Capitolo 3 (seconda parte)

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

"Avete visto? Ufficialità di Ethan Carson, che colpo!" scrive Gigi, uno dei ragazzi del fanclub sulla nostra chat di gruppo.

"E chi mandiamo via? Tomic figlio?" chiede Bruno.

"Credo Mike, l'anno scorso ha fatto schifo."

No. Tutto, ma Mike via dalla Vulnus no. Non potrei accettarlo, sarebbe una botta emotiva da cui non potrei riprendermi. Ma sarà più forte di quella che sto per avere?

Scendo dall'autobus con il cuore in gola. Sono arrivata con una mezz'ora di anticipo e non ho la minima idea di come occupare il tempo, visto che il tragitto fino all'Oasi del Palato dura circa dieci minuti. Almeno, stando a Google Maps.

Procedo lentamente, un po' per non sudare, un po' per non farmi prendere dallo sconforto. Se Mike va via dalla Vulnus, che senso ha tutto questo? Perché dovrei sperare di essere presa in questo locale, che potrebbe frequentare, se poi invece venisse mandato via? Davvero lo sto facendo solo per lui? Mi sono proposta per lui?

Traggo un profondo respiro. No, l'ho fatto per me.

Quando ho visto Oreste Faggi e la sua testa calva all'Osteria, mi sono buttata per cogliere un'occasione che non sarebbe più ricapitata. Dicono che la sorte aiuta gli audaci e io sento di essere stata più audace quella sera che in tutta la mia vita. Un piccolo aiuto dall'alto non sarebbe male, non ora che vorrei sparire nel marciapiede sotto di me per evitare figuracce.

Non ho neanche ripassato i brani che mi sono portata. Sono soprattutto grandi classici, Mozart, Vivaldi, Beethoven e compagnia. Una parte importante del mio inconscio non vuole crearmi troppe aspettative e mi ha sabotata impedendo al resto di me di razionalizzare le emozioni e di fare almeno un po' di pratica. Voglio che questo incontro vada bene, eppure ne ho una paura atroce, che mi dilania dentro.

Farei a cambio: vorrei non essere presa qui, ma che Mike rimanesse alla Vulnus. Non lo incontrerò mai e non avrò mai il coraggio per cercare di avvicinarlo dopo gli allenamenti o durante gli incontri con i tifosi, ma sarebbe qui, nella mia squadra. È possibile?

Supero gli ultimi pini del viale alberato e rimango a bocca aperta davanti all'Oasi del Palato. È un edificio bianco a più piani, squadrato e che scintilla alla luce del mattino. L'ingresso è preceduto da una scalinata in marmo, a cui mi approccio con un timore reverenziale. Avevo visto con Cornelia le immagini dell'esterno, ma non rendono come dal vivo l'idea di essere talmente piccoli in un luogo talmente gigantesco. Sono una formica e questo è un locale di lusso.

Arrivo in cima con il fiatone e spio oltre le vetrate che mi separano dall'interno. Distinguo solo dei pouf ornamentali e un bancone in marmo chiaro dietro cui un uomo slanciato è in piedi in attesa che qualcuno gli rivolga la parola.

Su, Lav, non ti mangia. Ormai sei arrivata fin qui, non puoi tornare indietro.

Supero la porta a vetri e mi dirigo verso il banconista, che mi rivolge un'occhiata accigliata, sorpreso di trovarmi qui.

Guardo l'ora sull'orologio alle sue spalle. Sono in anticipo di dieci minuti.

«Ho un appuntamento con il signor Faggi» dico tutto d'un fiato.

«Provini da pianista?» mi chiede quello, atono. La sorpresa gli è passata in fretta.

«Sì.»

«Puoi attenderlo ai tavolini del piano terra, presto arriverà qualcuno a chiamarti.»

Ho superato il primo step.

Seguo le sue indicazioni e mi ritrovo nella sala da pranzo, priva di clienti, in cui diversi camerieri si affrettano da una parte all'altra, alcuni caricando casse di cibo, altri spazzando il pavimento o impilando le sedie per pulire.

Tutto è bianco, di un candore innaturale. Solo i rifinimenti in ferro battuto dei tavolini e delle sedie sono in nero, creando un armonioso contrasto. Il pavimento, come la scalinata e il bancone all'entrata, è anch'esso in marmo chiaro, illuminato dai raggi del sole che trapassano le vetrate e che inondano l'ambiente di un bagno in oro e cielo.

Sembra un luogo uscito da qualche libro di fantasia.

«Lavinia Riccio» Mi chiama una voce alle spalle. Oreste Faggi è in compagnia di un uomo alto e smilzo, con una calvizie incipiente che gli sparecchia la fronte. Lo sconosciuto ha un'aria severa e mi scruta con il cipiglio di chi non attende altro che trovare un mio difetto.

«Sono io.»

«Lui è Romeo Roggero, il manager dell'Oasi. La attendevamo tra pochi minuti.»

È strano sentirsi dare del lei da un uomo che potrebbe essere mio padre.

«Mi spiace, temevo di fare tardi.»

«La puntualità è un valore» dice il manager con voce profonda. Il volto è ancora neutro, nonostante il suo fosse un complimento – o almeno spero che lo fosse.

I due mi fanno sedere a un tavolo intorno cui le sedie sono ancora a terra e non impilate per le pulizie.

«Ha seguito dei corsi di pianoforte?» mi chiede Roggero.

«Sì.» Estraggo dalla borsa gli attestati che dimostrano di aver frequentato per anni le scuole di musica più importanti di Villafiore. Grazie, nonno.

Li passa in rassegna e me li restituisce, sotto lo sguardo attento di Faggi. «Niente Conservatorio. Come mai?»

«Ho appena terminato il liceo» semplifico. «La situazione a casa non mi permette di iscrivermici, ma sto lavorando per poterlo fare. Prima o poi riuscirò ad andarci» affermo, sicura di me. Se c'è qualcosa di cui sono certa è di avere talento e di avere abbastanza dedizione per migliorare giorno per giorno. E la giusta testardaggine per inseguire i miei sogni.

«Glielo auguriamo» dice Faggi. «Vuole farci sentire qualcosa?»

«Certo.» Dalla borsa prendo il mio quaderno con gli spartiti e mi volto a guardare il pianoforte, l'unico elemento scuro di tutto il salone. È diverso rispetto a quello che avevo visto nelle foto su Instagram, forse l'avranno cambiato. «Voi, ehm... avete delle richieste particolari?»

«Si senta libera» mi risponde il proprietario dell'Oasi.

Mi alzo dal tavolo e mi avvicino allo strumento. Noto subito la marca, Bechstein, tra le più prestigiose e antiche al mondo. Ho sempre desiderato poter toccare i tasti di una delle loro creazioni e ora ho il batticuore accelerato, non riesco a pensare che dai prossimi minuti potrebbe dipendere la mia vita.

Mi siedo, e sistemo lo spartito davanti a me. Inizio con un Notturno di Chopin, in cui infondo tutto il sentimento che ho da metterci. E il mio sentimento, oggi in particolare, mi porta a Mike

No, non andrà via dalla Vulnus. Non dovrà stare in panchina per tutta la stagione a guardare gli altri. Ci sarà un modo per far stare in campo sia lui, sia Tomic e Carson. Ne sono certa, voglio essere fiduciosa. Devo esserlo.

La malinconia esce dalle mie dita e si trasforma in note musicali, in accordi che cercano spasmodici di riportare quiete nel mio animo, tanto che mi lascio trascinare e chiudo gli occhi, abbandonata a questa melodia che conosco tanto bene da non avere bisogno di leggerla sullo spartito.

Riprendo contatto con il mondo circostante solo quando sono arrivata alla fine, per voltare pagina e dedicarmi a una sonata per pianoforte ti Tchaikovsky. Infine, suono la banale e scontata "Per Elisa" di Beethoven, che per me ha il significato importante di ricondurmi con la mente a quando ero più piccola e mio nonno voleva ascoltarla dalle mie dita.

«Se volevamo della musica da ascensore, prendevamo una registrazione già pronta» borbotta il manager, distante da me ma non abbastanza perché non possa udirlo.

Il proprietario, però, gli intima di fare silenzio. Si appoggia al pianoforte ad ascoltarmi, lo scorgo con la coda dell'occhio mentre sono concentrata sui tasti.

Batto le ultime note con il cuore in gola.

«Può suonare con uno spartito che le diamo noi?» mi chiede Faggi.

«Certo» rispondo, ma me ne pento subito. E se fosse troppo difficile? E se non riuscissi a seguire tutto bene e fossi presa dall'ansia da prestazione?

Il manager mi passa dei fogli di spartito da tenere sul leggio del pianoforte. Li scorro al volo e controllo alla svelta se gli accordi e le sequenze dei tasti non sono troppo difficoltosi per me.

Non riconosco la melodia, neanche tra quelle studiate alla scuola di musica che ho frequentato per tutti gli anni delle superiori. Tuttavia, credo di poterne essere all'altezza. Mi pizzico entrambi gli indici, poi sistemo le dita e inizio a suonare. Non stacco lo sguardo dal pentagramma davanti a me: ho la percezione costante dei tasti che sfioro e di quanto e come debba toccarli, ma le note sono del tutto nuove e non posso permettermi errori.

Mi sento come quegli hacker dei film, che battono dei tasti al computer senza guardare la tastiera eppure tutto va come previsto. Sto hackerando questa melodia, sto portando a termine una prova a cui non mi ero preparata.

A ogni nuovo accordo, il cuore fa una capriola nel petto. Mi accorgo di aver saltato un paio di tasti, ma nessuno dice niente. Neanche il manager fa dei commenti a proposito.

Sono tesa, una corda di violino alla prima sera di un concerto di fronte a un pubblico di severi critici musicali.

Appena termino di suonare, non oso alzare lo sguardo. Non sono stata perfetta, sarei potuta andare meglio. A volte ho rallentato il ritmo per non perdere alcune note, altre volte ho corso un po' troppo, e a loro non è sfuggito.

«Ci conceda un momento» dice Oreste Faggi. Il suono dei suoi passi rimbomba nel salone, accompagnati da quelli di Romeo Roggero. Confabulano in lontananza: a me arriva solo il ronzio delle loro voci.

Il cuore mi rimane in gola per un tempo interminabile. Mi volto appena per cercare i due, almeno per capire dalla loro mimica se ho fatto loro una buona o cattiva impressione.

«Spero che ti prendano.» Una voce femminile alla mia sinistra mi sorprende. «Non mi piacciono gli altri tipi che si sono presentati nei giorni scorsi.»

Una ragazza bionda, con indosso dei semplici jeans e una maglietta color pastello azzurro si è accostata al pianoforte, dal lato a cui davo le spalle. Avrà pochi anni più di me, non mi sembra che arrivi ai trenta, forse ne avrà venticinque.

«Non sei così male» continua a dire, con un'espressione neutra sul viso dai lineamenti delicati. Anche le sopracciglia sono chiare, il suo biondo dev'essere naturale.

Rimango in silenzio, con il cuore che continua a ballare la samba, invece di calmarsi.

Il manager e il proprietario smettono di discutere nel loro angolo, ritornano qui e salutano la ragazza, chiamandola "Nelly". Poi si concentrano di nuovo su di me.

«Possiamo concederle due sere di prova» dice Faggi. «Ma deve portare dei brani più variegati. Abbiamo una lista su cui lavorare, gliela manderemo via messaggio.»

Una settimana di prova.

Non è un sì, ma nemmeno un no.

Non è un no.

«V-va bene» mormoro, esitante. «Quando dovrò venire?»

Il manager controlla su un tablet, forse con i turni di altri musicisti. «Ci sono rimasti scoperti solo il lunedì e il giovedì della prossima settimana. Se saremo ancora indecisi le chiederemo altre serate di prova. Venga qui alle cinque del pomeriggio. E indossi un abito da sera.»

Giovedì prossimo.

No, la partita... mi perderò la partita della Vulnus, a cui avevo detto che sarei andata.

Ma cosa dovrei fare? Rinunciare alla possibilità di suonare in un locale del genere per un'amichevole?

«Lunedì e giovedì. Ci sarò.»

Spazio autrice
Lavinia se l'è cavata? Che vi è parso del nuovo posto dove lavorerà? E dei nuovi personaggi?

Quanto è dolce che abbia suonato pensando a Mike? Io la trovo tenerissima <3

Più in avanti avrà altri momenti in cui si vedrà ancora di più quanto è carina e delicata... soprattutto quando incontrerà Mike ;)

Baci a tutti e grazie per aver letto,
Snowtulip.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro