La maledizione di Scimmionide

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Giudici: JSElordi cabynch BelMa-Pattinson Sara_commenta moonlight920

Genere: Nonsense, Dark Fantasy

Target: 12-18 anni

Tema: Tempo

Parole: 2509

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Quanto una scimmiota può avere paura in una banalissima situazione, in cui si rende conto che i propri scemitori hanno organizzato un matrinato? Una scimmiota di Scimmionide, città delle scimmie per eccellenza, può fuggire da questa unione?

Scia, era la figlia di Sciamen e Sciumen, due scemitori amorevoli, finché non venne loro l'idea di unire la loro sciamiglia con quella di Scio, una delle sciamiglie più potenti di Scimmionide, paese di antiche origini, nel quale regnava sovrano un buio incessante, per spezzare una maledizione.

Scimmionide era sotto una sorta di maledizione, fatta da Vampega, una strega-vampira di milcentinai di anni, che, invidiosa dell'amore che aleggiava truecento anni orsono, trasformò tutti i suoi abitanti in scimmioti, inculcando in loro la costante paura di non sapere amare, di non essere abbastanza e abbattendo su di essi la maledizione che poteva essere spezzata solo dal vero amore.

Una maledizione che a Scimmionide Vampega aveva saputo ben lanciare. Il tempo tempestato giocava un ruolo importantentale: se l'erede degli Scimen non sarebbe riuscita ad infatuanarsi dell'erede degli Scemen, la città sarebbe stata distrutta e Scimmionide non sarebbe esistita più.

Per Scia il tempo era un concetto concettoso, troppo ampioso per poterlo spiegare a parole parlate, ma il suo migliore amico Sci, le aveva confidato che, ogni casa situata sul territorio di Scimmionide, aveva una clessiglia che era stata messa testa in giù e piccole pietrisme scendevano lente lentette, ad indicare il tempo tempestrato, che scorreva più velocentissimo del solito, portando avanti le lancette degli orologismi di ben quattro numeri, prima che la sua Scimmionide venisse incendiata e rasa al suolo.

«Quando ti decidi ad incontrare Scio?» Sci aveva una parlata parlantata, non sapeva mai quando farsi gli affarismi propri. Lui sapeva che Scia aveva una paura pauresima dell'amore e lui la voleva buttare costantemente tra le braccia bracciose di uno scimmiota che neanche conosceva.

«Io non sono sicura di essere all'altezza della situazione situata», constatò ovvia, mentre quella maledetta clessiglia aveva buttato giù un'altra pietrisma.

«Sei la nostra unica speranza sperata, Scia. Moriresmo tutti, me lo sentismo», controbatté Sci impaurito.

Scia era sempre stata una ragazzerima forte e diversisma. L'amore l'aveva sempre odiato, fin da quando ne aveva una memoria memorata, per paura di essere abbandonata. Scia pensava che se si fosse affezionata a qualcuno, quest'ultimo prima o poi l'avrebbe abbandonata ad un abbandono totale e lei si sarebbe trovata più sola che mai.

Quando nella loro compagnia infatti usciva fuori l'argomento "amore", Scia si allontanava costantemente, poiché il suo cuore rischiava ogni volta di uscirle dal petto, tanto che un timore timoroso le attanagliava il petto come una bomba inesplosa che voleva esplodere.

In più, Scimmionide non aveva mai visto la luce del sole, e questo la spaventava in un modo spaventosamente spaventissimo. Difatti, Scimmionide era un paese sempre cupo e tetro: il cielo presentava costantemente un colore rosso accesso misto al nero pece, e le mura erano fatte da una sostanzosa sostanza verde e viscidosa, che rischiava di attaccarsi addosso, portando gli scimmionidi a morire dissanguatissimi. Anche se Scia non poteva permettersi né che la sua Scimmionide scomparisse per sempre con i suoi abitanti, né che quelle mura potessero in qualche modo creare disagi disagiati negli scimmioti, la paura che provava per questo matrinato era tanta. E se Scia non fosse piaciuta a Scio? E se Scio, dopo aver conosciuto Scia, si sarebbe pentito di un pentimento annunciato?

«Lui è qui fuori. Dagli almeno la possibilità possibilitosa di farsi conoscere». Sci quando ci si metteva era un vero rompicocomeri, ma Scia gli voleva benismo; così, per la prima volta, lo ascoltò e accolse in modo accogliente Scio nella sua camera.

Scia si accorse che Scio era piu imbarazzerimo di lei; così, seppur un po' titubante, si avvicinò per guardarlo meglio.

«So che tu provi una difficile difficoltà, ma devo dirti che io mi sono innamorato di te e farò in modo modesto che anche tu possa innamorarti di me. Dammi una possibilità possibilitata».

«Innamorato? Ma neanche ci conosciamo!» esclamò Scia impaurita. Era una situazione quella, in cui voleva solo scappare. Scio da quando osservava le osservazioni su di lei? Come aveva fatto Scia a non accorgersene?

Se lo guardava però gli sembrava uno scimmiota niente male: il corpo a forma di scimmia, gli occhi felini, le orecchie lunghe e grandi come una volpe, e le mani affilate come un drago; in fondo era pur sempre l'erede degli Scemen. E, anche se la sua bellezza era davvero bella, non ebbe il coraggio di dire null'altro, se non che lei non si sarebbe mai prestata all'amore.

«Sarò sincerisma con te, perché mi sembri un bravo scimmiota», gli disse guardandolo negli occhi, «io non sono fatta per l'amore. Tra i due chi si farà del male sarai tu e di questo me ne dispiacerà. Non sono in grado di poter adempire al mio compito, portando una pace pacifica a Scimmionide. Ho pur sempre sedici scimianni. Cosa ne voglio sapere dell'amore io?»

In ogni caso, Scia trascorse un mese in compagnia di Scio e, seppure lui provò in tutti i modi a farla innamorare, non ci riuscì, non perché Scia non provasse nulla, ma proprio per la sua paura infondata sull'amore.

Vampega, osservando da lontano ciò che avevano progettato gli scimmioti, non poté stare con le mani nelle mani; non poteva permettere che il suo piano andasse in frantumi e, mentre le pietrisme nella classiglia continuavano a scendere, indicando quasi la fine del mondo degli scimmioti, lei inviò Ragnoro, erede della famiglia Ragnota della città di Ragneide, affinché facesse in modo che Scia si allontanasse da Scio più di quanto già non lo fosse, e Serpara, erede della famiglia Serpota della città di Serpeide, affinché facesse innamorare di sé Scio.

Vampega voleva a tutti i costi vedere esplodere la città di Scimmionide, poiché, quando era fidanzata con Sciumen, quest'ultimo la lasciò per Sciamen; Vampega si arrabbiò così tanto e ne fu talmente indiviosa di quell'amore che, non solo il suo corpo si colorò permanentemente di rosso e verde, ma si promise che li avrebbe distrutti per sempre.

Una volta che Ragnoro e Serpara arrivarono a Scimmionide, i due si divisero alla ricerca di Scia e Scio.

Scio fu trovato in un bar a bere e ad affogare i suoi pensieri pensierosi in un alcol alcolico. Serpara gli si avvicinò e iniziò a prendere confidenza confidenziale, come se lo conosceva da vitanni.

«Perché hai una triste tristezza?» Scio alzò gli occhi occhiuti e li puntò sul viso di Serpara. Lei era bella da togliere il fiato: la sua pelle era striata da venature nere e arancioni, gli occhi verdi, e i capelli erano lunghi fino alla sua schiena. Aveva un fascino affascinante quella meraviglia, anche se i suoi pensieri pensierosi erano sempre indirizzati verso Scia.

«Uno deve per forza avere dei problemi per bere una bevuta?» Scio non volle dire la vera verità sul suo stato d'animo, anche se Serpara sapeva già a cosa andava incontro. Lei comunque doveva compiere il suo compito e nulla l'avrebbe fermata.

Così, i due iniziarono da quel momento una sorta di relazione; se portarsi a letto Serpara serviva a dimenticare l'indimenticabile, il tranquillo Scio lo fece tranquillamente. E tutto andò a vele gonfie, finché un giorno i due non incontrarono Scia e Ragnoro.

Difatti, nel tempo stesso che Serpara cercava di sedurre Scio, Ragnoro fece la conoscenza della bella bellezza di Scia.

«Piacere, Ragnoro», si presentò lui con aria ariosa. Era di un antipatia unica, a causa di quel corpo da ragno, ma quei denti da castoro lo rendevano dolce, a modo suo.

«Io sono Scia, lui è il mio amico Sci», si presentò la scimmiota, «cosa ci fa nel nostro paese un ragnota?» chiese poi stupita.

«Ero in giro con degli amici, e mi sono imbattuto in questo paese. Poi ti ho vista e non sono più voluto andare via». Ragnoro sapeva anche come conquistare l'inconquistabile. Lui sperava nella speranza che Scia fosse caduta ai suoi piedi, così l'avrebbe finita presto con quella finta finzione. Ragnoro odiava Vampega, ma non poteva contraddirla, altrimenti avrebbe infuocato col fuoco anche la sua città.

Il suo era un interesse esclusivamente interessato all'obiettivo che doveva portare a termine; così iniziò il suo lungo corteggiamento. Finché, Scia alla fine non cedette alle sue avances, concedendo a Ragnoro un appuntamento appuntato, segnandosi per filo e per segno che cosa avrebbero fatto quella sera che l'avrebbe portata a cena fuori.

Per una combinazione combinata di avvenimenti avvenuti quel giorno, Scio portò a cena fuori Serpara al Scimmion restaurant, e Ragnoro invitò a cena Scia nello stesso ristorante.

Ragnoro e Scia erano già seduti da mezz'orima quando arrivarono Scio e Serpara, e si stavano gustando un gustoso pollo alla birra e patate fritte. A Scio venne un colpo quando vide Scia in compagnia di un altro, ma ciò che saltò all'occhio fu la scintilla scintollosa di gelosia che si manifestò negli occhi di Scia.

L'erede degli Scimen aveva, per la prima volta, provato una rabbia rabbiosa nel vedere l'erede degli Scemen mano nella mano con una ragazza, che sicuramente voleva soltanto prenderlo in giro, dal momento in cui lei buttò soltanto un veleno velenoso dalle orbite. Per tutta la serata Scia non toccò più cibo, rifilando a Ragnoro la scusa di non avere fame, e non fece altro che guardare con lo sguardo Scio e Serpara ridere e scherzare insieme come due adolescenti alle prese con la prima cotta.

In realtà, da quando Scio aveva messo piede nel locale e poi aveva visto Scia, lo scimmiota aveva deciso di fare ingelosire la sua amata, con la speranza speranzosa che lei capisse di provare qualche sentimento per lui.

A dirla tutta riuscì nel suo intento, poiché Scia provò un'invidia invidiosa nei confronti di Serpara, in quanto avrebbe voluto esserci lei al posto suo e toccare le mani di Scio o ridere delle sue risate. Desiderava essere lei la scimmiota che Scio avrebbe portato a casa e che avrebbe baciato arrivati dinnanzi la sua porta.

Ragnoro comunque provò in tutti i modi a farla cedere, ma qualcosa in Scia era scattato; così la serata finì con Ragnoro che tornò a Ragneide, senza aver ottenuto nulla, e con Scia gelosa di una gelosia mai provata prima.

Scio che nel frattempo si era gustato, non solo una gustosa cena, ma anche una gustosa e piccola vittoria nei confronti di Scia, fortunatamente non destò alcun sospetto in Serpara, e quando Serpara prese la sua macchina per tornare nel proprio paese, lui le baciò il bacio che lei le aveva dato poco prima.

Quando Scio arrivò a casa si sentì più frustrato che mai, poiché quelle maledette lancette dell'orologio non facevano altro che far scorrere il tempo velocemente, un tempo che stava per scadere, visto che osservando la clessiglia nella sua stanza, all'interno erano rimasti due pietrisme, dopo che un'altra era caduta quella sera stessa.

«Sciò, posso entrare?» Il giorno dopo, la madre entrò nella camera del figlio, per farsi raccontare un racconto di quella sera.

«Ognuno a casa propria», fece notare Scio con ovvietà, «ma posso giurare un giuramento».

«Cioè?» La curiosità curiosa della mamma di Scio stava accendendo in lei una speranza sperata da tempo.

«Credo che Scia ieri sera fosse gelosa della mia uscita, anche se Ragnoro le stava appiccicato come una cozza». Scio si rabbuiò nel ricordare il ricordo di quella sera.

«Se la ami e se pensi che lei possa provare qualcosa per te, allora va da lei», sentenziò la mamma con entusiasmo entusiasmante.

Frattanto, Scia, guardando con lo sguardo fuori la finestra della sua camera, si rese conto che il colore rosso del cielo si stava sfumando e che il nero pece era diventato grigio. Questo stava a significare che la gelosia gelosa provata nei confronti di Serpara la sera prima, probabilmente aveva fatto sì che lei iniziasse a credere nell'amore di Scio e nel suo.

Quando spostò lo sguardo sulla clessiglia che era seduta sulla sua sedia della scrivania, si rese però conto che una sola pietrisma era rimasta. Panico e terrore iniziarono a farle mancare il respiro. Scia volle vedere Scio per dirgli che potevano provare a stare insieme, per interrompere la maledizione. Così di fretta uscì di casa e si diresse dalla famiglia Scemen.

Bussò talmente forte alla porta che Scio ebbe una paura paurosa. Quando lui aprì, il suo stupore era stupefacente. Non si aspettava che Scia bussasse alla sua porta.

«Scia, ma che...» non fece in tempo a parlare che lei alzò una mano per farlo zittire e per far sì che lui ascoltasse ciò che lei aveva da dire.

«Pensa a chi ti pensa e non pensare a chi non ti pensa, perché chi ti pensa, pensa che tu lo pensi; ma se pensi che pensare sia un pensiero pensieroso, pensa che pensandomi anche io ti penserò», disse Scia tutto d'un fiato.

Scio la guardava con una confusione confusionaria. Non capiva dove volesse andare a parare e, nonostante il timore che non avessero più tempo stava prendendo il sopravvento, il cielo si stava pian piano schiarendo.

«Io non capisco. Cosa significa?» domandò Scio, dopo che una lacrima rigò il suo viso.

Nel frattempo, tutti gli abitanti di Scimmionide, inclusa la famiglia di Scia e Scio arrivarono nel quartiere della famiglia Scemen. Anche Vampega, stanca di quel teatro teatrale che Scia aveva messo su e, considerato il fatto che la maledizione stava per spezzarsi, dal momento in cui il grigio stava lasciando spazio all'azzurro, interruppe quella commovente commozione.

«Stupida stupidata questa». Vampega rise sarcasticamente, poiché era convinta che Scia non amasse affatto Scio e che stava facendo quello che stava facendo solo per senso del dovere.

«Non starla ad ascoltare, Scia. Dimmi quello che mi devi dire», la implorò Scio. Negli occhi di Scia si leggeva una paura mai provata.

Se Scio si fosse accorto in quel mese trascorso di non provare più nulla per lei? Come poteva un amore che non era neanche ancora nato fronteggiare una maledetta maledizione? Scia però volle provare a mettere da parte le sue incerte incertezze, per salvare Scimmionide e tutti gli scimmioti.

«Ciò significa Scio: facciamo questo matriato», confessò Scia. Scio la guardò con gli occhi sbarrati, e Scia gli mise una mano sulla guancia per fargli sentire il suo caloroso calore, «provo qualcosa per te Scio, quindi, sì, proviamoci».

Anche se Scia non disse chiaramente di provare amore nei confronti di Scio, a tutti fu chiaro che i due erano pazzamente pazzi l'uno per l'altro. Ormai il cielo non era più tetro e cupo. Un bellissimo cielo azzurro faceva da sfondo ad un meraviglioso arcobaleno. Anche le pareti non erano più composte da quella sostanza viscida e verde, ma mattoni rossi e grigi adornavano l'intera città.

Quando Scio e Scia si unirono nel loro primo bacio, davanti a tutti gli scimmioti, l'ultima pietrisma della clessiglia cadde; Vampega scomparve nel nulla, e nessuno seppe più nulla della sua esistenza e tutti gli orologi iniziarono a girare normalmente.

L'amore era sbocciato, le paure passate e il tempo aveva ripreso a scorrere in un modo normalmente normale.

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