Capitolo V

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Capitolo V


ՑՑՑ

         Un suono ovattato gli entra nel cervello. Sembrano tante e velocissime gocce d'acqua che si infrangono in un oceano di colore nero — l'unico colore che vede intorno a sé, quando si risveglia, e gli pare di aver dormito un'eternità. Allunga le braccia nel buio, ma non riesce a distenderle. I suoi polpastrelli toccano, improvvisamente, una superficie ruvida, come quella del legno rovinato di una vecchia porta. Gli pare quasi di sentire una scheggia entrargli sotto la pelle, così ritrae la mano e si stringe il polso con l'altra, d'istinto. Si volta di lato e, solo in quel momento, si rende conto che non si trova in piedi, ma disteso su un fianco, nel buio più totale, con la circolazione ai piedi che è quasi scomparsa. Da quanto tempo è in quella posizione? Da quanto dorme nel buio di un luogo che non sa riconoscere? Da quanto è intrappolato nel nulla?

   Con la sensazione di un chiodo infilato nella testa, la sua mente comincia a elaborare dati per tentare, anche solo marginalmente, di trovare una risposta a tutti i suoi quesiti e, tornando a rivivere, per un istante solo, ciò che è accaduto nel bagno poco fa – o, chissà, forse una vita fa, capisce di non poter adempiere a quella richiesta.

   Lo scenario è ancora confuso, ma è totalmente certo di ciò che ha visto nello specchio – riflesso dietro di lui ma che, quando poi si era voltato, non aveva trovato alle sue spalle: una figura nera, senza volto, con solo un'aura oscura che pulsava intorno alla sua silhouette; le dita affusolate e lunghe, scheletriche e appuntite, che si sono alzate verso la superficie dello specchio e lo graffiano, stridenti.

   Il ricordo di quel rumore gli provoca un brivido dietro la schiena; strinse gli occhi – sebbene sa che non ha alcun senso farlo nel buio più totale, allora si chiude nelle spalle. Si domanda se vi sia via d'uscita, da quella giornata che pare avergli riservato un posto d'onore davanti a degli scenari a cui non sa attribuire un significato e, per quanto sia ancora totalmente vittima del terrore che si porta dietro da villa Soria, non è agitato come poteva pensare. Forse sta imparando a controllare le sue fobie e i suoi fantasmi; o forse, chissà, è talmente annichilito dalla paura che nemmeno la sente più. Si chiede se questo sia un fattore positivo oppure no, ma non può restare lì per sempre e un leggero senso di claustrofobia lo coglie. Così alza le gambe, tentando di piegarle contro il petto, ma non ci riesce. Torna supino, fronteggiando di nuovo il nulla e tenta di allungare le braccia verso l'esterno, in alto, ma incontra un ostacolo. Quando abbassa le braccia avverte qualcosa di morbido sotto i polpastrelli e, spingendo di nuovo le mani davanti a sé, ha un tuffo al cuore quando realizza dove si trova e spera che sia solo un altro incubo.

   «No. No, no, no, no!», urla, cominciando a sbattere i pugni contro il legno grezzo e sente dolore alle mani, ma non importa, non ha importanza. Continua a battere i pugni, contro il coperchio di quella bara.

   La sua bara.

   Gli si mozza il respiro in gola, quando smette di provare ad aprire, senza successo,il coperchio. Si porta una mano al collo, tenta di abituarsi al buio ma non ci riesce. Stringe gli occhi; li apre e li richiude, se li sfrega, ma non cambia nulla. È ancora lì, prigioniero di uno spazio minuscolo, destinato a chi muore e non chi esiste ancora.

   Lui esiste? Joshua Foster è ancora parte di questa vita? O è morto di fronte a quello specchio, ucciso dal demone che lo abita?

   Se è davvero in una bara – ed è ancora vivo, non c'è la possibilità che un po' di luce possa filtrare da alcuna fessura e, peggio ancora, se si trova sottoterra – cosa che teme, non può sperare di poterne uscire vivo e che qualcuno lo senta urlare o sbattere i pugni per attirare l'attenzione. E poi, se riuscisse in qualche modo ad aprire il coperchio, metri di terra lo sommergerebbero e, a quel punto, morirebbe comunque soffocato.

   Cerca di calmarsi, di pensare. La prima idea che gli viene in mente è di tastarsi le tasche per cercare il cellulare e, quando lo percepisce, si concede un sospiro di sollievo che quasi gli restituisce tutti i battiti cardiaci che ha perso. Lo tira fuori e, quando lo accende, si rende conto che non c'è campo e che non può chiamare né la nonna, né Fred, né nessun altro, ma almeno può tentare di chiamare il numero di emergenza, sperando che la rete possa agganciarsi ad un operatore che ha più segnale del suo. È così che funziona, no? Lo ha visto in milioni di film.

   «Non ci proverei, se fossi in te.»

   Joshua si irrigidisce, quando la voce gli si insinua nella spina dorsale, risalendo lentamente, gelida come un cubetto di ghiaccio, fino alle sue orecchie e gli entra quasi dentro alla scatola cranica, bloccando il cervello. Non è venuta da nessuna parte, eppure sembra che sia contenuta in qualsiasi cosa. Nello spazio, nel tempo, nella carne. Come se l'universo stesso fosse fatto di quella voce.

   Come il mantra Om, il suono primordiale dell'universo.

   Rimane con il cellulare tra le mani; i pollici che tremano sullo schermo e il battito cardiaco sotto ai polpastrelli, ed è l'unico segnale che è ancora vivo, quel pulsare.

   «Non sei localizzabile. Non sei tracciabile in alcun modo. Sei isolato dal mondo, Joshua. Fossi in te risparmierei il fiato per sopravvivere ancora un po'.»

   «C-chi... sei?»

   «Tra tutte le domande che avresti potuto farmi, questa è di certo la più idiota. Tirami fuori di qui, non lasciarmi morire, salvami. Oppure, ancora meglio, sono morto? Chi mi ha messo qui dentro? Tutto questo è reale? A volte mi chiedo che razza di logica applichiate voi esseri umani.»

   «Dove sei?»

   «Altra domanda idiota.» La voce sospira. «E va bene», scandisce scocciata «Facciamo due chiacchiere, mentre ogni istante che passa sei più vicino alla morte. Sai quanta aria c'è in una bara sigillata? Circa cinquecento litri. Calcolando che stai respirando velocemente in preda a un attacco di panico, ti restano all'incirca sei minuti, prima di svenire e non risvegliarti più. Comodo, in effetti, il fatto che tu ti trovi già qui. Tua nonna risparmierà un sacco di fatica – e di soldi, per il funerale. Sei un nipote esemplare!»

   Joshua cerca di metabolizzare quelle parole, ma è in evidente stato di ipossia. Annaspa due boccate d'aria, tentare di trattenersi dal ricercarne di più, ma è difficile. Tanto quanto capire cosa gli stia succedendo e se tutta la situazione è reale oppure no.

   La voce è vicina, quasi come se gli stesse parlando direttamente nella testa, ma è anche al di fuori, gli entra nelle orecchie; è vellutata e non sa definire se appartiene ad un uomo o una donna. È rilassante, eppure priva di emozioni; crudele. Sa di bugie e di crudeltà, ma allo stesso tempo pensa al fatto che, una tale neutralità, la assocerebbe ad un angelo e non a un demone.

   «Sono in quella bara?», chiede, ansimando.

   «Mmh, in senso metaforico sì, ma non in senso materiale. Quella che hai visto era solo un'immagine, questa invece è reale. La puoi toccare e, soprattutto, c'è il vero te dentro. Non una stupida proiezione della mente data da ciò che tua nonna chiama dono!», esclama la voce, quasi sprezzante.

   «Non voglio m-morire», riesce a dire, disperato, e un peso sullo stomaco gli blocca il respiro; una puntura nel cuore lo fa inarcare sulla schiena. È l'unica cosa che riesce a dire. Non gli importa di nulla, né del dono, né dei morti, né delle visioni o del bisogno che ha di sbarazzarsene. Non gli interessa la paura di affrontare il domani, o di dover scegliere cosa fare della propria vita, non vuole morire e basta. È il suo unico desiderio, dal momento che, ora come ora, il futuro sembra più incerto di qualunque altra cosa.

   «Non morirai, sta' tranquillo. Non oggi, almeno. Mi serviva, però, che mi ascoltassi senza interrompermi o contraddirmi. Abbiamo ancora quattro minuti e ventotto secondi e vorrei arrivare al dunque, se non ti dispiace.»

   Joshua non ha esattamente idea di che cosa sta succedendo, ma è quasi un sollievo scoprire che forse, dopo quella chiacchierata, sarà libero. Non dice nulla, decide solo di annuire, tentando con tutto se stesso di concentrarsi, di non pensare troppo al respiro e quanto è difficile, ora, incanalare aria nei polmoni. Sembra intrappolato in una bolla di fumo e gli brucia la gola. Vorrebbe dell'acqua, ora, più di qualunque altra cosa.

   «Felice di vederti collaborativo», continua la voce, in tono soddisfatto, poi sospira. «La donna con cui ti vedi – la medium, la megera, la strega sensitiva... insomma, la tipa che ti sta aiutando, ha fatto qualcosa tempo fa. È riuscita in un'impresa che nessuno è mai riuscito a compiere e io, per ciò che sono, voglio sapere da lei come c'è riuscita. La parte divertente di questa storia è che lei ti manderà esattamente dove mi serve che tu vada e voglio che tu scopra per me il suo segreto. Se me lo dirai, io ti libererò da questo supplizio ma, fino a quel momento, scendi a patti col fatto che dovrai parlare con i morti e che, mio caro Joshua, è l'unico modo che hai per arrivare alla risposta che cerco.»

   «Di che segreto si tratta?», domanda, conscio del fatto che non ha tempo per altri quesiti.

   «Non ti è ancora dato sapere. Non capiresti. Non saprei come spiegarlo e, tre minuti e cinquantasette secondi sono troppo pochi per farlo. Sappi solo che io ti osserverò, Joshua. Ovunque tu andrai, io sarò lì con te, e saprò ogni cosa che farai, che guarderai e che penserai. Non ho alcuna intenzione di farti del male, ma devo tutelarmi. Non dirai niente alla donna, non lo dirai nemmeno a tua nonna, al tuo amichetto del cuore. A nessuno. È una cosa tra me e te. Una sorta di patto, se così vogliamo chiamarlo.»

   Pensare a ciò come un patto è un po' difficile visto che, nella condizione in cui si trova, Joshua non ha altra scelta che accettare. Rifletterà poi sul da farsi e analizzerà la conversazione una volta uscito da lì, ma fino a quel momento l'unica cosa che desiderava è potersi liberare e annaspare una vera e propria boccata d'ossigeno, perché inizia a sentire la gola stringersi e il cervello offuscarsi.

   Lo sa, è abbastanza lucido da aver capito che quella tattica ha proprio quella funzione: metterlo alle strette così che dica di sì, in ogni caso, pure gli chiedesse di distruggere il mondo intero.

   «Va' da lei, oggi. Accetta quell'incarico e poi ci rivedremo. Saprai ogni cosa, vedrai! Ah, cosa importante, non pensare a me come se fossi il cattivo, okay? Questa storia è più grande di te, e scendere alle conclusioni più disparate fa parte dell'animo ingenuo e codardo dell'essere umano, lo capisco, ma è un pregiudizio che ti pregherei di non fomentare», la voce sospira ancora, poi rimane in silenzio per qualche secondo. «Non sono io il cattivo, qui», ripete.

   «E allora... allora chi sei?»

   «Lo scoprirai. Fino a quel momento fa' come ti dico, o non uscirai vivo da questa bara, la prossima volta.» La voce, poi, è seguita da un rumore simile allo schiocco di dita e, quando Joshua quasi pare poter contare gli ultimi respiri che lo separavano dalla morte, apre gli occhi di scatto. 

   È nel suo letto, sotto le coperte, con Artax seduto accanto che lo sprona ad alzarsi a colpi di muso sotto al mento. Non sa definire se lo stia facendo per gioco o per mera preoccupazione, ma una cosa è certa: i primi trenta secondi dopo quel risveglio paiono quasi infiniti. Accarezza la testa del labrador, cercando di rassicurarlo, sforzandosi di sorridere. Artax gli lecca una guancia per poi scendere dal letto, lasciandolo solo.

   Joshua si ritrova a fissare il soffitto, ringraziando qualunque cosa l'abbia tirato fuori da lì di avergli dato la possibilità di rivedere la luce e, soprattutto, di respirare. Si posa una mano sul cuore, conscio di avere ancora in corso quell'attacco di panico che gli è venuto dentro la bara.

   Pensa per un istante di aver immaginato tutto, troppo suggestionato da quello che è successo il giorno prima a casa della signora Soria, con i morti apparsi dietro al figlio della donna, e che lo mettono in guardia su qualcosa. E se fosse quella, la cosa per cui lo stavano preparando? E se il monito fosse proprio verso l'incontro con quell'entità di cui non conosce altro che la voce?

   Non sa cosa pensare ma, dopotutto, l'unica cosa che sente di dover fare è di tornare da Maria e accettare quell'incarico e provare, in qualche modo, a farle capire che le cose, ora, sembrano aver preso una piega diversa. Che ha il coraggio di affrontare le sue paure, anche se ora, a dire il vero, stenta di nuovo a fidarsi ciecamente di qualcuno.

   Poi un altro pensiero attraversa la sua mente, e un brivido gli vibra nello stomaco, lasciando che una nuova sensazione lo inglobi totalmente. La voce gli ha promesso che, se porterà a termine quel compito, gli donerà la libertà da quella maledizione che lo perseguita sin da bambino. Se scoprisse il segreto di cui parlava, non vedrebbe mai le anime perdute dei morti e potrà condurre una vita normale. Un sogno. Il suo sogno più grande. L'unica cosa per cui vale la pena sforzarsi tanto di vivere: la libertà.

   Un lieve sorriso gli esplode sul viso, pregno di troppe emozioni diverse, tra cui la paura e il dolore. Solo che, stavolta, ve n'è uno che mai ha pensato di saper provare, ora come ora. Un sentimenti estraneo, diverso, quasi magnifico, eppure non del tutto assurdo.

   La speranza.

   Qualcosa che Joshua, in vita sua, non ha mai conosciuto prima.

Fine Capitolo V

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