Capitolo VI

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Capitolo VI

ՑՑՑ

                  Quando Joshua si risveglia, la mattina seguente, la sensazione che avverte addosso – e gli cade addosso come un mantello intriso di oscurità, è quella di aver dormito troppo e, al tempo stesso, di non aver dormito affatto. Alza la testa dal cuscino, portandosi immediatamente una mano alla nuca, quando avverte una fitta, chiaro segno che sta per scoppiargli una gran bella emicrania. Così si fa coraggio e, alzandosi di scatto, rabbrividendo quando i piedi scalzi toccano terra, gli scappa un accidenti verso il mondo intero.

   Si trascina come uno zombie verso la cucina. Sua nonna è seduta sul divano e sta guardando la sua solita puntata di This Morning e, con la coda dell'occhio, vede Philip e Holly interagire divertiti con lo chef italiano ormai ospite fisso del programma. Scuote la testa, arruffandosi i capelli con una mano e Agnes gli lancia un'occhiata, trasalendo, siccome non lo ha visto entrare in soggiorno.

   «Buongiorno. Hai un'aria sveglia», lo canzona.

   «Ho avuto una brutta nottata. Ne parliamo dopo la colazione, ti spiace?», biascica e lei, come sempre, gli fa l'occhiolino, perché sa quanto sia delicato al mattino. Joshua odia che qualcuno gli parli appena sveglio, e quella mattina, forse, più delle altre volte.

   Si prepara una tazza di latte, e scalda una baguette con la marmellata nel microonde poi, intontito, si siede accanto alla nonna, guardando anche lui il programma, distrattamente.

   Dà un morso alla sua colazione e poi reclina la testa all'indietro.

   «A cosa devo l'onore della tua presenza accanto al mio trono?»

   «È domenica mattina e ho un incontro con la signora Soria. Oggi proviamo ad andare un pochino avanti e... beh, mi sento strano.»

   «Forse ti senti diverso. Strano non è una parola un po' forte?», gli risponde lei e Joshua, lentamente, si volta a guardarla.

   Sospira. «Non lo so. Ho fatto un sogno assurdo, stanotte. Non dovrei preoccuparmi, è vero, perché dopotutto è solo un sogno, ma vedo i fantasmi, quindi...»

   «E quindi non è detto che non sia reale.»

   «Forse è solo paura. Non l'ho mai affrontata, questa cosa. L'ho sempre evitata come la peste, non l'ho raccontata a nessuno eccetto a te e Fred. Ora c'è lei e io non so davvero se devo fidarmi oppure no. Mi sta aiutando molto, non vuole niente in cambio, almeno per ora. E se non fosse la persona gentile che si è dimostrata? E se alla fine di tutto non fosse altro che una delle tante? E se fosse una truffa?»

   Agnes alza le sopracciglia, di fronte a quel fiume di parole che Joshua non è riuscito a trattenere e, squadrandolo da capo a piedi, sembra quasi giudicarlo.

   O almeno lui si sente così. Giudicato da chi, probabilmente, non lo ha mai fatto.

   «Lo stai facendo di nuovo.»

   «Cosa?», chiede lui, lapidario.

   «Stai di nuovo cercando di autosabotarti perché qualcosa sta andando per il verso giusto.»

   «Accidenti... no, nonna, non lo sto facendo! Concretamente non abbiamo fatto niente; non ancora. Mi darà un compito, così ha detto e non si tratta di scrivere su uno stupido diario o, che ne so, meditare prima di andare a dormire. Si tratta di interagire con uno di loro e io non sono pronto! Mi sento come se fossi... fuori di testa. Mi sembra di vivere in una ridicola simulazione dove qualcuno sta cercando di vedere fin dove può spingersi la mia mente sotto lo stress di questo supplizio. Perché proprio io?»

   Si sente strano; si sente in bilico. C'è qualcosa che gli preme dentro, proprio all'altezza dello stomaco, e che risale lentamente verso la gabbia toracica, mozzandogli il respiro in gola. Si posa una mano sul cuore, e abbassa gli occhi quando il silenzio della nonna pare quasi punitivo. Quasi come se volesse dargli il tempo di assimilare le sue stesse parole – le sue stesse stronzate. Poi però Agnes sospira di nuovo e gli prende una mano.

   «Joshua, io non lo so cosa ti aspetta. Non so cosa vedi, non so cosa hai sognato stanotte che ti ha agitato così ma, se posso essere sincera, sono felice di vedere che, finalmente, stai provando qualcosa. Sono mesi che ti vedo chiuso dentro una bolla di apatia e ora, dopo così tanto tempo, reagisci alla vita. Anche fosse solo la paura, so che qualcosa sta cambiando dentro di te. Spero che tu riesca a trovare le risposte alle tue domande, grazie a questa persona. Credimi quando ti dico che stavolta sei sulla buona strada.»

   «Sono felice se la vedi così in positivo, ma io non ci riesco. Mi dispiace molto spezzare la magia, ma la signora Soria vuole che io accetti il dono, io invece voglio sbarazzarmene. Andrò da lei, oggi. Continuerò questi incontri ma, voglio che tu lo sappia, nonna: non è lei che può darmi quello che cerco.»

   «E chi può?», chiede la nonna e Joshua, per un attimo, ha la sensazione che lei sappia esattamente cos'è successo quella notte, in quella bara, in quel sogno strano che ha fatto e che, ancora adesso, fa fatica a capire se è accaduto davvero oppure no.

   «Non lo so.» Si strofina le mani sul viso e poi sospira. «Mi dispiace, non volevo risultare così duro e pessimista, ma è davvero una situazione del cazzo», si lascia sfuggire, beccandosi un piccolo pugno sul braccio per aver osato dire una parolaccia. Quando si volta a guardarla però la trovò sorridente e, cercando di rimediare a quella lamentela senza esito, sorride anche lui.

   «Quando tuo padre diceva qualche volgarità, alla tua età, se la cavava con molto più che un semplice schiaffo. Siete proprio uguali, in questo», nota lei e Joshua si sforza di non vomitarle addosso tutto l'odio nei riguardi di quell'uomo. Vorrebbe rispondere: «Almeno io non ti ho abbandonata sparendo nel nulla», ma decide di lasciar stare. Si alza in piedi per raggiungere il bagno e darsi una lavata, così poi potrà incamminare verso casa Soria e scoprire, alla fine, il compito che Maria gli vuole assegnare.

   Apre la porta e accende distrattamente la luce. Questa sfarfalla per un attimo, di nuovo, proprio come è successo quella notte ma, subito dopo, rimane fissa accesa e in qualche modo questo lo rassicura. Gira il rubinetto dell'acqua calda e si sciacqua la faccia;, quando alza il viso dal lavandino e si trova faccia a faccia con la sua immagine, si pietrifica.

   Dietro la sua sagoma riflessa, c'è ancora quella figura nera sfocata senza occhi. Avverte il suo respiro sul collo, come è successo la sera prima e, istintivamente, stringe le mani ai bordi del lavandino.

   Il respiro gli muore in gola e, tremando, si volta, non trovando nessuno alle sue spalle – di nuovo. Eppure, quando torna a guardarsi allo specchio, la figura è lì, immobile e, il suo riflesso, quasi distorto.

   Abbassa lo sguardo, intenzionato a non incontrare più quell'immagine.

   «Ovunque tu andrai, io sarò lì con te, e saprò ogni cosa che farai, che guarderai e che penserai.»

   Ripensa alle parole che la voce gli ha sputato addosso mentre era in quella bara e capisce. Capisce che quell'entità non ha mentito, che si trova lì, con lui e che forse, attraverso lo specchio, può seguire ogni sua mossa, in ogni momento, in ogni luogo.

   «Non è reale.»

   Tenta di convincersi che, come ogni visione, quello che ha davanti non è vero, che fa tutto parte di una distorsione del suo immaginario interno, dato da chissà quale trauma o disturbo ma, lo sa bene, che non è così. Solo... gli serve raccontarsi quella bugia che è tutto frutto della sua immaginazione. È l'unico modo per non impazzire davvero.

   Così, se già la giornata non è iniziata al meglio, Joshua si ritrova a crollare pian piano sotto al peso dei propri pensieri. Recupera un paio di jeans dall'armadio e una camicia a quadretti rossi e neri. Infila un paio di Converse rosse ai piedi e tenta di sistemarsi i capelli, evitando di incrociare il suo sguardo con lo specchio.

   Con la paura nel profondo che quell'entità possa tirarlo a sé e intrappolarlo al suo interno. Ma lo sa – oh, se lo sa – i suoi intenti sono tutt'altro che quelli.

   Prende il suo zaino dalla sedia accanto alla scrivania e, dando un bacio veloce alla nonna – evitando le sue domande scomode sul perché si sia incupito così – esce di casa e si appresta a prendere la metropolitana di Deptford Bridge, verso la fermata di scambio a Bank – la linea rossa.

   Evita di prendere la macchina anche quel giorno, sebbene il tragitto da casa sua a quella della signora Soria sia decisamente più lungo affrontato con i mezzi, ma non se la sente di prendersi la responsabilità di quella guida, specie dopo la visione e ora, non meno importante, con la paura che potrebbe vedere qualcosa nello specchietto retrovisore.

   Si chiude nelle spalle, quando raggiunge la banchina, troppo preso dai suoi pensieri per far caso al vento che si è appena alzato, siccome il vagone sta arrivando. Quando gli è di fronte, gli sembra di risvegliarsi da un sogno e, prima che il varco possa aprirsi, alza lo sguardo verso l'abitacolo. Dietro al riflesso sopra al vetro delle porte scorrevoli, lo vede di nuovo.

   Indietreggia, impaurito, andando a sbattere contro una signora a cui pesta i piedi e che protesta biascicando via qualche parola sgarbata a proposito della sua educazione.

   «Scusi... scusi, io...», cerca di dire, ma la donna lo supera, accigliata, entrando nel vagone prima di lui.

   Joshua rimase fermo a guardare le porte ancora aperte, spaesato e con un senso di solitudine dentro che quasi lo logora ad ogni respiro.

   Entra, infine, quando il suono che annuncia la partenza del treno gli ferisce le orecchie e, evitando di guardare ancora le superfici riflettenti del treno, si regge stretto ad un tubo e non alza mai lo sguardo.

   Ha troppa paura di cadere di nuovo in quell'incubo.

ՑՑՑ

   Quando è sceso dalla metropolitana e ha raggiunto la strada, Joshua si è reso conto che il cielo ha iniziato a coprirsi di nuvole nere e, quando arriva davanti la villa della signora Soria, fa appena in tempo a bussare e farsi aprire, perché poco dopo comincia a piovere. Come sempre la pioggia londinese coglieva di sorpresa anche chi viveva lì da sempre, compreso lui. La pioggia, poi, non gli è mai piaciuta particolarmente. Nemmeno in quei frangenti dove è chiuso in casa e può rilassarsi col suono picchiettante contro i vetri. Forse perché, quando era piccolo e la notte i temporali colpivano i suoi tentativi di addormentarsi, implorava Dio che sua madre potesse arrivare da un momento all'altro ad abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene ma, sebbene il suo fosse un desiderio forte, non era mai avvenuto.

   Non se la ricorda nemmeno, non l'ha mai vista. Non sa nemmeno com'era fatta e, ogni volta che ha chiesto alla nonna che aspetto avesse, lei sembra all'oscuro almeno quanto lui.

   «Sono troppo vecchia per ricordare.» Questa è la scusa che gli ha sempre rifilato ma Joshua, dentro di sé, sa che c'è altro dietro a quel mistero e che, con molta probabilità, Agnes non l'ha nemmeno mai conosciuta, sua madre. Ci sono foto di suo padre ovunque, in casa, ma si fermano a un'età compresa tra i venticinque e i trent'anni, non vanno mai oltre. Non esistono foto dove lo tiene in braccio da bambino, o che gli diano la speranza di aver avuto anche solo un minuto di infanzia vissuta con i suoi genitori. Sono due fantasmi e, per quanto sappia che sua madre è morta dandolo alla luce, e che di suo padre non vi è più traccia – per quanto lo riguardava, comunque, non è nemmeno interessato a conoscere che razza di sorti gli siano spettate, dopo che ha abbandonato sia un figlio che la propria madre. E Agnes, ogni volta, lo difende a spada tratta, ricordandogli che, dopotutto, si tratta pur sempre di suo padre.

   «Joshua?»

   Si risveglia quasi da un sogno, quando la signora Soria lo chiama, con un sorriso un po' preoccupato che tenta, a suo modo, di riportarlo alla realtà. Dolores chiude la porta e quel suono, così improvviso, lo fa sussultare. Una goccia d'acqua gli cola dai capelli – alla fine, un po' di pioggia, alla fine l'ha beccata –, sulla punta del naso ed è grato di aver fatto appena in tempo ad entrare in casa.

   «Salve. Mi scusi, la pioggia mi ha preso alla sprovvista», cerca di sorridere, e lei pare rincuorata.

   «Scusa tu, avevi la stessa espressione assorta dell'altra volta. Pensavo avessi visto qualcosa.»

   Joshua ci pensa su e, immediatamente, lo sguardo va a posarsi sul pianoforte posto al centro della stanza dove, però, stavolta non c'è il suo musicista ad occupare lo sgabello. E nemmeno i morti. È sollevato che, almeno loro, abbiano deciso di lasciarlo in pace, almeno quel giorno.

   Segue la signora Soria verso la solita stanza che usano per i loro incontri e, quando la donna gli fa cenno di sedersi, lui obbedisce automaticamente, un po' agitato all'idea che, oggi, dovrà trovare il coraggio che gli è sempre mancato di affrontare il suo dono.

   Maria si siede di fronte a lui, incrociando le dita tra loro sopra al tavolino; sorride quasi raggiante.

   «Voglio essere sincera con te: ho dubitato che venissi. Ho pensato che la mia richiesta dell'altra volta ti avesse spaventato e che non ti saresti presentato. Invece eccoti qui. Sono molto fiera di questa tua decisione. È un grande passo!»

   Joshua vorrebbe dirle che no, in verità ha pensato di non presentarsi affatto a quell'incontro ma, dopo quello che è successo la sera prima, quando si è trovato chiuso in quella bara, l'idea di declinare quell'invito sembrava più pericolosa che accettarlo. Non è ancora certo di quello che è successo e della richiesta dell'entità ma, visto il nuovo approccio inquietante con gli specchi, preferisce tutelarsi. Dentro di sé, sperava che le parole della voce nel sogno possano rivelarsi veritiere.

   Sanno di libertà, anche se ha paura.

   «Io ti libererò da questo supplizio ma, fino a quel momento, scendi a patti col fatto che dovrai parlare con i morti.» Gli ha detto e, sebbene sia difficile fidarsi, è uscito vivo da quella bara. E questo, per Joshua, è un motivo per fidarsi.

   «La ringrazio», mormora, abbassando lo sguardo, poi tossisce. «Qual è il piano?»

   «Qualche anno fa ho avuto la fortuna di conoscere qualcuno. Una persona che lavora – lavorava in una biblioteca molto piccola fuori dalla stazione di King's Cross. Una persona che è venuta a mancare in circostanze un po' particolari e che, ora, per qualche ragione è legata al nostro mondo e non riesce ad andare oltre. Non ha molti ricordi di sé e del suo passato; solo un nome e il suo lavoro ma la mia richiesta è quella che tu possa trovare il coraggio di parlarci e riuscire nell'intento in cui io ho fallito.»

   «Perché pensa che io possa riuscirci?»

   «Non lo so se ci riuscirai. Non ne sono certa, magari fallirai ma... mettiamola così: a differenza di ciò che tu possa pensare, questa persona è la cosa più lontana da quella che definiresti uno spirito. Ti assicuro che non dovrai temere né il suo aspetto, né i suoi modi. Cercherai di aiutarla e non dovrai riuscirci per forza ma, secondo me, è un buon modo per iniziare a scendere a patti col tuo destino e le tue capacità. Un approccio, come dire, semplice.»

   Joshua la osserva fargli l'occhiolino con un certo scetticismo e, cercando una verità che quasi sicuramente lei non ha omesso, la guarda negli occhi. Distoglie subito lo sguardo, però, quando vede il proprio riflesso – e quello dell'entità oscura – dentro di essi. Scuote la testa.

   «D'accordo, mi dica cosa devo fare e dove devo andare. Cosa devo dire... insomma, qualche indicazione.»

   «Questo è l'indirizzo della biblioteca.» La signora Soria tira fuori un foglietto e lo mette sul tavolo, stirandolo con una mano curata e piena di bracciali. «Questo invece è il nome della persona che dovrai incontrare. Ti basterà chiamarla e si girerà, te lo garantisco. Non esiste molta gente in grado di vederla e lei, comunque, non è abituata a sentirsi chiamare. Probabilmente girerà per gli scaffali tentando di sistemare i libri, come ha sempre fatto.»

   «Non... non è cosciente di essere morta?»

   «Sì, solo che non ricorda come. Quindi per lei è come se non fosse mai successo», risponde la signora Soria, con un sorriso mesto, che racchiude al suo interno il calore affettuoso di una madre. «Ovviamente andrai quando ti sentirai di farlo. Se cambierai idea basterà che tu me lo dica e agiremo in altri modi. In ogni caso non sei solo, Joshua. Sono qui per guidarti.»

   «La ringrazio», mormora, poi apre di nuovo la bocca, per un attimo intenzionato a dirle di quello strano sogno nella bara e del riflesso negli specchi che, ora, sembra quasi una persecuzione. Decide, però, di non dire nulla. Così risponde a quel sorriso e si alza in piedi.

   «Perché lei non è riuscita a darle i mezzi per andarsene da qui?»

   La signora Soria, che sta sistemando la sedia sotto al tavolo, ferma quell'azione di fronte a quella domanda e, tenendo lo sguardo basso per un attimo, rimane muta.

   Poi sospira e evita il suo sguardo. «A volte ci vuole la persona giusta per smuovere le acque e io, a quanto pare, non ero una di queste», risponde e a Joshua, stavolta, dà l'idea di aver voluto tagliare corto. Si morde il labbro inferiore, trattenendo altre domande. Stringe il foglietto tra le mani e lo infila in tasca.

   Raggiunge la porta, si danno appuntamento alla settimana dopo e poi esce. Sfila l'ombrello dallo zaino e lo apre immediatamente, rimanendo per un attimo davanti al cancelletto di entrata della villa. Tira fuori il foglio e lo legge in un mormorio.

   «Biblioteca Cat & Mouse. Janine

   Janine. È quello il nome del fantasma a cui dovrà salvare la vita? Un nome strano, per niente inglese.

   Non fa in tempo a chiedersi se il nome abbia, magari, origini francesi che, alzando lo sguardo, si ritrova di fronte ad un ombrello nero e una persona nascosta dietro di esso. Sussulta stringendo forte il foglietto tra le dita e accartocciandolo.

   Poi lo sconosciuto di fronte a sé alza l'ombrello e rivela un volto familiare.

   È Robin, il figlio della signora Soria.

   Ha i capelli neri tirati tutti all'indietro con la gelatina; un giubbotto nero di pelle con delle toppe di alcune rock band famose e, a quanto pare, un uniforme scolastica che Joshua vede indossare spesso agli universitari figli di famiglie ricche.

   «Joshua, giusto?», chiede Robin, rivelando una voce molto più morbida di quella che ha immaginato.

   Annuisce lentamente. «Sì, e tu sei Robin, no?»

   «Esatto», annuisce, poi distoglie lo sguardo, sospirando come se avesse appena fatto uno sforzo enorme. «Mia madre deve averti dato quell'incarico, eh? Si vede dalla faccia che hai messo su.»

  Joshua alza le sopracciglia, stupito.  «Tu sai dell'incarico?»

   Robin lo squadra da capo a piedi, poi arricci il naso.

   «Andiamo a prenderci una birra, ti va?»

Fine Capitolo VI


[Questo capitolo partecipa all'iniziativa indetta da Lande di Fandom "Maritombola 12" con il prompt: «Andiamo a prenderci una birra»]


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