsero né il rumore, né il dolore delle proprie ginocchia che cedevano, fracassandosi a terra. Negli occhi della donna si congelò uno sguardo stupidamente sorpreso. Ian riuscì a scorgervi anche lo spettro della morte, giunto a ovattarle le iridi. Tremando incontrollabilmente, le premette le mani sulla ferita al fianco, finendo per affondarci dentro, smarrendosi in quell'intrico di tessuto, veli, carne, ossa. La sua mente registrò a malapena quanto quel solco fosse profondo.

Una scena gli agitò le pieghe della memoria, strappandolo ancora una volta al presente. Lui ed Eddie che giocavano a braccio di ferro, quando il ragazzo aveva poco più di quattordici anni. Quella volta Florian l'aveva battuto, nonostante Eddie gli avesse fatto sudare sette camicie. "Sei forte" gli aveva concesso il ragazzo, facendo svolazzare i suoi capelli color sole. "Ma non credere che riuscirai più a battermi". Il suo sguardo di sfida l'aveva fatto sorridere, quella volta. E così era stato: Florian aveva visto Eddie iniziare ad allenarsi a più non posso, surclassando facilmente la sua forza. La stessa che, mista all'adrenalina, non gli aveva neanche permesso di sentire la lama affondare nel fianco della Madama.

– È inutile, Ian. Non possiamo fare più nulla.

Willas si era accovacciato accanto a lui, posandogli una mano sulla spalla. Era incredibile quanto il suo corpo non stesse percependo neanche quella lieve pressione. Florian guardò i suoi occhi verdi, e li scoprì ricolmi di un'amara malinconia, mista a un accenno di timore. Come ipnotizzato, si voltò a osservare anche gli occhi di Elsinore, aspettandosi di trovarvi gli stessi sentimenti. Tuttavia, dal suo sguardo traboccava solo una profonda, disarmante gratitudine.

Florian fu distratto da un rantolo soffocato, che lo fece girare di scatto verso la Madama, ancora semicosciente. La sua gola si contrasse in un gorgoglio sommesso, effetto del sangue che le stava ormai occludendo le vie respiratorie. La vide muovere le mani a tentoni sul pavimento, sollevando e abbassando il petto, colto da contrazioni. Tuttavia, il lieve "bip" che sentì provenire dall'olo-tablet gli fece comprendere come quelli della donna non fossero semplici spasmi, ma l'unica, fatale azione che avrebbe compiuto prima di abbandonare la vita.

In men che non si dica un suono agghiacciante riempì la stanza, il quartiere, l'intera collina coi propri stridii. Ian sentì l'allarme incastonarsi nella propria testa, facendola pulsare di dolore. Le sensazioni che aveva compresso sino a quel momento lo colpirono tutte in una volta, sconvolgendogli le membra. Allo stesso modo, il rumore rese la situazione ancora più reale, e con essa il corpo della donna che gli stava di fronte. Il corpo. Perché adesso è solo questo.

– Non volevo – disse Ian, mormorando a mezza voce. Si voltò verso Willas, che aveva ancora il viso deformato dalla tristezza. – È... Morta.

L'hai uccisa tu, disse la cosa che strisciava. Sei un assassino.

Bastò quella parola a farlo detonare. Il respiro gli si mozzò, cogliendolo impreparato. Florian sentì l'attacco di panico trascinarlo sul terreno, accanto a quel cadavere. Chiuse gli occhi, e il dolore si infranse su di lui come una mareggiata dai mille flutti. Si portò le mani alle guance, rigate dalle lacrime, rigate dalle unghie. Aprendo le palpebre, vide quanto le maniche della divisa fossero già zuppe di sangue fresco. Non mio. Sangue sui polsi, non mio. Se li strinse in una morsa, rischiando di spezzarli, sentendo ogni tendine guizzare come fosse stato ricolmo di vermi. Aveva sempre immaginato che la propria tristezza fosse simile a un intrico di insetti che si contorcevano sotto la sua pelle. Quando si feriva dava loro lo spazio per uscire, guarendo sempre un po' di più ogni volta, come liberandosi da un parassita. Ma per quella colpa, per aver deciso della vita di qualcun altro, nessuna ferita sarebbe mai stata sufficiente.

Willas si precipitò accanto a lui, serrandogli le mani nelle proprie. – Adesso basta – urlò, in preda al terrore. Il ragazzo fece forza per sottrarlo alla propria violenza, in una danza di dolore senza vincitori. – Dobbiamo andare! Mi senti? Dobbiamo andare.

L'allarme gli impedì di ragionare propriamente, ostruendo la via alle successive parole che il Sorvegliante cercò di rivolgergli. Florian si alzò dal pavimento, e seguì i due ragazzi fuori dalla stanza senza neanche comandarlo al proprio corpo.

***

Si trovavano addossati alla parete di una cappella funeraria, in una zona defilata di Marwoleth. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma la sua mente era riuscita ad annotarsi il nome della sezione: Z-00. La dicitura campeggiava sulle loro teste, proiettata da dei fari a led. Gli parve ammaliante e minacciosa quasi quanto le cifre sui Quadranti. Era uno dei tanti espedienti che i custodi e le Levatrici avevano escogitato per cercare di rendere comprensibile la planimetria di Marwoleth.

Elsinore e Willas si sporgevano dal vicolo a fasi alterne, controllando che non stesse passando nessuno. La ragazza zoppicava leggermente, e aveva addosso degli abiti bianchi e leggeri, simili a quelli da Levatrice. Florian si chiese da quanto tempo non le permettessero di indossare qualcosa di suo.

La colpa delle sue azioni si era asserragliata dietro la sua mente, disturbandola a tratti con dei brevi ronzii. La teneva a bada, come fosse stata un cane rabbioso sempre in procinto di mordergli le ossa. Nonostante gli stesse costando molto, lui e i ragazzi erano fuggitivi, e non poteva fare altrimenti. Sapeva che lo sguardo della Madama lo avrebbe tormentato comunque, sin quando i suoi occhi non si sarebbero chiusi per l'ultima volta.

– Dobbiamo entrare lì? – chiese Willas, seguendo con lo sguardo l'indice di Elsinore.

La ragazza stava puntando un'apertura sbarrata da delle lastre di legno, di fronte al vicolo in cui si erano nascosti. Sembrava una tana del Bianconiglio creata per farli affondare al proprio interno. Lo stipite riportava un numero gigantesco, il quattro, e una serie di graffiti colorati, che avevano profanato i bassorilievi religiosi che lo decoravano in precedenza.

Elsinore annuì, e disse qualcosa in linguaggio dei segni. Florian tradusse a fatica, stremato com'era. Man mano che decifrava le parole della ragazza, tuttavia, sentì quanto le nuove informazioni lo stessero trascinando lontano dal proprio baratro, gettandolo violentemente in quello della Levatrice.

– È sempre stato qui. A un passo da te – le disse, incredulo. Quando Elsinore gli aveva scritto preventivamente le informazioni per arrivare alle entrate del Lethe, non immaginava potesse essercene una così vicina. La cosa lo lasciò completamente interdetto. La ragazza posò lo sguardo per terra, osservandosi la caviglia che si era fasciata alla buona, correndo via dalla stanza per le Rievocazioni.

Uscivo da qui, quando ero bambina. Non ci torno da dieci anni.

Florian pensò a quanto potesse essere frustrante per lei sapere di avere una porta per il Lethe a pochi chilometri da lei, incastonata come una gemma nella periferia di Marwoleth. Se non fosse stato per il localizzatore, sarebbe fuggita anni e anni fa. Quella semplice consapevolezza gli fece bruciare gli occhi.

Willas ed Elsinore si avviarono verso l'entrata del cunicolo, lanciandosi attorno qualche occhiata circospetta, nonostante in quella zona non ci fosse anima viva. Florian notò quanto le tombe che costellavano il circondario, simili a degli alti piloni avvolti dalla nebbia, fossero talmente antiche da aver iniziato a sgretolarsi. In un lampo di coscienza lesse alcune date: 2023, 2019, addirittura 2002. In un certo senso fu felice dell'incuria riservata a quella sezione.

Il Sorvegliante diede qualche calcio a una delle lastre di legno, sudando per lo sforzo. Dopo un paio di minuti una tavola si incrinò abbastanza da permettergli di scansarla. Uno alla volta, sgusciarono rapidamente nell'antro, gettandosi un ultimo sguardo alle spalle.

Su una delle pareti interne riposava una scritta frastagliata, dipinta con della vernice fosforescente. Ian si incurvò verso di essa, aggiustandosi gli occhiali sul naso. "MarwoLethe", diceva. Quell'accostamento gli fece brillare gli occhi di sorpresa, contribuendo a distrarlo dal sangue che gli sporcava le mani. Ma certo, pensò. I due luoghi sfociavano l'uno nell'altro: la culla dei Conclusi, simbolo della morte fisica, e la culla dei reietti, baluardo della morte sociale.

Nel cunicolo l'oscurità era densa come una notte senza stelle. Di fronte a loro si stagliavano tre gallerie, contrassegnate da tre diversi numeri dipinti con la stessa vernice fluorescente.

Elsinore si mosse verso una di esse, e Florian notò come stesse continuando a zoppicare, reggendosi a una delle pareti laterali. Senza dargli il tempo di fare nulla, Willas le si avvicinò, porgendole una mano. Lo sguardo della ragazza tremolò, trasformandosi in un breve cenno di assenso. Il Sorvegliante si abbassò, raccogliendola dal pavimento come un gatto arruffato. Ian lo vide caricarsela senza tante cerimonie. Nonostante il buio non gli permettesse di verificarlo, era certo che fossero entrambi paonazzi.

Attraversarono la soglia numero tre, camminando raso ai muri per qualche minuto. L'ambiente era tremendamente umido e sporco, ricolmo di muffe di ogni tipo. Dei mattoni rossi, consumati dal tempo, formavano dei sottili archi sulle loro teste, inframmezzati da ragnatele che Willas doveva stare attento a non investire con il capo. Il silenzio era interrotto solo dallo scalpiccio sommesso dei loro passi, che ogni tanto si imbattevano in delle melmose pozzanghere.

Non passò molto prima che si trovassero nuovamente a un bivio. I cunicoli questa volta erano cinque, distinti da delle lettere luminose. Elsinore ne indicò uno, e Willas lo imboccò senza esitare. Florian tirò fuori il foglio che la ragazza gli aveva scritto all'interno della stanza per le Rievocazioni, prima dell'estrazione del chip. Essendo l'operazione andata a buon fine, non aveva affatto pensato a ricontrollarlo, affidandosi invece alla guida della Levatrice. Ora, invece, osservando le lettere in cima alle entrate, ogni cosa gli fu chiara.

Sul pezzo di carta erano riportate tre serie di codici alfanumerici, contrassegnati da una parola tra parentesi al termine della riga. Nella prima linea, Elsinore aveva scritto "Z0043L198M1S9G400 (Marwoleth)". Anche la seconda linea riportava un codice simile, e terminava con la dicitura "(zona C / 22)", che probabilmente designava l'ubicazione di un'altra apertura, questa volta collocata nella zona C, nell'isolato numero 22. Ma fu la terza riga ad attirare particolarmente la sua attenzione. Con la sua grafia dolce e sinuosa, Elsinore aveva scritto il codice e poi "(vicolo caduti WW4)". Florian lesse meglio, incredulo. Vico Caduti della Quarta Guerra. È vicino alla biblioteca.

Non ebbe il tempo di chiedere nulla alla ragazza, che sentì Willas porle una domanda, con la voce attutita dal silenzio dei cunicoli.

– Davvero ricordi ognuna di queste entrate? – le chiese, sembrando leggermente perplesso.

La Levatrice mosse a fatica le mani per rispondergli, sganciandosi per un istante dal suo collo.

– Dice di sì. Le lettere e le cifre fanno parte delle password che fanno imparare a memoria ai bambini del Lethe –, tradusse Florian, scrutando i gesti di lei nel buio.

Elsinore aprì le mani a segnare un numero, il ventidue, per poi continuare a parlare. Florian ammutolì, mandando giù quelle parole. – Ventidue password a memoria. Ventidue entrate –, ripeté per lei.

Entrambi stettero in silenzio, continuando a camminare lungo il corridoio. Riflettendoci, Florian concluse che non c'era da stupirsi più di tanto delle capacità mnemoniche di Elsinore: in fondo, quelle sequenze erano l'unico biglietto per la libertà che avesse avuto a disposizione per più di un decennio. Naturale che le abbia marchiate a fuoco nella mente.

Perse il conto di quante svolte, curve, cunicoli attraversarono da quel momento in poi. I rumori dell'esterno erano completamente scomparsi, sostituiti da quello dei loro scarponi e da quello delle gocce che ricadevano pigramente nelle pozze di acqua fetida. Ogni tanto Ian riconosceva i cartelli della vecchia rete metropolitana, rimpiazzata ormai da tempo dalla metro sospesa che fluttuava alla luce del Sole.

L'ultima soglia non riportava alcun numero, e non aveva gemelle accanto a sé. L'aria si era fatta densa e opprimente. Ian non aveva idea di quanta strada avessero fatto, né di quanti metri di terra ci fossero sopra alle loro teste. Il solo pensiero bastava ad asfissiarlo.

Elsinore fece segno a Willas di avvicinarsi alla porta, e la colpì bussando con un pattern particolare. Immediatamente, una voce femminile rispose dall'interno, glaciale. – Vi ho visti dalle telecamere. Due Sorveglianti e una ragazza. Avete cinque secondi per identificarvi.

Florian sentì le braccia incresparsi di una fitta pelle d'oca. Rivolse uno sguardo preoccupato a Willas, che stava osservando la porta di metallo come se avesse voluto fonderla. Elsinore gli rivolse una sola parola, tranquilla. "Diglielo".

– Florian Herward – procedette lui, col cuore in gola. – Willas Dresner. Elsinore Krassnerr.

La voce stette in silenzio per qualche istante. – Non ti credo.

Florian continuò a fare le veci della Levatrice, seguendo le sue indicazioni. – La ragazza non può parlare. Ti chiede di aprire la finestra per guardarla in faccia.

Il silenzio li oppresse ancora una volta, congelandoli in attesa. Una finestrella inizialmente invisibile si schiuse al livello dei loro visi, e una torcia rivelò due occhi marroni incastonati in una figura color notte. La persona dietro al vetro sembrava essere piuttosto giovane, e delle fitte treccine nere le contornavano il volto, tintinnando.

– Elsi – disse, solamente.

Da quando la porta si aprì, Florian non comprese più nulla. Le urla di gioia, le lacrime, la folla di persone. L'uomo di mezza età, con degli occhi identici a quelli di Elsinore, che accorse a stringerla come se avesse voluto inglobarla dentro di sé, di nuovo al sicuro. Quell'esplosione di giubilo non gli diede il tempo per razionalizzare alcunché. Si sentì stringere da una miriade di braccia che non conosceva, arrivate a soccorrerlo. A tratti gli giungevano brevi domande, affermazioni, dubbi.

In tutto quel trambusto, cercò Willas con gli occhi, leggendovi la stessa confusione che era certo trasparisse anche dai suoi. Come in un'eco lontana, gli sovvennero il nome e il cognome che aveva ormai mandato a memoria. Il motivo per il quale si trovava lì.

Attorno a loro, gli altri rifugiati si erano stabilizzati in uno sbilenco semicerchio, facendogli spazio. Florian osservò quella colorita marmaglia, incapace di metterla a fuoco. Stringendo il ritratto di Eddie nella tasca della divisa, si rivolse alla ragazza con le treccine, che si era asserragliata a stringere Elsinore inondandola di lacrime.

– Yae Levin – le disse, incapace di articolare alcuna frase di senso compiuto. La testa ormai gli esplodeva da ore; avrebbe voluto staccarsela dal corpo.

La ragazza lo guardò esterrefatta, spostando lo sguardo verso un punto alle sue spalle. Il capannello di persone si acquietò per pochi istanti, e Ian vide diverse persone scansarsi di lato, permettendo a una figura di passare. Si trovò di fronte una giovane con dei corti capelli a spazzola e degli orecchini dorati, che risuonarono lievemente accompagnando i suoi passi.

La ragazza posò gli occhi su di lui, sbigottita. – Io ti conosco.

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