⁵⁶. 𝘚𝘱𝘦𝘳𝘢𝘯𝘻𝘢

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Il suo sguardo si aprì sul bianco di una stanza d'ospedale, per la seconda volta in un giorno. Florian cercò di sollevarsi a fatica sul materasso; sentiva la testa ronzare, come fosse stata ripiena di api impietose. Le luci sul soffitto gli trafissero gli occhi, ma si forzò a tenerli aperti, per aiutarsi a prendere coscienza di sé.

Le sue braccia erano fuori dalle lenzuola, completamente avvolte da una serie di strisce di garza, in alcuni punti gonfie come pagnotte. Nell'incavo del braccio sinistro vide l'ago di una flebo riposare silenzioso, probabilmente posto lì per reintegrargli dei nutrienti, a causa del sangue perso. Non ricordava di aver calcato la mano sino a quel punto, ma qualche medico doveva aver pensato il contrario.

Il suo letto era l'unico della stanza a essere occupato. Dal lato opposto al suo si trovava una lastra di vetro trasparente, forse il residuo di un vecchio reparto di Neonatologia. Sapere di poter essere osservato dall'esterno lo mise leggermente a disagio, e sperò che in quel momento non passasse nessuno nel corridoio.

Florian osservò il proprio riflesso, lottando con l'impulso di distogliere lo sguardo. Aveva i capelli arruffati e la barba incolta da un paio di giorni. Da lì non riusciva a scorgerli, ma era certo che i suoi occhi cinerei gli stessero restituendo anche il profondo vuoto che sentiva nel petto. Si sporse a raccogliere i propri occhiali sul comodino, tastando con le dita. Tuttavia, finì per spingerli maldestramente sul pavimento, e lì udì incrinarsi producendo un rumore sordo. Ian si sentì disprezzarsi con ogni fibra del proprio corpo. Miserabile.

Accanto al comodino c'era uno sgabello per i visitatori, prevedibilmente vuoto. Nessuno è venuto a trovarti. Sei solo. Si ritrovò a guardare il ferro ammaccato della sedia, lasciando che le proprie pupille finissero fuori fuoco. A un tratto pregò che qualcuna di quelle "manifestazioni schizoidi" si palesasse lì con lui, impedendogli di rimanere abbandonato ai suoi pensieri.

La voce della cosa che strisciava stava ricominciando a cantilenargli nelle orecchie, crudele. Fallito, fallito, fallito. Florian si fissò le braccia senza vederle davvero, con un rumore bianco a fare da sfondo. Pietà, si sentì risponderle, silenziosamente. Ho già pagato abbastanza. Ma niente lo avrebbe distratto dall'idea di aver vissuto nella menzogna. Eddie non c'era, Dianne nemmeno. Quei pensieri vorticarono assieme a lui, colpendolo come uno stormo di corvi impazzito. Pietà.

Sul comodino, i moduli per la RA giacevano inerti, in attesa che lui li raccogliesse. Il lasciapassare per una nuova vita, priva delle rivelazioni che gli aveva fatto il dottor Viktor quella mattina. Secondo lo psichiatra, era sempre stato consapevole della natura fittizia delle proprie allucinazioni, e lo shock del taser gli aveva, seppur per poco tempo, fatto credere che quelle persone fossero vere. Eppure quel racconto non riusciva ancora a convincerlo. La risata di Eddie, i suoi capelli dorati, i suoi abbracci simili a delle prese da wrestling, come se non avesse saputo modulare la propria forza. E ancora: il profumo di Dianne, la sua pelle liscia, i suoi occhi magnetici e sempre rinchiusi sotto uno sguardo corrucciato. Tutti quei dettagli erano così reali. Lui, che vedeva il fantasma di Nadine da una vita, conosceva bene la differenza.

Eppure, a meno che l'intero mondo non si fosse messo contro di lui, niente e nessuno ricordava l'esistenza delle sue due persone più importanti. Era tutto racchiuso solo nella scatola nera della sua mente. Ian sapeva che quel contenitore era ormai stato crivellato da ampi buchi, così tanti da non riuscire più a distinguerne la forma complessiva. E l'idea che l'intera scatola andasse sostituita lo aveva accarezzato sin troppe volte.

Allungò pigramente un braccio per raccogliere i moduli. Grazie alla Riforma Avanzata, forse avrebbe accettato l'idea che Eddie e Dianne fossero sempre stati delle allucinazioni. Veloce, indolore, definitiva. Avrebbe continuato a vivere la sua vita, inconsapevole, tirando avanti senza uccidersi, per non fare un torto a Nadine. Ma sapeva che li avrebbe dimenticati, votandosi a quell'illusione. Assieme al doloroso memento della loro esistenza, se ne sarebbero andati anche tutti i ricordi dei momenti felici passati assieme a loro. Ne sarebbe valsa la pena, fare l'ipocrita con sé stesso in quel modo?

Florian si perse in quei pensieri, ricacciando nello stomaco l'accenno di bile che aveva iniziato a tormentarlo. Non voglio, non voglio, non voglio. "Non lasciare che ti portino via le tue cicatrici" protestò Dianne, dandogli manforte dalle pieghe di un ricordo.

Strizzò gli occhi, sporgendosi verso il pavimento per recuperare i propri occhiali. Ogni movimento gli stava costando una fatica immensa, ma avrebbe avuto bisogno del loro ausilio per leggere bene le carte, anche solo per informazione.

Per terra, accanto alla montatura, notò una busta gialla. Sembrava una di quelle buste da lettere impiegate dal vecchio servizio postale. Ian si chiese se non si trattasse di una lettera da parte di Viktor ai dottori, sfuggita al suo controllo quando aveva scandagliato i moduli per la RA. La raccolse insieme agli occhiali, sentendo le ossa scricchiolare.

Né sul fronte e né sul retro vi era riportato alcun indirizzo. Ne aprì con cautela il lembo laterale, scollandolo un po' alla volta. Con un lieve strattone ne svuotò il contenuto sul lenzuolo, trovandosi un solo foglio di fronte. Lo dispiegò lentamente, sentendolo ruvido sotto ai suoi polpastrelli screpolati.

Al centro del foglio vi era un ritratto fatto a penna, di un paio di colori diversi. Ian sentì mancargli un battito: il volto raffigurato era quello di Eddie. Eddie. Edin. Il mio co-abitante.

Le mani iniziarono a tremargli, e percepì un groviglio di fulmini risalirgli dalla bocca dello stomaco sino alle guance, infiammandole. Non è possibile, si disse. Volse il viso lungo la stanza come un forsennato, in cerca di un qualsiasi segno di vita che gli rivelasse l'artefice di quel ritratto. Un unico foglio cencioso chiuso in una busta, ma che significava dieci, cento, mille volte di più. Una prova. Una prova che lui esiste davvero.

Florian osservò ogni dettaglio del viso del ragazzo, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime. Era stato tratteggiato alla perfezione: sorridente, ma dall'aria un po' imbarazzata, forse per via dell'essere stato disegnato. I capelli lunghi e biondi gli contornavano il viso, e ogni ciocca era stata delineata con una cura quasi maniacale.

A un tratto si chiese chi avesse mai potuto fargli un ritratto del genere. Un pensiero gli attraversò la mente, illuminandola: Rein, si disse. Era l'unico che Eddie avesse mai chiamato suo amico, l'unico dal quale si sarebbe lasciato ritrarre. Florian realizzò all'improvviso che, da quando si era svegliato quella mattina, non aveva cercato alcuna traccia di Rein. Che stupido. Non ho neanche pensato di chiedere a lui dove potesse essere Eddie. Tuttavia, non aveva idea di dove abitasse il ragazzo, e inoltre erano ore che non ragionava a mente lucida. Deve essere stato lui a portarmi questo ritratto. Ma perché non mi ha svegliato?

Florian voltò il foglio febbrilmente, sperando di poter trovare qualche altro indizio. Sulla parte opposta rispetto al ritratto vi erano alcune scritte a penna, in un corsivo elegante ma abbozzato. Ebbe quasi l'impressione che chi le aveva incise andasse di fretta. Ian aveva già visto la grafia di Rein, sui biglietti che lasciava a Eddie di tanto in tanto. "Mi tengo la tua felpa, mi spiace", ricordò. Tuttavia, quella che aveva di fronte non sembrava affatto la grafia del ragazzo, scarna e appuntita. Né poteva essere quella di Eddie, tondeggiante e a tratti illeggibile.

Florian lesse le scritte, col cuore che gli palpitava a mille. "Ti hanno mentito", recitava la prima frase. Il sudore iniziò a bagnare le lenzuola, accompagnando la sua lettura.

"Ti hanno mentito, Florian. Eddie non è una tua allucinazione: esiste, ed è vivo. Al momento è rinchiuso in un laboratorio. Ti dirò il resto se riusciremo a parlare di persona, quando ti porterò questo ritratto. Non fidarti dei tuoi vicini, né dei medici. Cerca una ragazza di nome Yae Levin, ti aiuterà. È una giovane Pre con i capelli corti, ed è stata lei a causare l'Incidente del Quadrante. Purtroppo non so darti la sua ubicazione precisa, ma potrebbe essere andata nel Lethe. Venite qui insieme, possibilmente con delle armi."

Più in basso vi erano riportate delle coordinate, probabilmente quelle del fantomatico laboratorio. Florian puntò i propri occhi acquosi su una frase finale, più in basso rispetto al corpo della lettera.

"Un giorno torneremo interi.

S. K."

A quel punto, non poté far altro che lasciar scorrere le lacrime. Rilesse il biglietto un altro paio di volte, soffermandosi insistentemente sull'ultima frase e sulla firma. S. K. Non conosceva nessuno con quelle iniziali. Di chiunque si trattasse, però, era dalla sua parte. Una persona che sapeva della scomparsa di Eddie, e del silenzio che i suoi vicini di casa sembravano aver fatto calare sulla questione. Allora è vero. Sono stato raggirato. Il baratro in cui aveva sentito sprofondare la sua psiche poco prima iniziò a risucchiarlo nuovamente al proprio interno. Le domande stavano diventando troppe perché la sua mente potesse reggerle. Chi ha rapito Eddie? Chi è Yae Levin? Perché non c'è scritto nulla su Dianne?

Florian si portò una mano alla testa, esausto. Era vero: la lettera non faceva alcuna menzione di Dianne, nonostante anche lei fosse scomparsa dai radar del mondo come Eddie. Il suo appartamento era abitato da altre persone, e all'interno del palazzo dove viveva non c'erano segni della sua esistenza. Ian iniziò a macinare ipotesi su ipotesi, perdendosi. Forse la persona che mi ha scritto questo biglietto non sa nulla del destino di Dianne, si disse. Tuttavia, la cosa che strisciava surclassò la voce della sua ragione, punzecchiandolo con le sue teorie malvage. O magari Dianne te la sei inventata davvero, schizzato. Il suo nome è un anagramma, e nessuno l'ha mai vista assieme a te.

Un istante prima che quel pensiero lo pugnalasse, Florian fu distratto dalla comparsa di una figura nel proprio campo visivo. Si affrettò a ripiegare in due il foglio, come se avesse ricevuto una scossa. Nella stanza era entrato qualcuno: un giovane alto e con indosso un'uniforme nera da Sorvegliante, ma privo del suo casco rosso. Florian lo mise a fuoco, e non passò molto prima che sentisse le proprie membra rilassarsi.

– Willas – disse, chiudendo in fretta la busta. Si sforzò di incollarsi un sorriso al volto, nascondendo lo shock sotto un velo di cortesia.

Il Sorvegliante sollevò una mano per salutarlo. Lo vide procedere verso il suo letto a passi cadenzati, con due grosse occhiaie a scurirgli il volto. Da quando l'aveva visto l'ultima volta, più di due mesi prima, sembrava estremamente cambiato. Florian notò che aveva un flacone di pillole in mano, e uno spesso plico incastrato sotto al braccio.

– Ciao, Florian – rispose, con una punta di malinconia a trasparirgli dalla voce. – Ti ho visto attraverso il vetro. Disturbo?

Ian ricordò di avere il viso bagnato dalle lacrime, e si affrettò ad asciugarsele col dorso della mano. – No, sta' tranquillo. Piuttosto, che ci fai in ospedale? È successo qualcosa?

Willas distolse lo sguardo, piantandolo a terra. I suoi occhi verdi tremolarono leggermente. – No. Sto seguendo una cura –, rispose. Il ragazzo gli mostrò il tubetto di pillole che aveva in mano, e Florian poté leggere il nome "Easy" scritto a caratteri cubitali su di esso. – E tu, invece? Ti sei fatto male?

– Più o meno – gli rispose Florian. Pensò che non sarebbe stato saggio addossargli il proprio dolore, né tantomeno mostrargli l'adrenalina dovuta alla lettera. Decise di sviare il discorso, puntando il dito verso il flacone.

– Ho sentito parlare di quel farmaco – gli disse. – Lo usavano nel periodo attorno all'Espiazione.

Willas non gli rispose, e sembrò che una bruciante colpevolezza esalasse dalla sua figura. Un'ombra stazionò sul suo volto emaciato. – Allora suppongo tu conosca anche i suoi effetti.

Ian sentì le proprie dita irrigidirsi. – Sì. Li conosco.

Stettero entrambi in silenzio, compressi dalla consapevolezza. A un tratto, il ragazzo riprese a parlare, trascinando le parole come macigni.

– Me le hanno prescritte circa due mesi fa. Una volta che le avrò utilizzate abbastanza, il mio corpo si abituerà alle sensazioni che provocano, azionando un pattern automatico di comportamenti. – Il ragazzo fece una pausa, stringendo i pugni. – Se non le prendessi, dovrei dire addio al mio posto da Sorvegliante. Le mie riserve di denaro non sono infinite, e mio padre è ancora in cura.

Nonostante indossasse la divisa e avesse il manganello nella fondina, Ian non poté fare a meno di vedere il ragazzo che si nascondeva sotto al Sorvegliante. Ricordava bene gli effetti delle pillole di Easy, che disumanizzavano il prossimo sfocandone i tratti somatici. Non solo: coi loro principi attivi esasperavano le emozioni negative, riempiendo chi ne faceva uso di una rabbia immotivata, utile in molti contesti.

– Florian – iniziò Willas, accasciandosi sullo sgabello accanto al letto. Sebbene fosse alto quasi due metri, gli sembrò comunque un vecchio sacco slabbrato. – Queste pillole me le hanno prescritte perché ti ho aiutato quel giorno. Anche se non sanno che ho lasciato andare un Disallineato, devono aver intravisto qualcosa di "rotto" in me, quando sono tornato alla centrale. Non ti nego di aver pensato più e più volte di tornare indietro per denunciarti. In quel modo mi sarei messo la coscienza a posto, e forse sarei finalmente diventato il Sorvegliante che tutti volevano che fossi.

Florian sentì le braccia punteggiarsi di pelle d'oca. Perché me lo sta dicendo in questo momento? Si chiese. Tuttavia non osò proferire quella domanda ad alta voce. Vide il ragazzo affrettarsi a proseguire il racconto, abbassando il proprio tono a un sussurro.

– Ma non l'ho fatto. Ti ho lasciato andare, e ho lasciato andare molte altre persone dopo di te. Abramizde è diventato paranoico, e ha intensificato le purghe di dissidenti come non mai. Ho visto i miei colleghi strappare alle proprie vite persone perfettamente normali. Ma io non voglio fare nulla del genere.

Ian provò ad articolare qualche parola. – Willas, se lo scoprissero...

– Cosa? Mi licenzierebbero? Mi ucciderebbero? Che lo facessero. Mi stanno già uccidendo un po' alla volta, con queste pillole. Ma almeno morirò da persona, e non da Sorvegliante.

I suoi occhi color smeraldo si erano riempiti di una fiamma sferzante, che ribolliva in superficie minacciando di riversarsi all'esterno da un momento all'altro.

– Ti sto dicendo tutto questo perché sei uno dei pochi che potrebbero capirmi –, continuò, sospirando. – Lasciarti andare, quel giorno, mi ha ricordato chi sono: un essere umano. E di questo posso solo ringraziarti.

Willas si alzò in fretta, recuperando la fierezza che Florian non gli aveva visto addosso quando era entrato. In quel momento non poté far altro che ammirarlo: aveva combattuto contro sé stesso, e ne era uscito vincitore. Ian strinse la busta che aveva in mano, sentendo una scarica di determinazione pompargli nelle vene. Anch'io posso fare qualcosa. Per Eddie, e per me stesso.

Willas gli diede una pacca sulla spalla e si avviò verso la porta. – Stammi bene, Ian. Ti chiamo un infermiere, la flebo sta per finire.

– Aspetta – disse Florian. Di tutta risposta il ragazzo si arrestò sotto allo stipite, volgendo il viso verso di lui. – Grazie – gli disse. – Per quello che hai fatto per me. Per quello che fai per tutti.

Il Sorvegliante stirò il volto in un debole sorriso. Florian osservò i suoi occhi incresparsi in rughe sottili, come gli aveva visto fare molte volte durante i controlli al ritorno dalla biblioteca. Osservò la sua sagoma incedere con vigore, sin quando non scomparve dal suo campo visivo.


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