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Aspetto che mio figlio scompaia all'interno della propria camera e sospiro, lasciando andare il fiato che ho trattenuto fino a quel momento. Una lacrima ribelle scivola dal mio occhio sinistro e io mi affretto ad asciugarla da dietro gli occhiali, prima che qualcuno la veda. Tendo l'orecchio e sento lo scosciare dell'acqua della doccia, intuendo che Marco, mio marito, è ancora là sotto.

Mi sento grata a Dio che mi concede ancora qualche minuto per ricompormi e mi affretto a sistemare la borsa all'interno della cappottiera. Non mi sento però pronta a rimettere al suo posto la foto e la porto con me in cucina.

La tengo tra le dita, ma non riesco a guardarla, così mi concentro sulla scritta sul retro. "1997" leggo nella mia mente. Sono passati vent'anni...

Spalanco la porta che conduce al minuscolo giardino e mi getto all'esterno, come se mi mancasse l'aria. Alzo gli occhi al cielo e vedo il sole che tramonta, andando lentamente a coricarsi in mezzo alle montagne che costellano l'orizzonte. Piango ancora, mentre i ricordi mi aggrediscono con la loro durezza, mi scorrono davanti agli occhi vividi, troppo vividi e mi stringono il cuore nella loro morsa. Serro le palpebre, nel tentativo di scappare da quelle memorie, ma la pellicola del mio passato sta continuando a girare all'interno della mia mente, non posso fermarla, non adesso, non più.

Eccoci lì, Roberto e io, a ventitré anni, nel pieno della vita, della giovinezza, della felicità. Mi ha appena fatto una dichiarazione da manuale e io ho reagito come l'adolescente egoista che sono: respingendolo in un primo momento per poi corrergli dietro, con la coda in mezzo alle gambe, quando ho avuto paura di perderlo. Roberto. In questo momento tutto il mio mondo gira intorno a lui e alla sua paziente dolcezza nei miei confronti.

Adesso l'ho accettato e ci siamo baciati, imbranati come due adolescenti alle prime esperienze e poi ci siamo sorrisi in quel modo che sappiamo fare solo noi, in cui non solo le labbra, ma tutto il viso si piega in una curva gioiosa. Roberto mi prende per mano e propone di riaccompagnarmi a casa. Siamo una vera coppia, adesso! Io me esco con una frase sdolcinata e lui arrossisce, così mi volta le spalle perché non lo veda arrossire e mi risponde con una battuta. Ma io l'ho visto arrossire, e mi ha fatto piacere.

Si mette a correre e io gli urlo contro che è un imbecille, ma sto iniziando a godermi la piacevole sensazione di appartenenza, che adesso si è concretizzata, tra le nostre due anime. Roberto è mio, solo mio, e lo sarà per sempre. Mi crogiolo in quel pensiero felice e alzo lo sguardo per cercare la sua schiena.

È in quel momento che lo vedo inciampare. Le sue scarpe consunte sui talloni, quelle scarpe che gli ho sempre detto di non indossare, sono scivolate sul pavimento umido. Mi metto a correre verso di lui, ma non avrei mai potuto afferrarlo. Rimango a guardare mentre Roberto s'incurva, nel vano tentativo di riacquistare l'equilibrio perduto. I suoi piedi si muovono in modo convulso e finisce inesorabilmente per cadere all'indietro. Urla durante il salto e si tuffa di schiena nell'acqua putrida di quel porticciolo puzzolente, scomparendo sotto la sua superficie.

Io raggiungo il bordo e mi ci sporgo oltre, chiamando il suo nome con voce isterica. Roberto. Roberto è caduto in acqua. Roberto non riemerge. Perché non riemerge? Roberto! Aiuto!

Il mio cuore batte all'impazzata all'interno del mio petto, mentre la mia mente si confonde. Il mio corpo trema, mentre cerco di decidere cosa fare. Mi guardo intorno alla ricerca di una cabina telefonica e ne scorgo una a poca distanza. Continuo a fissarla, ma esito a lasciare il bordo del precipizio: chi dovrei chiamare? Mi concentro di nuovo sull'acqua e Roberto è ancora sotto, così decido di staccarmi da lì e raggiungo la cabina, con le mani tremanti inizio a comporre il numero del pronto intervento e attendo. L'operatrice risponde al secondo squillo, la sua voce è calma, professionale, lei è abituata a situazioni come quella, ma io sono nel panico. Cerco di parlare, provo a spiegare che il mio amico, no, aspetta, è il mio ragazzo, ora... Strillo che il mio ragazzo è caduto in acqua e che non riemerge. Roberto non riemerge, per favore, aiuto!

Crollo a terra, inerme, incapace, impotente. Mi trascino carponi fino al margine del porticciolo e mi sporgo il più possibile ma è tutto buio e le profondità di quell'acqua stagnante sono oscure. Le lacrime mi annebbiano la vista mentre i minuti scorrono lenti, mi si appiccicano addosso come metallo fuso.

Sto ancora fissando l'acqua quando qualcuno mi scuote. Le persone intorno a me parlano, ma io non le capisco. Un poliziotto mi fa un sacco di domande e io rispondo a tratti, senza staccare gli occhi dalla superficie dell'acqua. Roberto è là sotto. Tiratelo fuori, per favore.

Sirene tutt'intorno, qualcuno si tuffa, ma ormai me lo sento dentro il cuore che per Roberto non c'è niente da fare.

Il funerale è un momento penoso. I genitori di Roberto sono vestiti di nero, sua madre piange sulla spalla del marito, affranta al punto che non riesce quasi a stare in piedi. Colleghi e amici sono tutt'intorno alla bara, in un religioso e pesante silenzio. Io ascolto il prete parlare, ma non riesco a prestare attenzione a ciò che dice. L'unico rumore è il battito del mio cuore, forte, tumultuoso, ridondante. Va a tempo con i miei singhiozzi, che non riesco più a placare. Non ho nemmeno il coraggio di guardare la persona che giace nella bara, perché dovrei? Non lo conosco, quel ragazzo! Mi dicono che è Roberto, ma è una bugia. Roberto è un ragazzo allegro e divertente, Roberto è dolce e gentile e, soprattutto, Roberto è vivo! Deve essere vivo...

Il dolore agisce su ognuno di noi in modi diversi e, nel mio caso, divide il mio cervello in compartimenti stagni. Sono la solita Gemma di sempre, vado a lavorare al piccolo bar del quartiere e servo i clienti con il sorriso stampato sul volto. Mi chiedono come sto, ma io non capisco a cosa si riferiscano. Piego leggermente la testa da un lato e fisso il mio interlocutore con occhi curiosi, allora mi chiedono di Roberto. Che strano, perché tutti continuano a chiedermi di Roberto? Non c'è niente che non vada tra Roberto e me. A quel punto iniziano a guardarmi con un'espressione stranita e se ne vanno ma, ancora, non riesco a capire.

È durante una notte di luna piena che cambia tutto. Sembra l'inizio di un film dell'orrore, mentre invece è solo l'inizio della mia presa di coscienza. Mi sveglio di soprassalto, sgranando gli occhi sul soffitto della mia camera. Ed è proprio lì, su quella superficie liscia e bianca, che mi appaiono come in un'allucinazione le immagini della morte di Roberto. Allora è vero... mi dico, sconvolta.

Il dolore erompe dalle dighe di contenimento e mi travolge con tutta la sua furiosa potenza, mentre la realtà mi stringe la gola con le sue gelide dita: dovrò vivere tutta una vita senza Roberto.

«Gemma, che stai facendo?»

La voce di Marco mi riporta al presente, strappando il velo dei miei pensieri. Se ne sta lì, affacciato alla porta e mi fissa con gli occhi sgranati.

È premuroso Marco, lo è sempre stato.

«Non è niente.» dico togliendomi gli occhiali e strofinando i polpastrelli sulle palpebre. «Qualche brutto ricordo.»

Mio marito abbandona il portico e si mette a sedere accanto a me, cingendomi le spalle con un braccio. Getta un'occhiata veloce alla foto che tengo in grembo e fa una smorfia. Osservo con affetto i suoi capelli scuri, ormai sale e pepe sulle tempie e il suo naso importante con la gobbetta. I suoi occhi nocciola mi scrutano il viso con attenzione, mentre le rughe d'espressione ai lati della sua bocca si accentuano.

Marco sa tutto. Ci siamo conosciuti un anno dopo la morte di Roberto, in un momento in cui ero ancora in piena depressione. È stato lui a proporsi di guarirmi, con il suo amore. Io l'ho lasciato fare e lui si è pian piano insediato nella mia vita, riempiendo i miei vuoti, facendosi strada tra le crepe del mio cuore.

«Piangi ancora per lui dopo tutto questo tempo?» mi domanda tra il serio e il faceto.

Mi sforzo di fare un sorriso tirato. «È stato solo un momento, ma ora è passato.» mento.

Roberto non è passato.

Marco non lo sa, ma io penso spesso a lui. Parlo con Roberto sotto la doccia, bisbigliando coperta dallo scorrere dell'acqua; discuto con lui le cose importanti quando sono sola a casa e nessuno può sentirmi; gli chiedo consigli nella mia mente, ogni volta che devo prendere una decisione importante.

Marco non lo sa. Non sa quanto Roberto mi manchi, ogni giorno. Forse, se lo sapesse, non mi avrebbe chiesto di sposarlo e non avrebbe accettato di dare il suo nome a nostro figlio.

Sospiro al pensiero, mentre il senso di colpa mi attanaglia. Dandogli quel nome, ho provato a far rivivere in mio figlio una persona morta. Ho dato per scontato che sarebbe bastato un nome per infondergli la stessa personalità, gli stessi gusti, lo stesso animo. Ma mi sono ben presto resa conto che questo Roberto non aveva niente a che fare con il mio e mi sono sentita delusa.

Mi ci è voluto del tempo per imparare ad amare di nuovo mio figlio, così diverso da quello che avrei voluto, ma alla fine ci sono riuscita.

«Mamma, Luca è fuori, suo padre ci accompagna con la macchina!» sento urlare dall'interno della casa.

Marco mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite. «Gli hai dato il permesso, alla fine?!»

Rido piano. «Diciamo che ho preferito farlo, piuttosto che lasciare che scappasse di casa.»

«Che vuoi dire?» esclama lui, sempre più interdetto.

Scuoto la testa e mi rimetto in piedi, dando a mio marito un'amorevole pacca sulla spalla.

«Te lo spiego dopo.» gli dico facendogli l'occhiolino.

Nascondo la fotografia in tasca e mi dirigo all'ingresso, dove il mio tredicenne preferito se ne sta tutto impettito, in trepidante attesa. Sorrido vedendolo così emozionato e immagino che il motivo per cui ha fatto di tutto per andare alla festa abbia un paio di belle gambe e dei lunghi capelli castani.

«Stai bene.» gli dico passando le dita in mezzo ai suoi elettrici capelli neri.

«Grazie, mamma.» bisbiglia, volendo dire tante cose tutte insieme.

Sospiro, accarezzando la fotografia che tengo in tasca attraverso il tessuto dei pantaloni. La vita è una lunga sequenza di opportunità e siamo noi a decidere come utilizzarle.

Mi sono spesso chiesta che cosa sarebbe successo se Roberto mi avesse fatto la sua dichiarazione prima o se non me l'avesse mai fatta, se io gli avessi risposto subito di sì, o se lo avessi rifiutato. Avrei ancora il mio Roberto a fianco se una di queste variabili fosse cambiata? Purtroppo, non avrò mai una risposta alle mie domande.

La mia vita è andata avanti, senza Roberto, ma ho molti rimpianti per le occasioni sprecate che ho lasciato andare per stupidità. Se possibile, voglio che il mio bambino viva appieno ogni momento, che non lasci "se" e "ma" a tormentarlo nei momenti neri. Gli do un bacio sulla guancia e gli permetto di raggiungere il suo amico in macchina.

Mentre osservo la sua schiena esile che si allontana, mi rendo conto che Roberto sarà sempre parte di me perché è la mia occasione mancata, il mio unico, vero rimpianto. Non lo dimenticherò mai.

Sollevo la mano e saluto il bambino che sta diventando un uomo sotto i miei occhi, paventando il momento in cui dovrò lasciare andare anche lui e chiedendomi se, almeno stavolta, ce la farò. Gli soffio un bacio sul palmo della mano e la voce mi trema quando provo a parlare.

«Buona fortuna, Roberto.»

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