Capitolo IV

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Capitolo IV

ՑՑՑ

        La carta da parati arancione di casa Soria perde le sue tinte; si spengono, lasciando spazio solo colori freddi nella sua tavolozza dapprima tiepida. Il pavimento coperto di moquette sembra sgretolarsi sotto i suoi piedi e, il tempo, si blocca. Joshua muove una mano tremante, che non risponde immediatamente a quell'impulso, ed è pesante, come se fosse diventata di pietra. Proprio come il ragazzo di fronte a lui: è immobile, non sbatte nemmeno le palpebre. Non respira. È una statua di ghiaccio. Joshua vorrebbe svegliarsi, capire se è una sorta di paralisi del sonno che lo ha colto da sveglio. Visioni così forti, nella sua vita, non le ha mai avute. Visioni così vicine, così potenti, non gli sono mai capitate.

   Il cuore sembra gli stia uscendo dalla gabbia toracica, per quanto batte forte.

   I morti, invece, lo guardano ancora. Respirano a fatica e quell'azione grava enormemente sulle loro spalle che si alzano e si abbassano dolorosamente; muovono il petto in maniera quasi innaturale. A volte sembra in procinto di esplodere, a volte di implodere. Ogni respiro rimbomba come dei passi duri in una grotta oscura. La pelle di ognuno di loro è pallida, sfibrata, a volte mancano brandelli di carne, ed è grigio perlato, a tratti in decomposizione. Pezzi di ossa, frammenti di nervi, filamenti di muscoli. 

   Ne conta cinque, tra i pensieri offuscati – e gli occhi, anche gli occhi non vedono altro che nebbia. Tre uomini, una donna e un bambino. Sono impegnati a guardarlo come se non fosse il benvenuto in quella casa. Come se il suo arrivo fosse la peggiore delle maledizioni. Joshua alza finalmente il braccio, ci riesce e li indica, ma un sussulto al cuore gli mozza il respiro in gola. Porta la stessa mano al petto, la stringe intorno alla maglietta e, tremando, cerca di parlare. Balbetta terrorizzato qualche frase sconnessa, poi si ammutolisce, quando uno di loro, a prima vista il più anziano, emette un lunghissimo grugnito che sa di spossatezza, di dolore e forse è così. Joshua pensava inizialmente che fosse un'esternazione di rabbia ma non è così. È la fatica di riuscire in quell'azione così semplice, come aprire la bocca e dire qualcosa. Un gesto a quanto pare difficile da compiere, per alcuni defunti.

   «Non gua-guardare», inizia quello, alzando una mano e indicandolo. L'unghia dell'indice è così lunga che pare un coltello affilato. La sua voce è atona, anche se sembra un fischio lontanissimo che gli entra nelle orecchie per non uscirne mai più. Rimbomba nelle pareti del cervello e si aggrappa alla ragione, e la disintegra. «Te stesso», scandisce l'uomo, mentre gli altri morti tacciono e respirano. Sembrano farlo anche per il loro portavoce, e forse anche per lui. Respirano così rumorosamente che Joshua prova l'istinto di tapparsi le orecchie, ma non ci riesce, troppo annichilito dalla paura, da quel senso di impotenza che lo ha colto, che lo blocca e si sente una statua, incapace di fare o dire qualsiasi cosa. Spento, come si è sentito quel giorno in cui si è visto al di fuori del parabrezza, mentre portava sulle spalle il peso della propria bara – e della propria morte.

   E del proprio dono che non ha mai voluto.

   Vorrebbe chiedergli di cosa accidenti sta parlando;  chiudere gli occhi e riaprirli un istante dopo, con la speranza di non vederli più e scoprire che quelle persone sono solo frutto della sua immaginazione. Vorrebbe scacciare via quell'immagine, e tornare alla realtà ma, tutto ciò che riesce a fare, è cadere a terra sulle proprie ginocchia e tentare, con tutto se stesso, di tornare a respirare. È difficile. Ha un filo di respiro incastrato tra i polmoni e la carotide, e la bocca è così secca che ha bisogno di tossire, ma non ci riesce. È intrappolato nella realtà che quei fantasmi hanno creato intorno a lui, mentre il ragazzo seduto al pianoforte continua ad essere solo un pezzo di ghiaccio in un deserto di neve che lo fa rabbrividire.

   Ha un attacco di panico. Un caro vecchio amico che non tornava a fargli visita da tempo.

   «Joshua.» È la voce della signora Soria, lontana e ovattata, che lo sta chiamando da un punto indefinito della casa. Sente qualcosa di caldo afferrargli le spalle, ma non vede nulla, solo nero e nient'altro. Il tono familiare è quasi un conforto, come se potesse finalmente trovare una via d'uscita, ma non la vede. Ha gli occhi fissi sul pavimento, perché Joshua non vuole più guardare, vuole solo tornare a casa e dimenticare quello che ha visto.

   Sembra chiedere troppo, eppure non gli sembra così tanto...

   «Joshua! Joshua, stai bene?», chiede ancora la voce e lui è lì, inginocchiato, incapace di reagire alla paura che lo ha colto.

   Poi qualcosa lo scuote, apre gli occhi di scatto e si ritrova di nuovo nel suo mondo, con le luci calde delle lampadine a illuminare la stanza e la signora Soria china di fronte a lui, con le dita piene di anelli strette intorno alle sua spalle, che lo risveglia. Alza una mano e se la porta di nuovo al petto; sgrana gli occhi, che punta verso la donna, sperando di uscire fuori da quell'incubo in cui si sente ancora intrappolato. Incatenato.

   «Joshua», lo chiama ancora lei, e lui cerca nel suo sguardo una sorta di rifugio, che infine trova, in qualche modo. Un appiglio a cui si aggrappa con tutto se stesso. Vorrebbe abbracciarla, sentirsi stringere mentre qualcuno gli dice che è tutto okay, che è stato solo un brutto sogno e che, da domani, le cose saranno diverse. Non avrà più bisogno di isolarsi e aver paura di guardare. Perché è tutto finito. Ma non è così, e Joshua lo sa. «Stai bene? Che cosa è successo?»

   «I-io... non lo so», balbetta, e vorrebbe tornare a guardare il misterioso ragazzo che ha visto seduto al pianoforte, ma ha paura di incontrare di nuovo gli occhi spenti dei morti e cadere nuovamente nel limbo della pazzia. «Ho visto delle cose», ammette, alla fine.

   «Che cosa ha- no, non importa. Non devi dirmelo ora. Sei sotto shock, hai bisogno di sederti e di bere un bicchiere d'acqua. Vieni.» La signora Soria lo aiuta ad alzarsi da terra, e le ginocchia gli fanno un male cane. Deve averle sbattute con violenza contro il pavimento, quando è crollato giù. Con l'aiuto di Dolores che, tremante, lo ha preso sotto ad un braccio, arriva in cucina, dove si siede senza chiedere il permesso su una sedia di legno.

   «Mi dispiace molto per avervi allarmate», si sente di dire, e quando Maria si avvicina a lui con un bicchiere pieno d'acqua, schiocca la lingua in un suono preoccupato. Anche il suo viso sembra esternare la stessa emozione.

   «Stai scherzando? Non è successo niente. Ci siamo preoccupate, ma ciò che importa è che tu sia tornato tra noi. Appena te la senti, e se vorrai, mi dirai cosa è successo.»

   «Ho visto qualcosa.» Lapidario, sceglie di confidare loro immediatamente cosa ha visto. Si stringe nelle spalle e, distogliendo lo sguardo, dà una fugace occhiata al salotto, dove si è consumata quella visione raccapricciante e dove ha lasciato un pezzo della sua anima e della sua ragione. C'è un vecchio Joshua, in quel salotto, che è ancora fermo a guardare il vuoto dell'ignoto. «Una famiglia. Credo almeno che fosse una famiglia. C'erano tre uomini, una donna e un bambino. L'uomo più anziano è stato l'unico che mi ha parlato. Non ha detto molto, solo... Non guardare te stesso, o una cosa così. Non so cosa intendesse, avrei voluto chiedergli che accidenti stesse dicendo, ma non ci sono riuscito. Ho sentito le gambe cedermi e sono caduto. Sono rimasti tutti silenziosi, nel frattempo, ma il loro respiro – questo dettaglio mi è entrato dentro: sembravano così stanchi. Stanchi di qualcosa. Non so di cosa. E poi c'era questo ragazzo, seduto al pianoforte che mi ha guardato, ma era immobile, come se il tempo si fosse frizzato e lo avesse impietrito. Come se non facesse parte della visione.»

   «Robin», mormora Maria, poi sorride leggermente. «Pensavo ci avresti messo di più a raccontare. Quando sei agitato parli moltissimo, è un bene», cerca di rassicurarlo, e Joshua sa che quella è la sua intenzione. Abbassa lo sguardo, sospirando. Le è grato, ma non sa esternarlo come vorrebbe.

   «Lo so. Mi dispiace e... chi è Robin? Conosce quelle persone?»

   «No, Robin è mio figlio. Era seduto al pianoforte e stava suonando, prima che tu arrivassi. Lui è... l'unica persona viva che hai visto, e era lì, Joshua. Di lui non devi aver paura. Non si è nemmeno accorto di niente, probabilmente», spiega lei, e lancia un'occhiata alle sue spalle, forse pensando di veder comparire il ragazzo con il pompadour.

   «Dov'è, ora?»

   «Mio figlio? È andato via. Quando ha visto che le cose si erano, come dire, messe in agitazione, ha deciso di lasciarci fare.»

   «Devo averlo spaventato, mi dispiace.»

   «No. Non lo è, credimi. È abituato, almeno con me. Non sei l'unico che si blocca di fronte a certe cose. Mi succede, delle volte, di non riuscire a controllare le emozioni, specie quando le visioni hanno un impatto emotivo così forte. Non sei il solo.»

   «Non sa chi erano quelle persone?», domanda Joshua speranzoso, cercando delle risposte dall'unica persona che può dargliele, apparentemente. Ha fiducia nella signora Soria, e nel suo inconscio spera che lei sappia sempre tutto, ma quando sul viso della donna compare un velo di incertezza, Joshua si sente quasi deluso, sebbene capisca benissimo quanto sia sbagliato riporre così tante aspettative in qualcuno, solo perché ha superato quello che lui non è riuscito nemmeno ad assimilare. Lei ha più esperienza, certo, se così si può dire, ma non è detto che sia in grado di affrontare sempre quello che il destino ha deciso di dar loro tra le mani. Quello che per lei è un dono e per lui una maledizione.

   «No, non lo so. Potrebbero essere i vecchi inquilini di questa casa, come persone totalmente estranee. Sai meglio di me che a volte non vi è alcuna logica, nella loro comparsa. Loro si presentano nel momento del bisogno e... malgrado ti abbiano spaventato, sono certa che quel monito fosse dovuto a qualcosa. Magari sono solo anime alla ricerca di un passaggio e tu non eri il loro obiettivo. Ci sono tanti motivi che portano i morti a mostrarsi a noi; a volte, invece, non ve ne sono. Come noi, anche loro a volte fanno cose inspiegabili», sorride la signora Soria, dandogli un buffetto sul naso; un gesto così materno che, inaspettatamente, gli fa salire il cuore in gola. «Che io sappia, però, prima di noi qui non c'è stato nessuno. Magari posso chiedere a Robin di fare qualche ricerca sul costruttore e vedere se qualcosa coincide con la tua visione.»

   «Non volevo spaventare suo figlio», ripete, inarcando le sopracciglia. Non sapeva nemmeno avesse un figlio e, a dirla tutta, non sa nemmeno com'è fatto suo marito e lei, comunque, non gli ha mai nominato nessuno dei due. Si rende conto che in realtà non sa molto della signora Soria, a parte che condividono la stessa capacità di vedere i morti; si rende conto che lei è riservata, che racconta solo il minimo indispensabile ma che, malgrado questo mistero che mantiene sulla sua persona, risulta una delle persone più premurose che gli sia mai capitato di conoscere. Ha paura di aver invaso un angolo che lei aveva tenuto oscuro, quando ha visto quelle persone intorno a suo figlio, ma Joshua sa anche che non può farci niente. Vede i morti e non decide lui quando; loro arrivano e basta, non hanno biglietti da visita o segnali da inviargli prima di farlo.

   «Ah, non ti devi preoccupare. Robin è uno scettico. Non vuole crederci, a questa storia che io e altre persone possiamo vedere le anime dei defunti e parlare con loro. Evita l'argomento con me come se fosse la peste, ma a volte lo coinvolgo chiedendogli di fare delle ricerche per me. Non si è mai opposto ma non si è nemmeno mai mostrato davvero interessato a voler comprendere e crederci. Ho una teoria a riguardo, che non avrò mai modo di appurare finché non deciderà di aprire lui l'argomento.»

   «Una teoria?», domanda, rendendosi subito conto che, forse, quelli non sono affari suoi e che, per colpa della paura che ancora cova dentro, sta parlando a vanvera. 

  La signora Soria ride, e pare farlo con una certa nota amara, poi lo invita ad alzarsi e lui obbedisce.

   «Forse ha paura di acquisire il dono, un giorno, e di dover processare la cosa come ho fatto io in passato o come stai facendo tu ora, Joshua. Vieni», sorride, indicandogli la stanza che occupano quando si incontrano e, prima di prendere posto al tavolo rotondo, su una sedia accanto al camino, Joshua lancia un'occhiata alla porta, aspettandosi di veder rientrare il ragazzo da un momento all'altro, mentre quella parola, processare, gli rimbomba nel cervello. «Qualcosa non va?»

   Joshua la guarda. «No, pensavo semplicemente che, mia nonna, anche se non può vederli, ad un certo punto ha iniziato a credermi. Ha capito che non mentivo e mi sorprende che per suo figlio non sia lo stesso.»

   «Tua nonna è una persona adulta, abbastanza da capire cosa è reale e cosa non lo è. Robin anche ci crede, penso io, ma non vuole accettarlo perché è troppo complicato capire ciò che non può vedere. Come ti dicevo, penso abbia paura che un giorno tocchi anche a lui ma... come sappiamo bene, a quanto pare, con una dote del genere ci si nasce, o almeno credo. Questo è un mistero che tento di risolvere da una vita.»

   «Mi dispiace che non abbiate un dialogo, a proposito di questo. A volte serve essere capiti da chi abbiamo accanto.»

   «Un giorno, chissà, magari lo capirà. Ora», esordisce lei e sembra intenzionata a chiudere lì la faccenda che riguarda il figlio, quando gli fa cenno di sedersi, così lui obbedisce. «Hai fatto come ti ho detto? Hai tenuto il tuo diario?»

   «Sì», risponde, e si sente un po' stupido, mentre tira fuori quel quaderno dallo zaino e glielo cede, «Ho segnato ciò che potevo, ma temo di non ricordare tutto.»

   «Non importa, è normale dimenticare. È quello che hai sempre voluto, dopotutto: cancellare quei ricordi dalla memoria. La verità è che sono ancora lì, bisognerà solo scavare un po' più a fondo.» La signora Soria gli fa l'occhiolino. Joshua inclina la testa e la osserva silenzioso, mentre lei sfoglia le pagine con interesse, non dando mai l'idea di star leggendo una marea di fesserie. Lui incrocia le mani sul tavolo, in attesa, mentre un filo d'ansia gli si arrovella intorno al cuore. Il silenzio di quella casa un po' lo opprime, specie ora che ha avuto quella visione di cui non conosce l'origine. L'unico suono indistinto è quello delle lancette di un vecchio ed elegante orologio a pendolo posto in un angolo del salotto. Lo osserva e, per un attimo, gli pare di veder scorrere il tempo più lentamente, come poco fa, quando ha provato a comunicare con i morti, senza alcun risultato. Dopo gli incontri con quella donna si è sentito più sicuro, quasi certo di riuscire in quella impresa titanica e, fino a pochi minuti fa, gli è sembrata quasi più semplice da realizzare. Invece, quando si è trovato faccia a faccia con le sue paure, si è bloccato e non ha avuto quel coraggio che credeva di aver acquisito dopo quegli incontri. Si sente uno schifo. Deglutisce aria, poi lei sospira una mezza risata.

   «Hai avuto incontri interessanti. George sembrava simpatico.»

   «Da quel che ricordo, lo era. Anche se aveva l'aspetto di qualcuno che non ha esattamente vissuto una bella vita. Mi ha raccontato un sacco di cose sulla guerra, sulla fame, su come si arrangiavano, lui e la sua famiglia, mangiando lo stretto indispensabile. Una volta mi ha detto che a suo padre è saltato un dente per aver provato ad addentare del pane vecchio di settimane. Lo disse ridendo e risi anch'io, ma pensandoci ora è terrificante.»

 «Era sereno?»

   «Ci divertivamo. Sembrava estraneo a quello che gli era successo e non completamente consapevole di cosa lo avesse ucciso e, soprattutto, cosa aveva dovuto passare. Forse era troppo piccolo per capire. E lo ero anche io», spiega, e mentre dice quelle cose si rende conto di star analizzando in quell'esatto istante quell'esperienza con George. Qualcosa che, prima di allora, non ha mai fatto; non ne era in grado. Si sente di aver fatto un passo avanti.

   «E invece l'uomo impiccato?»

   «Un bel regalo di Natale, devo dire. Non c'è vigilia in cui io non mi ricordi di lui. Ha lasciato un segno indelebile nella mia testa.»

   «Qui dici che il terrore non era esattamente il sentimento che hai provato, in quel momento. Che intendi?»

   «Più che altro mi mise curiosità. Ero troppo piccolo per capire che un uomo attaccato ad una corda che pende è appena morto col collo spezzato. Immagino che, nel mio minuscolo mondo, volessi capire chi fosse e perché era lì, di fronte a me. Uno dei perché di quando si è bambini.»

   «Sai se quella casa ha avuto episodi spiacevoli come quello?»

   «Non ho indagato», ammette, umettandosi le labbra, sentendole improvvisamente secche.

   «Dovresti farlo», sentenzia la signora Soria, poi continua a sfogliare il diario e, ad un certo punto, lo chiude con quella delicatezza che le appartiene. Elegante in ogni sua mossa, sembra sempre in grado di fare e dire la cosa giusta. Forse per questo si trova di nuovo lì, anche se non è del tutto convinto di ciò che sta facendo. «Continua a scriverci sopra, ogni volta che ti verrà in mente qualcosa. È importante, anche se già da questo possiamo iniziare ad analizzare le tue visioni.»

   «Intende dire che vedo persone morte e non gente che chiede di essere salvata prima di morire?»

   «La cosa sembra risollevarti parecchio», sorride lei, rizzandosi sulla schiena.

   «Diciamo che, tra i due mali, preferirei non avere addosso quella responsabilità. Non posso salvarli tutti e, per come sono fatto, forse non potrei salvare nessuno. Non ne sono in grado.»

   «Chi ti dice che tu non debba comunque salvare qualcuno?»

   «Lo so. Mi conosco», ammette amaramente, poi abbassa la testa e sbuffa aria dal naso. «Senta, sto tenendo il diario come mi ha detto. Sto cercando di rimettere insieme i pezzi, ma la verità è che io non sono fatto per questo. Le persone si abituano alle proprie stranezze, ma la mia è una condanna e io non voglio scendere a patti con questa roba. Non mi piace. Voglio uscirne.»

   La signora Soria lo guarda inclinando la testa di lato, con quel fare materno che gli ha dedicato sin dal primo momento in cui si sono presentati. Ogni istante quella sensazione di parità si fa più forte, e Joshua in qualche modo sa che forse, la voglia di provare ad accettare quel destino, ce l'ha racchiusa da qualche parte nella coscienza. Sospira ed evita il contatto visivo per non specchiarsi nei suoi occhi e vedere i suoi demoni, ma anche per non lasciare che quella minuscola bugia lo smascheri.

   Ma la signora Soria ha già capito e lui lo sa. «Joshua, io voglio essere sincera con te. Non penso esista un modo per uscirne, per questo l'unica cosa che posso fare è insegnarti a rendere tutto questo parte della tua vita e accettarlo. Come ti ho raccontato la scorsa volta, io l'ho fatto solo dopo molto tempo. Ero una ragazza molto sola, che si è allontanata da tutto e tutti per paura di spaventare gli altri. Per paura di dover fingere di non vedere e vivere una vita fatta di bugie. Quando ho iniziato a capire che non sarei mai sfuggita al mio destino, ho combattuto. Se non potevo smettere di vederli, allora ci avrei parlato, decisi. Ed è stato graduale e inizialmente terrificante, finché non ho capito che chi muore e viene da me, mi somiglia. Queste persone hanno vissuto, hanno amato, hanno odiato, hanno sperato che la vita non li abbandonasse mai; sono solo andati via senza aver sistemato le cose. Non vogliono nient'altro da te. Solo una mano e, se non riesci ad essere d'aiuto, non ti tormenteranno. Ti ringrazieranno per averci almeno provato, però.»

   «Non è come deludere i vivi?»

   «No, loro non hanno più niente da perdere. Hanno solo la speranza che ripongono in altri. Cerca di vedere la cosa da una prospettiva diversa. Non vederli come una minaccia, ma come amici.»

   Amici. Non è semplice attribuire quell'aggettivo a degli spiriti che vagavano in un limbo dove sono rimasti prigionieri, ma se lei è riuscita a superare la paura iniziale e ricominciare a vivere, può provarci anche lui, no? Tanto vale tentare, se le cose rimarranno tali per sempre. Chissà, magari comincerà a vivere sul serio, se mai ci riuscirà.

   «Ci proverò. Se penso a George la cosa risulta quasi semplice, anche se al tempo ero troppo piccolo per capire chi fosse davvero.»

   «Non avevi paura. Non avevi coscienza della morte. Non sapevi che sarebbe dovuto toccare anche a te, prima o poi. Lui era nel tuo mondo, dunque era normale che fosse lì. Probabilmente, dovunque sia, ti sta ringraziando per avergli dedicato il tuo tempo.»

   Joshua si chiede, stranamente senza alcun terrore nel cuore, se davvero George è trapassato e lo ha fatto grazie alla sua vicinanza, al suo inconsapevole aiuto. Se così fosse, significa solo tornare a fare qualcosa che ha già fatto in passato; qualcosa che non è così nuovo come crede. Annuisce debolmente, poi Maria si alza in piedi, segno che la loro riunione si è conclusa. La imita, prendendo il diario e infilandolo nello zaino.

   «Continua a scriverci sopra. Poi, se ti capiterà l'occasione, prova a interagire con loro. Dopo oggi so che risulta ancora difficile ma... è l'unica strada possibile.»

   «Sì, ci proverò. Quando ci rivedremo?», chiede, speranzoso.

   «Quando vorrai e, la prossima volta, ti affiderò un compito. Una cosa semplice, ma solo se te la sentirai. Vediamo come va questa settimana.»

   Joshua alza un sopracciglio e, per qualche ragione, sente qualcosa pungere all'altezza del petto all'idea che gli voglia affidare un compito. Sa già che di mezzo ci saranno i fantasmi e non sa cosa pensare. Non sa se sarà mai pronto. «Cioè?»

   La donna sembra per nulla intenzionata a dire qualcosa ma, dopo aver sospirato, infine si decide. «Vorrei che aiutassi qualcuno che conosco a passare dall'altra parte.»

ՑՑՑ

   L'idea di accettare quella missione non lo alletta per niente ma, dentro di sé, Joshua sa di doverci provare. La signora Soria, Agnes, Fred e probabilmente i morti stessi, aspettano solo che faccia finalmente una mossa, sopra alla scacchiera di quella vita immobile, piatta, che si è costruito nel corso degli anni.

   Pensa alla paura che prova e al fatto che, fuori dal suo mondo e da quello della signora Soria, le persone normali vedono quella condizione come un handicap, esattamente come lo vede lui. Deve ammettere, poi, che le parole della donna a proposito del figlio lo hanno destabilizzato. Pur di non temere quel lato della vita, quel ragazzo finge di non credere alla dote della madre. Nasconde, sotto la sabbia, la possibilità che sia tutto vero. Esattamente come sta facendo lui, pur sapendo che non si tratta né di bugie e né di falsità.

   Sospira, mentre entra in casa, dopo quella giornata che pare essere durata un'eternità. Nonna Agnes dorme sul divano, mentre un quiz televisivo decreta la fine dell'episodio dando appuntamento agli spettatori al giorno seguente. Recupera il telecomando e, con un gesto distratto, spegne la TV, sbadigliando.

   Raggiunge la sua stanza. Pronto ad andare a dormire, decide di fare una doccia. Apre l'acqua e, in attesa che questa si scaldasse, si guarda allo specchio. È più bianco e cianotico del solito. Due occhiaie viola gli pesano sotto gli occhi, un regalo della nottata prima passata quasi insonne, perseguitato dai suoi incubi. Sospira contro il suo riflesso e si prepara a spogliarsi, ma si blocca quando le luci del bagno iniziano a spegnersi e accendersi, creando dei flash che lo stordiscono per qualche secondo. Alza istintivamente lo sguardo verso la lampadina e questa, quasi come se avesse sentito i suoi occhi addosso, smette di lampeggiare. Poi Joshua torna a guardarsi nello specchio e quasi cade a terra. Deve reggersi con tutta la forza che ha al margine del lavandino perché, di fronte a lui, nel riflesso che gli viene restituito, non c'è solo la sua immagine.

   Dietro di lui, sfocata, è comparsa una figura nera, senza occhi, naso e bocca, ma di cui Joshua avverte il respiro sulla pelle e ha un brivido. Si volta di scatto, e non trova nulla alle sue spalle. Solo la doccia che emana i vapori e annebbia la stanza come se fosse ricoperta di nebbia.

   La luce sfarfalla ancora e, quando Joshua si volta lentamente di nuovo verso lo specchio, vede ancora quella figura dietro di lui. La guarda a lungo, incapace di reagire e fare qualcosa e, come poco fa, si sente pietrificato e incapace di fare un solo, singolo passo. Di muoversi. Persino di respirare.

   Poi la luce si spegne e piomba il buio e il silenzio.

   L'unico suono udibile è quello di unghie affilate contro il vetro, che sembrano cercare la sua carne per lacerarla e lui spera che non lo trovino mai.

Fine Capitolo IV


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