War

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

È un orario indecente? Sì, direi che è così. Però hei, l'ispirazione ha colpito e io ho risposto.. e niente, enjoy

WW2/post-WW2!AU!

Si erano sposati in febbraio, durante il President Day, come ogni cittadino americano ha sognato, almeno una volta. Erano giovani, spensierati, così tanto innamorati da fare venire le carie se guardati per troppo. Nell'aria si sentiva profumo di innovazione, di novità, di nuovi progressi per la nuova decade.. quasi vent'anni dopo la grande guerra, che le aveva portato via i genitori, che aveva privato di un braccio suo suocero, che aveva tolto così tanto, ma dalla quale erano usciti come vincitori. Ma nell'aria si sentiva anche odore di polvere da sparo, di zolfo, di odio: non era raro, di quei tempi, vedere tante persone emigrare dall'Europa, che stava venendo messa a ferro e fuoco.

Rey sospirò, riportando lo sguardo dal piccolo giardinetto della villetta a schiera in cui abitava con il marito, su quest'ultimo, o meglio: sulla porta ancora chiusa del bagno in cui si era rifugiato per cambiarsi. Sospirò di nuovo, sconsolata, guardando la figura uscire e pararsi di fronte a lei: l'uniforme gli calzava a pennello, e il fisico e il portamento lo rendevano fiero e imponente, ma gli occhi erano supplicanti, lucidi, colmi di dolore.
"Non andare" gli sussurrò ancora una volta, alzando tremante le mani, prendendo delicatamente il suo viso "Non sei obbligato, Pearl Harbor non significa che-" "La lettera dice il contrario..- la tagliò Ben, con voce malferma- nemmeno io voglio, ma è un obbligo a cui non mi posso rifiutare, così come non può farlo nessuno". Lo sguardo finì sulla lettera citata, ormai letta e riletta, piena di lacrime e spiegazzata, che ora giaceva malriposta sul comò.
Rey tirò su col naso, una vecchia abitudine che non aveva mai perso, nonostante tutti gli anni passati con le "gentili sorelle" negli orfanotrofi e i genitori delle famiglie affidatarie, e abbassò lo sguardo, mormorando "Non mi lasciare vedova.. non azzardarti a farlo, o verrò personalmente negli Inferi a tirarti le orecchie".
Cercava di alleggerire l'atmosfera, ma i pianti di tutte le famiglie a cui la leva obbligatoria stava strappando dei componenti non aiutavano.
Ben le baciò i palmi, cosa che in altre situazioni l'avrebbe fatta impazzire, ma che in quel momento le lasciava solo un gusto amaro in gola, e parlò "Non lo sarai.. finirà presto tutto questo, vedrai..". Fecero un piccolo sorriso entrambi, con gli occhi lucidi, e si scambiarono un piccolo bacio. La donna restò sull'uscio, salutandolo con la mano mentre lo vedeva allontanarsi irrimediabilmente da lei. No, si disse, non c'è bisogno di piangere, sarebbe finita da lì a poco, come sempre, e avrebbero vinto.

Bugie, bugie, solo bugie.

Sapeva che erano bugie, ed era stanca di ripetersele da ormai un intero anno: era stanca di svegliarsi da sola, di non avere suo marito a casa. Era stanca di avere sue notizie solo con brevi e fugaci lettere, che arrivavano all'improvviso; era stanca di non sentire la musica in casa, di non sentire il suo piano suonare; era stanca di quella guerra, durata fin troppo; era stanca di sentire quel peso sul petto, quell'instancabile vocina che le ripeteva di prendere vestiti neri, per portarsi avanti.

Era stanca, tanto stanca, di quel periodo.

Gli mancava Ben, in tutto e per tutto: lo rivoleva, tanto. E ogni sera, piangeva silenziosa perché il ricordo del suo viso spariva pian piano, perché non rammendava i dettagli del suo volto, perché non riusciva a rievocare il timbro della sua voce.
Ma non poteva abbandonare, proprio ora: chissà se il giorno dopo le sarebbe arrivata una sua lettera, se avrebbe avuto una notizia positiva, se la popolazione avrebbe gioito per la fine della guerra.. e lei aspettava, aspettava ogni dì quello successivo, appoggiandosi solo a questa piccola briciola di speranza.

Aspettò per altri tre anni.
Tre. Dannatissimi. Anni.
Tre anni in qui le notizie erano ancora più scarse, tre anni in cui la paura continuava a crescere, tre anni in cui aspettava con ancora più ansia il suo ritorno.

Poi, uno stupido e pigro giorni di settembre, uno che sembra proprio come quello prima, ogni radio passò la stessa notizia: "la guerra è finita".
Lo si urlava per le strade, nei locali, nelle case, ovunque ci fosse una persona: lacrime scendevano dagli occhi di tutti, i petti erano più leggeri, le risate ripresero ad alzarsi.
Rey ascoltò la notizia, barcollando fino a sedersi sulla poltrona di pelle, e solo tre lacrime rotolarono giù dalle sue guance: poteva riavere Ben.  Un timido sorriso le increspò le labbra, nascoste dietro le mani, mentre lei si beava di quella piccola speranza che si faceva strada nel suo corpo.

Qualche mese dopo, due uomini, che dalle medaglie che riusciva a intravedere dal piccolo spioncino, erano dell'esercito, bussarono alla sua porta. Li fece accomodare in salotto, sentendo come con un sesto senso che c'era una grande notizia che stava per arrivare, e li fece parlare.
Tre ore dopo, si trovava in un ospedale, con il cuore che batteva forte nelle orecchie e che minacciava di uscire dalla gola: Ben era vivo, era salvo, era lì. Corse, quasi, da lui, mentre stava stringendo la mano ad un uomo col camice: Rey gli sorrise, ma si spense subito appena incontrati i suoi occhi: erano ancora quelli di anni fa, si, ma erano spenti, vuoti.
"Andiamo a casa", fu questa la prima cosa che le disse. Non un saluto, un abbraccio, un bacio, ma un ordine dettato dalla paranoia di essere sottotiro nemico. La prese per il polso, mentre uscivano a passo spedito da quel posto: il tragitto fu oltremodo silenzioso, e quel misero contatto fisico che avevano era stato tagliato bruscamente.
E anche a casa, la situazione non fu migliore: i discorsi erano spicci, essenziali, e il contatto fisico era quasi del tutto abolito. La cosa peggiore fu vederlo andare a dormire nella camera degli ospiti, invece che in quella coniugare con lei: sapeva che non sarebbe stato facile, ma sperava in un'interazione un po' più vivace, desiderava non esser tagliata fuori dalla sua vita, dalla sua mente..
Qualche settimana dopo, vennero recapitate alla loro porta la sua divisa, con annessa medaglia: ai suoi occhi non erano che un po' di stoffa e una piccola targhetta, ma poteva sentire il dolore che ci era impresso sopra.

Le notti, in quella casa, erano il vero inferno: si sentiva solo silenzio, squarciato alle volte dal rumore di oggetti caduti o da colpi contro i mobili. Rey sentiva tutto, ma non sapendo come agire si rannicchiava su se stessa, mormorando che era stata brava, che non aveva fatto niente, che non era colpa sua, come quando uno dei suoi tanti padri affidatari arrivava a casa ubriaco marcio. Stringeva forte fra le dita il pigiama, cacciando la testa sotto il cuscino, lasciando che alcune lacrime scendessero dagli occhi.

Lui pativa i ricordi, le cicatrici: tutto gli passava davanti di nuovo, ogni notte, con il favore del silenzio e del buio; e malgrado fosse stato promosso a capitano, il sangue l'aveva visto comunque, aveva dovuto seppellire amici, tamponare emorragie, ricucire fori di proiettile per anni.
Ma piangere era inutile, non avrebbe riportato in vita nessuno, e distaccarsi emotivamente era il modo migliore per soffrire di meno. Ed era diventato tanto istintivo da non poter smettere di farlo: avrebbe voluto parlare a sua moglie di più, avrebbe voluto stringerla, avrebbe voluto dormire di fianco a lei, vegliare su di lei, ma appena ci provava, quei flashback tornavano a bussare alla sua mente, e si ritraeva. Si limitava allo stretto indispensabile, perché non voleva addossarle quel peso che prendeva insistentemente sul letto, ma si sentiva morire.. e allora ritentava ma, ancora, quei ricordi gli facevano da monito: sarebbe svanita dalla sua vita anche lei, senza che potesse fare qualcosa a riguardo. E lì, nella privacy della notte, si permetteva quel incredibile lusso che è il pianto: sfogava quattro anni di guerra, di morti, di caduti, di separazione, nella speranza che il peso diminuisse, ma ogni giorno si doveva ricredere, perché era ancora tutto lì.

Era straziato, e lo sapeva: era martoriato e marchiato come un animale, e anche solo sapere che sua moglie, e che gioia gli dava definirla così, era ancora al suo fianco gli dava conforto, o almeno cercava, malgrado il suo carattere.

Il tempo volò, anche se era denso di frasi che dovevano essere dette ma che erano state taciute, e dopo un'altra cena mortalmente silenziosa, il vecchio piano suonò ancora. Era solo un semplice la, lungo quattro quarti, ma era qualcosa. La donna non fece tempo a rallegrarsene, che Ben era già svanito nella sua camera al piano superiore.

Rey sospirò, lasciandosi cadere sul divano, appoggiando stancamente la testa sul bracciolo, guardando le ultime fiamme nel camino affievolirsi pian piano, chiudendo gli occhi.
Li aprì leggermente solo al suono della porta della camera coniugale che si richiudeva, un po' cigolante: si mise seduta sul letto su cui era adagiata, aggrottando la fronte e cercando di capire come ci fosse arrivata lì, visto che il suo ultimo ricordo era di esser stesa sul divano.
Smise di pensare quando una vecchia melodia iniziò a risuonare in casa, e decise di andare a controllare il pianoforte: com'era prevedibile, Ben lo stava suonando con una tecnica che era solo sua, la stanza era illuminata solo da una lampada a parete. Smise dopo poco, appena la notò sulle scale. "Ti ho disturbata, lo so" si scusò subito l'uomo, facendo per alzarsi dallo sgabello. Gli si avvicinò, piano "No.. in realtà, non penso avrei dormito ancora per tanto..". In effetti, mancavano poche ore all'alba.
Nel parlare, Rey poggiò la mano sopra la sua, che era ancora appoggiata sulla superficie del piano: nessuno dei due si ritrasse al contatto, il che era un passo avanti.
"Vorrei.. voglio parlare di quello che ci sta succedendo, Rey." Iniziò lui, guardando il basso e andando a sedersi sulla poltrona."So che non è il-" "Non chiedere l'annullamento del matrimonio, ti prego." Lo tagliò la moglie, con occhi lucidi e voce tremante, più di una foglia in autunno. La esaminò, prendendole la mano, causando la nascita di  un'espressione di sorpresa sul suo viso. "Perché? So che non è quello che ti ho promesso anni fa, e so che non esserci per te ti ha fatto male, quindi l'annullamento sarebbe per te un'opportunità di rinascita" le disse, ricevendo in risposta un'occhiata di fuoco "Per anni- iniziò lei, stringendogli la mano fra le sue- per quattro dannati anni ho sperato di riaverti al mio fianco, e Dio solo sa quanti pianti mi sono fatta sognando questo momento.- Prese un bel respiro- Ho vissuto solo per rivederti, per ritornare fra le tue braccia, un giorno, e posso ancora aspettare altri quattro anni, se serviranno, perché ora so che sei vivo. Posso aspettare, ma non posso stare lontana da te." Finì, combattendo con le lacrime, ma guardandolo fieramente negli occhi.
Ma questo coraggio scemava secondo per secondo, perché la risposta dall'altra parte tardava ad arrivare. Alla fine, arrivò la risposta: "Ho proprio una moglie testarda, ma caparbia, vero?- si concesse l'ombra di un sorriso, e i suoi occhi sembravano aver assunto una sfumatura diversa, più dolce- Non cambiare mai, mia piccola Rey. Ho bisogno di te, e del tuo carattere forte, per superare tutto.".
Le mani della moglie erano fra le sue, e ci disegnava dei piccoli cerchi immaginari sui dorsi, senza trovare il coraggio di guardarla. La notò più vicina solo quando ritrasse leggermente le mani, per poi affondarle nei suoi capelli corvini e stringerlo a se, lasciandogli appoggiare la testa al suo ventre. La donna sentì i muscoli del marito tremare leggermente, per poi stringerle la vita: gli accarezzò leggermente il capo, prima di sentirlo scoppiare a piangere.
Sentiva le lacrime bagnarle il pigiama e la pelle sottostante, la smorfia di dolore in cui era contratto il viso dell'altro, le dita callose che la stringevano come se fosse l'unico appiglio sicuro in un mare in tempesta.

Lei non disse nulla, assolutamente nulla: le parole sarebbero state inutili e di poco aiuto. Invece lo strinse forte, per tutto il tempo necessario, finché non fu completamente sicura che si fosse calmato: solo allora si azzardò a fargli alzare il viso per vederlo. Aveva gli occhi rossi e un po' gonfi, le labbra con un leggero tremolio, le guance rigate da tante piccole strisce e gli occhi supplicanti, ma sorrideva. Sorrideva come non gli aveva visto fare da anni, sembrava davvero contento, rilassato.
Si concesse un sorriso anche lei, scostando dal suo viso qualche piccola ciocca che gli si era incollata.
Gli accarezzò la guancia, mentre si chinò davanti a lui, prendendogli le mani. "Grazie.. grazie di tutto: per avermi sopportato, per aver sopportato.." le sussurrò lui. "Promettimi che andremo avanti insieme, promettimi che cercheremo di venire a capo di questa situazione assieme" chiese lei, sottovoce, a cui ricevette risposta solo con un veloce cenno di capo. Rey si alzò, sotto lo sguardo attento di Ben, che ancora teneva le sue mani: si rimise nella medesima posizione di prima, chinandosi leggermente per dargli in bacio fra i capelli.

L'alba li colse così, mentre si scambiavano la tacita promessa di condividere tutto, e cercare di tornare alla loro idea di normalità.

Ci misero anni, ma non c'era nemmeno l'aria di una sola lamentela: c'era voluto tempo per tutto, perché ogni singola azione aveva alle sue spalle un demone da domare, ma alla fine c'erano riusciti, insieme.
Erano riusciti ad avere conversazioni durature, ad avere contatti fisici spontanei, a dormire nello stesso letto: certo, gli incubi erano un altro bel paio di maniche, ma con il tempo, forse, si sarebbe affievolito qualcosa. Non era una vita perfetta, ma era quello che più ci si avvicinava, perché era solo loro ed ora c'era la loro pace.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro