3 - Sotto l'albero

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Il pomeriggio di quella giornata, che sembrava essere un casino di alti e bassi, quasi comparabile a una montagna russa, ero in camera mia, in soffitta, seduta sul bracciolo della poltrona verde petrolio con la Canon tra le mani e lo sguardo concentrato a guardare gli ultimi scatti.

Stavo osservando, dal piccolo schermo, Dawson: avevo scattato diverse foto, ieri, quando mi ero chiusa in casa e lui era rimasto a girovagare intorno ad Ares, fumare e poi andarsene in moto.

Lo avevo osservato a tratti con la mani sulla bocca e con occhi spalancati, perché da lontano sembrava ancora più caparbio del solito, perché da lontano i suoi avanti e indietro mi fecero confondere, perché da così lontano i suoi capelli dorati e i suoi occhi verdi spiccarono con la luce che donava il tramonto, perché guardandolo - anche se avevamo avuto quel qualcosa - io sentivo di doverlo fotografare. Dovevo cogliere quegli attimi, perché erano quei momenti disperati, quei dettagli impazienti, sconcertanti che ispiravano la mia logica nel far fare click a quella dannata macchina fotografica, ed erano poi quei momenti che mi facevano mettere a scrivere, ma il romanzo era ancora lì, incompleto, sempre chiuso e sempre sulla scrivania. Le foto invece erano nitide, , ferme. Catturai il suo viso sul quale uno sguardo confuso, frustrato, aleggiava; gli occhi che a volte si chiudevano; la sua mano che si portava alla bocca la sigaretta quasi terminata; i dettagli dei suoi tatuaggi sulle braccia scoperte; lui che dava le spalle alla Canon; lui che apriva la staccionata; lui che si metteva il casco e lui che partiva con la sportiva. E mentre io ero lì, in soffitta, a osservare quegli scatti dal piccolo schermo, lui era ignaro che anche in quel momento mi aveva dato ispirazione.

Di certo non avrebbe mai dovuto sapere di quelle foto. Mai.

Il cellulare squillò, sbarrai gli occhi e per poco non mi finì la Canon a terra. Tirai un sospiro di sollievo quando riuscii a tenerla stretta tra le mani, poi mi alzai e la posai sulla scrivania, accanto c'era la mia borsa e il cellulare, lo presi e risposi.

«Buon pomeriggio Lincoln, tutto okay? Problemi con il progetto?» Gli chiesi, sedendomi, nel frattempo stavo ancora guardando le foto.

«Hey Anna! No il progetto è tutto okay, il capo è soddisfatto. Dovresti saperlo bene». Rise piano lui. Io sospirai e chiusi per un attimo gli occhi. Non avevo ancora realizzato che tutto era finito, che il progetto era terminato e che era stato anche sperimentato, non avevo realizzato che ero stata io stessa a renderlo possibile. Tuttavia quando qualcosa ti ruba gli anni della tua vita ossessivamente poi diventa un'abitudine, quella routine, e lasciarsi andare diventa difficile.

Sospirai e guardai di nuovo Dawson con il viso corrucciato. Lo avevo anche io in quel momento?

«Sì, sì, non... non mi sono... Lascia stare - sorrisi, non so perché lo feci, era come se parlare al telefono con qualcuno significava averlo davanti, il mio era puro istinto, riflesso -, sei ancora in ufficio, non è così?»

«Sì, sono in pausa. Oggi non abbiamo avuto modo di parlare dopo l'entrata del tuo amico, volevo sapere se fosse tutto okay. Insomma era ricoperto di sangue, ti ha detto qualcosa che ti ha turbata? Quando sei rientrata al Centro sembravi a pezzi». Ascoltai le sue parole mentre dalla Canon zoomavo sugli occhi di Dawson e mi concentravo su di loro per cercare di controllare il respiro e il cuore battere forte: lui era pieno di sangue e nonostante tutto era venuto da me. Lui era venuto da me.

Tirai su con il naso e dissi: «È il suo lavoro, non preoccuparti. Sto bene, sai? Qui le cose vanno alla grande. Abbiamo portato a termine il progetto e adesso inizieremo a espanderlo in tutto il mondo. Sto bene, è tutto okay», mi ritrovai a ripetere con un piccolo sorriso in volto. Forse stavo sorridendo a me stessa, questa volta, forse era il momento di consolarmi da sola, come facevo sempre.

Sussultai, sbarrai gli occhi. No.

Chiusi la chiamata, lasciai la Canon accesa. Con la mano al petto e gli occhi grandi e luccicanti scesi le scale, respirai piano.

La casa era deserta e improvvisamente avevo sentito nel petto una sensazione familiare: la solitudine.

Sono rimasta sola, non ho nessuno, ve ne siete andati tutti da quella porta.

Mi ritrovai così a guardare l'entrata della baita, scossa da un sentimento che mi apparteneva fin troppo dentro le viscere, sfiorai il legno con la mano che tremava poi mi allontanai di scatto, non so perché lo feci. Durò tutto pochi attimi, eppure... eppure l'intensità di quei sentimenti mi aveva consumata, come sempre.

Mi appoggiai alla parete di fronte il portone e piano piano scivolai sul pavimento, mi presi la testa fra le mani e non lo so... non sapevo cosa stavo pensando, i miei pensieri erano così confusi, lui se ne era andato, anche lei e ancora un altro lui e io ero rimasta qui tra il verde, gli alberi, i fiori, il pavimento freddo, la cucina che intravedevo e il trambusto dei miei pensieri.

Ero stanca di vivere. Ero stanca di vivere in quel modo.

🍁

Mi ero assopita con le ginocchia fino alle guance, stretta in un abbraccio, con una lacrima che al risveglio era ancora incollata tra le ciglia. Fui svegliata dallo sbattere alla porta e dal mio nome essere chiamato a voce alta.

«Annabel, so che sei in casa». Era Dawson. «Apri». Bussò di nuovo. «Ti prego». Questa volta fu una supplica.

Mi alzai trattenendo le lacrime e facendo un bel respiro, poi aprii il portone.

«Che succede? Cos'è successo, Bel?» Disse entrando in casa. Io ero rimasta con il portone tra le mani e con il naso fuori casa a guardare l'immenso prato che mi salutava.

Ho bisogno di un minuto per respirare, ho bisogno di un momento per sfogarmi. Come?

«Bel», sussurrò alle mie spalle. Mi voltai con il viso rosso e gli occhi anche.

«No. No, Dawson, vattene. Lasciami stare», era un sussurro anche il mio, non avevo la forza di occuparmi anche di lui.

«Cos'è successo? Chi ti ha fatto questo?» Per un braccio mi tirò verso di lui, vicino al suo petto, con l'altra mano chiuse il portone a chiave e avvicinandosi sempre più a me, fece poggiare la mia schiena contro la porta. Mi alzò il viso, fece scontrare i nostri occhi ma io non parlai.

«Chi ti ha fatto questo, Annabel?» Ripetè con il viso corrucciato. Abbassai lo sguardo sulle pistole nella fondina poste alla vita, poi lo guardai: sì dovevo.

«Tu, Dawson. Tu». Mi guardò confuso, mi scrutava, non capiva.

«Cosa?» Mi accarezzò la guancia, ma io voltai il viso. Io... io non ci riuscivo. Mi sentivo soffocare. Lui era la prima persona di cui avevo bisogno, tuttavia... tuttavia.

Mi accarezzò, portò la sua mano sui miei occhi, sulla mia guancia, sulle mie labbra.

«Bel». Poggiò la testa sulla porta, accanto alla mia, trattenni il respiro, mi veniva da piangere. Avevo bisogno di sfogarmi, ma se lo avessi fatto con lui il nostro legame, qualsiasi fosse si sarebbe stretto ancor più e questo non poteva succedere, non sarebbe dovuto accadere.

«Vai via». Gli dissi.

«Non ce la faccio. Vai». Ero disperata, non lo feci capire, o forse sì.

«Non posso».

«Devi».

«Non posso, ti ho detto». Posò l'altra mano sulla porta. Ero bloccata, di nuovo. Il suo corpo caldo sul mio era sconvolgente per i miei sentimenti.

«Non puoi starmi così vicino, ti prego». Sussurrai e questa volta le lacrime caddero. Ero così stanca di provare tutto e niente, tanto e così poco. Ero stanca. Forse avevo bisogno di scrivere, forse, forse io avevo solo bisogno di... non lo so, di qualcosa. Sapevo solo che lui doveva andarsene. Invece si staccò di poco da me e mi guardò.

«È a causa mia, quindi?» E mi asciugò una lacrima.

«In parte».

«E il resto?» Chiese.

«Non sono fatti tuoi. E smettila di intrometterti». Dissi scostandomi da lui, andando in cucina, lui mi seguì.

«Dimmi una cosa. Perché prima mi parlavi appena, ti limitavi a seguirmi in giro per casa e ora ti comporti così come se... come se...». Ero agitata, con la mani gesticolavo, poi a fine frase ringhiai e mi portai la mano alla testa. Lui sorrise e si avvicinò.

«Perché Bel, presto lavorerò per te, che tu lo voglia o no e che tu ci creda o meno tengo a te».

«Non chiamarmi Bel!» Sbarrai gli occhi e gli puntai un dito contro, poi stanca, il mio sguardo tornò sofferente e la mia mano scivolò fino al fianco.

«Hai almeno capito cosa ti ho detto?»

«E tu?»

«Sì, Bel». Un sorriso che voleva diventare una risata fece capolino e io non seppi che dire né che fare.

Dopo qualche momento di esitazione salii al piano di sopra per andare in camera mia.

«Puoi andare, sai dov'é l'uscita, gli dissi a metà scala. Ma lui con le mani nelle tasche mi seguì finché non mi raggiunse.

«Ho detto che puoi andare».

«Non me ne vado Annabel. Stanno succedendo troppe cose».

«Non m'importa. Vattene Dawson. Non ti voglio in casa mia. È quasi ora di cena e non ti voglio qui».

«Odio la gente testarda come te», dissi sottovoce girando i tacchi per andare in camera.

«Dimenticavo che sei abituata a dare ordini e a vedere la gente eseguirli come cagnolini», disse seguendomi.

«Beh non mi sembra che il tua carica sia da meno». Lo guardai sfidandolo con lo sguardo. Lui sorrise e salì un altro gradino. Gli misi la mano sul petto fermandolo, lui alzò un sopracciglio guardando la mia mano poggiarsi su di lui.

«Due testardi non potranno mai andare d'accordo». Dissi.

«E per di più non voglio continuare questa storia più del dovuto. Devi andartene».

Lui annuì e accennò un mezzo sorriso mentre scese di un gradino.

«Esco di casa ma passerò la notte sotto il tuo albero di quercia».

«Cosa? No. No. Devi andartene e basta». Scossi la testa incredula.

«O in camera tua o sul divano in cucina o all'albero, scegli». Il sorriso che aveva era da prendere a schiaffi.

«Dawson, per piacere, esci da questa dannata casa».

«Allora vada per la tua stanza». Alzò le spalle e fece per salire.

«Cosa? No! No!» Subito scesi i gradini che ci separavano. Fummo così vicini che i nostri corpi potevano toccarsi, a distanziarci era un emerito soffio d'aria, ancora una volta. Tornai indietro di un gradino.

«Smettila», dissi.

«Di fare cosa?» Corrucciò le sopracciglia e incrociò le braccia tatuate.

«Di sorride così sfacciatamente, devi davvero smetterla».

«Va bene Dottoressa, passerò la notte sotto l'albero, va bene? Mi sembra un ottimo compromesso». Portò le mani nelle tasche dei pantaloni. Era serio.

«Solo per questa volta. E sappi che non cucinerò per te». Gli puntai l'indice contro e lui sorrise, poi annuì.

«E comunque... il mio albero si chiama Ares». Un piccolo sorriso spuntò sul mio volto, finalmente.

«Hai dato un nome a un albero?» Mi guardò interrogativo, poi continuò: «Che stupido! Ovvio che una scrittrice dia un nome al proprio albero preferito!» Mi guardò con una dolcezza che mi destabilizzò. Salì di un gradino e di nuovo fummo vicini, molto vicini, estrasse la mano dalla tasca della tuta e con la stessa mi spostò i capelli dal viso, poi me lo accarezzò.

«Cosa stai facendo?» Sussurrai beandomi di quel tocco.

«Niente Bel». Mi alzò il mento e mi guardò. A me mancò il respiro. Poi lo accarezzò con il pollice e lasciò la mia pelle al freddo.

«Ci vediamo», mi disse.

«Domani mattina lavori?» Chiesi d'urgenza, volendo guardare ancora per un attimo quegli occhi.

«Nel pomeriggio, perché, Annabel?» Il modo in cui mi chiamava, in cui pronunciava quelle lettere, il modo in cui suonavano nella sua bocca mi faceva morire. E quel Bel che veniva esalato solo da lui in quel modo faceva risorgere pezzi della mia anima ormai spezzata.

«Era solo per sapere».

«Ti accompagno io domani mattina al Centro».

«In moto, Annabel. In moto».

«Non credo sia il caso».

«Annabel, tra poco ti farò da guardia del corpo e dovrò accompagnarti ovunque quindi sì, è il caso».

«Non voglio una guardia del corpo».

«Cambierai idea presto».

«Ci vediamo domani, Bel».

«Oh! A domani, allora». Lui mi sorrise e scese le scale, aprì il portone, guardò ancora una volta sulle scale me e poi uscì.

Dormirà davvero da Ares? Salii subito il soffitta per andare a vedere. Presi la macchina fotografica per ingrandire l'obiettivo e vederlo meglio.

🍁

Mi sdraiai con le braccia poste dietro il capo e i piedi incrociati al tronco di quell'albero che Annabel chiamava Ares e pensavo a quanto fossi spaventato. Guardai la luce accesa in casa, guardai il portone e chiusi gli occhi. Ero terrorizzato all'idea che le fosse successo qualcosa. Poco prima avevano fatto irruzione dei delinquenti da Freya Foster per il progetto ed erano disposti a tutto e quando arrivai a casa di Annabel e lei non rispose andai in confusione.

La bicicletta era parcheggiata vicino la staccionata e lei non rispondeva alla porta. Sbattei così tanto i pugni che mi feci quasi male, lo feci fino a quando non vidi la porta aprirsi piano e il suo viso comparire inaspettato, anzi desiderato in una maniera indescrivibile. Avevo bisogno di sapere che lei stesse bene. E lei non stava bene, per nulla. Gli occhi erano gonfi, pieni di lacrime che tentava di nascondere, e io mi trovai impotente di fronte a quella fragilità. Lei era così stupenda. Era così stupenda.

Aprii gli occhi, tornai a guardare la baita, le luci erano accese: sia in camera sua che al pieno inferiore, in strada regnava il silenzio.

Tornai a chiudere gli occhi, mi focalizzai di nuovo sul suo sguardo, sulle sue emozioni che avevo percepito quando aveva aperto quella porta.

In silenzio, per tanti anni, abbiamo condiviso tristezze, perdite, paure, mancanze. Ma in silenzio. E lei adesso era in quello stato, lo era spesso? Io non lo sapevo. Passavo da casa sua quando staccavo da lavoro e lei era pronta ad accogliermi, a qualsiasi orario. Ma stavamo ognuno in angoli diversi della casa, capitava a volte che io la seguissi in giro per quelle quattro mura, a scambiarci parole stupide, come: "Tutto bene a lavoro?" E la risposta prontamente arrivava: "Sì". Bevevo poi qualcosa, stavo ancora qualche minuto a osservarla e poi andavo. Adesso però le cose erano diverse e per di più lei stava ancora così male per tutto quello che le era successo. Io in qualche modo lo sapevo, me lo sentivo, ma oggi era stato delirante.

Non voleva che la chiamassi "Bel", a me veniva spontaneo, però, così come chiamarla con il suo nome di battesimo. Da bambino volevo chiamarla con quelle tre lettere, sapevo però che solo tre persone la chiamavano così. Tre persone importanti per tre lettere altrettanto impattive. Forse la donna dagli occhi scuri come la notte dovrebbe andare avanti, quantomeno imparare. Sì. Dovrebbe.

Aprii gli occhi messo in allerta dal fruscio dei fiori e da passi flebili.

«Ti ho portato qualcosa da mangiare, tieni». Era lei, la donna che sognavo a occhi aperti e chiusi, mi aveva portato un piatto di verdure cotte. Si chinò e i capelli raccolti, adesso, in una lunga treccia, scivolarono di lato, dondolando. La guardai negli occhi, non dissi nulla, presi solo la ciotola.

«Penso che ti serviranno». Mi porse anche delle coperte e una torcia. E quando fece per farlo io la presi per la mano e la feci sedere accanto a me. Lei urlò in una risata, sembrò sorpresa e felice, dentro lo fui anche io.

«Cosa fai?!» Chiese ridendo.

«Prendila tu, mettila sulle gambe», ma poi finì che la coperta gliel'adagiai io sul suo corpo esile. Lei era come al solito con i piedi scalzi, mi fece sorridere.

«Cosa fai Dawson?» Chiese ancora.

«Mi godo la notte in compagnia, Bel». La guardai e lei sbarrò gli occhi, poi con un gesto lesto si tolse la coperta e si alzò.

«Ti ho detto che non devi chiamarmi Bel». Era un sussurro. Mi dava le spalle, pronta per andarsene. Ma io mi misi in piedi, l'afferrai per il polso e lei si voltò spontaneamente. Il mento tremava, gli occhi erano lucidi. La lasciai andare.

«Non chiamarmi più». E se andò di nuovo.

Cominciai a pensare che quell'albero fosse maledetto.

🍁

Con le mani in grembo m'incamminai con i piedi doloranti alla baita. Il leggero venticello fece ondulare i ciuffi dei miei capelli, quelli che ribelli si allontanarono dalla treccia, che ancora oggi non capivo di che tonalità fossero, di certo non erano neri, neanche biondi. Erano monotoni, non come la mia vita, però.

Camminando pensavo che le cose sembravano star precipitando. Lui era stato un compagno, un lavoratore, ai miei occhi, e ora si comportava in maniera... troppo... troppo. Non lo sopportavo. Il vestito rosso, che al buio sembrava nero si scostò prepotente. Nonostante fosse quasi arrivata l'estate, il venticello mi fece venire un brivido e la mia mente vagò così lontano nel passato che mi fermai in mezzo al terreno.

Due bambini su questa terra piena di fiori, primule, rose, viole, come il vestitino che quella bambina indossava e poi un albero gigante pieno di foglie verdi come la magliettina che quel bambino dai capelli dorati portava larga. Erano due bambini che passavano il loro tempo a rincorrersi e a ridere. Oh! Le loro risate si sentivano per tutti i sessanta gli ettari di quel terreno e le madri, che nella baita prendevano il the del pomeriggio, guardandoli, sorridevano. La bambina poi si fermò, osservò la sua mamma che s'intravedeva dalla finestra, sì perché quel giorno, come tanti di quelli a quella parte, la donna spostava sempre la tendina per far entrare luce in casa, e sorrise perché vide la madre portare la testa indietro e ridere di gusto. Ma fermandosi, quel piccolo suo amico, che era più grande di lei in statura ed età, l'afferrò e sbarrando entrambi gli occhi caddero a terra. Con la schiena sul terreno entrambi ridevano. Lei voltò il capo verso di lui.

«Fortuna che non ci siamo fatti niente. Ti sei fatto qualcosa Dawson?» D'un tratto il sorriso sparì e lei si mise su un gomito per guardarlo meglio in cerca di qualche graffio. Non ne vide, lui scosse la testa.

Il giorno seguente il bambino aveva il braccio ingessato perché rotto; il pomeriggio prima, durante la caduta il braccio gli faceva male, ma non disse niente alla piccola: non voleva vedere quel cipiglio preoccupato per lui, quel bambino voleva solo che lei ridesse in sua compagnia.

«È tutto okay, non fa male». Le prese la manina e lei mise il broncio.

«Sì che fa male. Scusa se mi sono fermata». Lui le sorrise, lasciò la sua mano morbida e le accarezzò il capo ammirando i suoi capelli caramello.

Lo spazio di Cenere:

Eccoci con il terzo capitolo. Pian piano si aggiungeranno dei tasselli alla storia come ad esempio il rapporto, che sembra essere turbolento e scostante, tra Annabel e Dawson, ma non solo. Fidatevi di me!

Se il capitolo vi è piaciuto, oppure no xd lasciatemi pure un commento con le vostre considerazioni, a me fa sempre piacere leggervi, e una stellina di supporto!

Per qualsiasi cosa mi trovi anche su Instagram: cenere.astrale .

A presto,

- Cenere

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