³⁸. 𝘊𝘢𝘯𝘥𝘰𝘳𝘦

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Fu risvegliato dal proprio sogno come strappando una benda. L'odore del sangue gli si era cristallizzato nelle narici, incancellabile come una cicatrice.

Eddie aprì lentamente gli occhi, mettendo a fuoco ciò che lo circondava. Sentì un dolore acuto lacerargli la testa, il dolore di migliaia di spilli acuminati. Le sue gambe sembravano essere due blocchi di marmo inerti, e per una frazione di secondo ebbe l'impressione di non riuscire a muoverle. Ancora con gli occhi socchiusi, provò a dare un calcio all'aria. Si muovono.

I suoi occhi azzurri, ormai vigili, riflettevano solo un candore sconfinato. Il bianco della stanza si confondeva con quello dei suoi indumenti, che per quanto stesse riuscendo a constatare, erano bianchi anch'essi. Non aveva idea di chi glieli avesse cambiati, o di quando fosse stato fatto.

Si trascinò a sedere sul pavimento, appoggiando pesantemente la testa a una mano. La testa. Qualcosa non andava. Un formicolio di panico gli attraversò il petto come una scossa, e iniziò a tastarsi il capo con fare morboso, rimanendo orripilato a ogni frizione delle proprie dita.

Qualcuno gli aveva tagliato tutti i capelli.

Il primo istinto che ebbe fu quello di urlare, poi quello di piangere. Tuttavia, non fece nessuna delle due cose, continuando invece a toccarsi incessantemente la cute. Le sue dita, percorrendo a tentoni, incontrarono infine una resistenza sulla parte posteriore del cranio. Una grossa fasciatura gli avvolgeva la nuca, creando un bozzo innaturale. Provò a effettuare una leggera pressione, e il dolore lo trafisse senza pietà.

Le luci della stanza erano di un bianco accecante; sembravano impostate in modo da indurre uno stato forzoso di veglia. Eddie cercò di alzarsi in piedi, puntellando le ginocchia per terra. Non ci riuscì. Il suo corpo ricadde come un'inutile marionetta, incapace di gestire quel semplice e necessario equilibrio. Non riesco ad alzarmi. Il tempo di formulare quel pensiero, che i suoi occhi si erano già riempiti di lacrime.

Non piangere, si disse. Ti stanno osservando. La voce del suo vecchio orgoglio, mai abbandonato del tutto, gli diede inaspettatamente forza. Iniziò a contare in mente per distrarsi, come aveva fatto in molte altre occasioni. Uno, due, tre. A ogni numero faceva corrispondere un respiro. Aveva imparato da tempo a soffocare le lacrime in quel modo. Riuscì a calmarsi in un paio di minuti. Tuttavia, non poté togliersi dalla mente l'immagine del filo di un rasoio, e di sé stesso in un equilibrio precario sulla sua lama.

Per continuare a distrarsi, Eddie girò la testa a destra e a sinistra, controllando il circondario. Nelle sue prossimità c'erano un letto dalle lenzuola limpide e una piccola scrivania con una sedia, anch'esse bianche. Una porta color panna, con una piccola finestrella divisa da grosse grate di ferro, lo chiudeva dentro la stanza, nascondendolo al mondo. Una prigione bianca. La parete a fianco al letto non aveva decorazioni, a parte un piccolo lavabo e uno specchio. L'ambiente sembrava essere molto grande, e dal lato opposto proseguiva per una trentina di metri.

In fondo alla stanza, dall'altro capo rispetto a dov'era lui, notò una figura accovacciata. Eddie cercò di metterla a fuoco; non aveva idea di come avesse fatto a non scorgerla prima. La sagoma si mosse leggermente, sedendosi come lui sul pavimento. Da quel breve movimento, poté constatare che si trattava di una ragazza dai lunghi capelli castani. La stanza di lei era speculare alla sua: aveva lo stesso arredamento, ma era molto più grande. Al centro vi era uno schermo olografico acceso, che stava trasmettendo delle immagini in slideshow.

Una famiglia. Un bambino. La natura. Il susseguirsi di olografie era infinito, e raffiguravano sempre le stesse cose, seppur in modalità diverse. Una foresta. Un padre che abbraccia i suoi figli. Una spiaggia pulita.

– Ehi! – cercò di urlare verso la ragazza. Lei non si girò. Sulla testa aveva un casco di fili intricati, anch'essi bianchi come il resto della stanza. Stava piegata verso terra, compiendo movimenti ristretti. Dal modo in cui le sue mani si spostavano, Eddie comprese che stava disegnando.

Cercò di avvicinarsi a lei strisciando sul pavimento. Trascinò le proprie gambe a peso morto, muovendosi aiutato dalle braccia. Tuttavia, dopo pochi centimetri non riuscì a spingersi oltre.

Tra lui e la ragazza stava uno spesso vetro, che a prima vista risultava invisibile. Eddie poggiò le dita sulla sua superficie, vedendole sospese a mezz'aria. Nonostante fosse impercettibile, sembrava essere piuttosto solido. Avvicinandosi, riuscì a scorgere la propria figura traslucida riflettersi su di esso.

Aveva il viso tumefatto, con un occhio reso viola da un livido. Non ricordava affatto di essersi difeso prima del rapimento, ma quel livido raccontava il contrario. I suoi capelli erano davvero stati recisi, e ora portava lo stesso taglio corto che aveva a tredici anni. Girando il capo su sé stesso, vide la grossa fasciatura che lo cingeva sul retro, provando ancora quell'acuta fitta di dolore che aveva sentito in precedenza. Sotto al suo orecchio destro sembrava esserci un po' di sangue. Vi passò le dita per pulirlo, salvo accorgersi che fosse in parte rappreso. Sangue.

Il ricordo lo colpì come uno schiaffo. Rein aveva sparato a entrambi, nell'auto. Eppure lui era lì, con gli occhi aperti e i capelli tagliati. E se lui era ancora perfettamente vivo, voleva dire che Rein aveva subito l'intero impatto.

Un panico ancestrale gli rimescolò le viscere. È morto, si disse. È morto per tentare di salvarmi. Per non farmi imprigionare. Tuttavia, un'altra voce nella sua mente si affiancò alla prima, questa volta più tagliente. No, è morto ma ti ha tradito, e tu sei stato imprigionato comunque. Entrambe le voci, tuttavia, erano d'accordo su una cosa: Rein era morto. E il sangue che aveva appena raccolto dal proprio viso era il suo.

Eddie sentì un conato graffiargli la gola, e la nausea annebbiargli la vista. Gettò il busto a terra, senza curarsi di proteggere il volto nella caduta. La sua fronte sbatté sul pavimento, provocando un rumore sordo nella stanza. Il mondo iniziò a girare e il viso di Rein assieme a lui, mentre la sua mente lottava per non perdere conoscenza. Una forza incontrollabile e crudele gli impose di disimparare a respirare. L'unica soluzione che riuscì a escogitare fu la stessa che adoperava per non piangere: numeri e soffi. Uno. Lui è morto. Due. Qualcuno mi ha rapito. Quattro. Non riesco a muovermi. Sette. Ian, aiutami.

Qualcosa si spezzò dentro di lui, e le lacrime iniziarono a fluire riversandosi a terra come sfondando un argine. Eddie si strinse il corpo in un abbraccio, cercando di calmare gli spasmi. Non si curò che qualcuno potesse osservarlo, non più. Nella sua mente sentì spegnersi un interruttore, e strisciò ancora verso il vetro invisibile, iniziando a tempestarlo di pugni senza neanche deciderlo.

– Aiutami! – urlò alla ragazza oltre il velo. Lei, però, rimase serrata nella sua fredda indifferenza. – Ti prego – aggiunse, con un filo di voce.

– Non può sentirti.

A parlare era stata una voce di donna, che Eddie udì riverberarsi nella stanza. Si interruppe di colpo, lasciando un pugno serrato a mezz'aria. Le ultime lacrime rimasero attaccate alle sue ciglia bionde, appannandogli lo sguardo. Si voltò di scatto, osservando il soffitto da un lato all'altro; tuttavia, non riuscì a vedere né altoparlanti, né telecamere.

– Tu puoi vedere lei, ma lei non può vedere te – disse ancora la donna. Aveva una voce calma e fredda, con una cadenza particolare. Eddie non avrebbe saputo riconoscere il suo accento, ma lo Standard non sembrava essere la sua prima lingua. Il suo dolore fu distratto da quella voce, e sentì ogni fibra di odio incanalarsi verso di essa.

– Chi sei? Che cosa mi avete fatto? – chiese all'aria. Si mise faticosamente a sedere, facendo spaziare lo sguardo. Sentiva nella sua testa come un cumulo di sassi, che sbattevano gli uni contro gli altri.

– Una domanda alla volta, Edin.

Eddie percepì un profondo disprezzo pervaderlo sino alla punta delle dita.

– Non chiamarmi così – ringhiò.

Dall'altro lato udì provenire una breve risata, che arrivò attutita per colpa dell'interfono.

– Ah, già. Lo aveva scritto, mio figlio. – Eddie sentì che la donna stava facendo scorrere della carta, provocando un lieve fruscio. – "Si è dato un soprannome, "Eddie". Sembra che l'abbia tratto da uno dei gruppi musicali che ascolta. Non si lascia chiamare col suo vero nome, a meno che a farlo non siano delle persone a cui tiene". Ecco qua. Me ne compiaccio, perché lui era arrivato a chiamarti col tuo vero nome. È indicativo del fatto che abbia compiuto un ottimo lavoro.

Eddie si sentì chiudere lo stomaco. – Sei la tutrice di Rein.

La voce sospirò. – Avrei preferito "madre", anche se non siamo mai riusciti ad andare d'accordo. E ormai avrai capito che il suo nome era Hermes. Hermes Svart.

Eddie trattenne il fiato. Era.

– Io sono la dottoressa Iris Svart, responsabile di questo Progetto – disse. Eddie notò un accenno di divertimento nella sua voce. – Mi stupisce che tu abbia rinnegato il nome che ti ha dato Hania. Era una donna molto bella, con dei lunghissimi capelli biondi, come i tuoi. A proposito, mi dispiace per i capelli. Abbiamo dovuto tagliarteli per curare la ferita. Sei stato colpito dal proiettile nella zona del cervelletto, che controlla una parte dell'equilibrio del corpo. È per questo che non riesci ad alzarti in piedi, al momento. Ma nulla che non si possa risolvere con un po' di fisioterapia.

Eddie cercò di far sedimentare quelle informazioni nella propria mente. Mia madre. Proiettile. Equilibrio.

– Certo, se avessi saputo che quel folle di mio figlio avrebbe tentato di ammazzarvi entrambi, non gli avrei mai affidato questo compito. Evidentemente deve aver avuto compassione di te, finendo per tradirci tutti. Un vero peccato. Per fortuna siamo comunque riusciti a portarti qui.

Eddie la interruppe. Aveva una miriade di domande in testa, e le sentiva scalpitare l'una contro l'altra per uscire, senza riuscire a stabilire un ordine di precedenza.

– Tu conoscevi mia madre? – chiese. Il suo cuore aveva iniziato a battere incessantemente.

Iris fece passare qualche secondo prima di rispondere. – Sì. Tua madre era mia amica. Mi disse anche come avrebbe voluto chiamarti. "Edin", il tuo nome, significa "Eden", il nome del giardino paradisiaco nella religione Cristiana. La conoscerai di sicuro, i tuoi voti erano ottimi, in Accademia.

Eddie cercò di glissare su come quella donna sapesse del suo rendimento, e cercò di concentrarsi su un singolo dettaglio alla volta. Gli sembrava di tenere in mano dei pezzi di un puzzle, senza avere il tabellone sul quale posarli.

– Era tua amica –, le rispose. – C'entri qualcosa con la sua morte?

Iris stette nuovamente in silenzio, prima di parlargli. – Dipende. Ma saprai tutto a tempo debito; adesso sarebbe meglio che riposassi. Dovremo far aspettare le domande più complicate.

Eddie non avrebbe voluto arrendersi a quel silenzio. Aveva ancora troppe cose da chiedere, troppe zone oscure da rischiarare. Un interrogativo lo stava estenuando più degli altri, ma non si lasciò proferirlo. Quella domanda, "Rein è ancora vivo?", continuava a tormentarlo rimbombandogli nella testa. Dopotutto, la donna ne aveva parlato al passato, e lo sparo doveva averlo colpito in pieno. Ma non poteva chiederglielo. Farlo avrebbe significato rendere la sua morte reale.

– Mi troveranno – disse invece. Non voleva essere completamente dal lato della vittima sconfortata. Sapeva di stare parlando con una persona che avrebbe potuto raggirare, anche se in quel momento non aveva idea di quali potessero essere le corde giuste da premere.

Un movimento nella sua visuale periferica lo distrasse. Eddie notò che la ragazza dall'altro lato del vetro si era alzata in piedi. Si era spostata dai suoi disegni, andandosi a sedere di fronte all'olo-schermo al centro della stanza, fissatosi intanto sull'immagine di una foresta verde e rigogliosa. La ragazza si era messa a osservare l'olografia con uno sguardo sognante, tenendo le gambe incrociate e i gomiti sopra le ginocchia. In una situazione diversa, anche lui si sarebbe incantato ad ammirare quella visione, così simile ai paesaggi che aveva potuto osservare all'interno di Wilderness IV.

Dal momento che la ragazza si era avvicinata al centro della stanza, Eddie poté constatare quanto i suoi capelli fossero talmente lunghi da toccare terra, e come i fili attaccati al suo cranio fossero in realtà degli elettrodi. Quel semplice dettaglio lo fece rabbrividire.

– Chi ti troverà? – gli chiese Iris, distraendolo. La sua voce si spanse nella stanza, con una lieve sfumatura di curiosità a colorarla.

– La Chiesa del Giudizio. La pena per chi rapisce i LaBo è la Conclusione immediata. Il mio co-abitante denuncerà la mia scomparsa, e mi verranno a cercare – le rispose in un fiato, cercando di apparire convincente. Tuttavia, nell'istante stesso in cui ebbe proferito quelle parole, Eddie le trovò ridicole e cantilenanti, simili alle speranze di un bambino.

– Tu dici? – chiese la donna. La curiosità aveva lasciato il posto all'ironia. – La Chiesa non ci ostacola, ci finanzia. Non che io l'abbia voluto.

A quelle parole, Eddie sentì un brivido scavargli la schiena.

– Per quanto riguarda Florian, ce ne siamo già occupati. Al momento lui crede che tu non sia mai esistito. – Nella voce di lei parve esserci una soddisfazione perversa. Tuttavia, a Eddie sembrò di scorgervi anche una nota di compassione.

Non poté fare a meno di provare nuovamente un conato di vomito. Si strinse forte lo stomaco, cercando di ricacciare indietro l'attacco di panico che gli stava per fratturare le viscere, e che lo avrebbe lasciato inerte come una bambola di pezza. Lui crede che tu non sia mai esistito.

– Perché? – gli uscì, con una tonalità stridula. Gli sembrava di non aver fatto altro che quella domanda, da quando era stato in auto con Rein poco prima. Anche se, in realtà, non aveva idea di quanti giorni fossero realmente passati. Il momento in cui aveva aiutato Florian a scegliere i vestiti per il suo appuntamento sembrava lontanissimo.

– Come? – chiese la donna chiamata Iris Svart. Evidentemente lui doveva aver parlato a voce troppo bassa per poter essere udito.

Eddie cercò di ricomporsi, alzando la testa verso un angolo del soffitto, dove pensava si trovasse una telecamera. – Perché sono qui? – chiese ancora.

– Ottima domanda – disse Iris. Sembrò prendere fiato prima di continuare. Il suono del suo sospiro si riverberò sordo attraverso l'interfono.

– Tu sei l'ultimo maschio fertile – disse, semplicemente. Il mondo attorno a Eddie ricominciò a girare.

– E lì, di fronte a te, sta l'ultima femmina fertile.


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