Capitolo 41

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Nella semioscurità del suo studio, Brandolf Wagner tirò fuori dalla bocca una nuvola di fumo provocata dalla sigaretta che si stava gustando, in tutta pace e tranquillità. Perché quella albergava, da qualche minuto a quella parte. Un silenzio che sembrava estraniare quelle quattro mura dalla guerra che, non poco lontano da lì, si stava combattendo. La terza cosa che amava di più al mondo era proprio tra le sue dita, dopo la politica e le belle donne. Con i piedi sulla scrivania, incrociati, teneva gli occhi puntati sulla mappa che Cameron Vom Mendelson gli aveva fatto avere.

Fort Douaumont era proprio sotto le sue scarpe, in senso letterale. In una pergamena curata, il carboncino prendeva forma. I mattoni che lo circondavano, le entrate, le uscite. C'era persino una copia ma con una descrizione più dettagliata dell'interno. Quante stanze c'erano, dov'erano posizionati gli alloggi, le stanze dei superiori, le tende mediche, l'artiglieria pesante. Tutto sotto i suoi piedi. La mossa decisiva, ciò che gli avrebbe portati ad un netto vantaggio.

Ghignò, allargando le braccia al nulla. Quel niente, quel semplice pezzo di carta, poteva raffigurare una importante mossa per un esito che, il destino, doveva aver già scritto ma faticava a metterlo in atto. Una spinta al fato non avrebbe fatto male, anzi, lui ne aveva avuto un assaggio proprio alcune ore prima.

Non appena la nuvola di fumo di dissolve nell'aria, Brandolf tornò a guardare il suo sottoposto. "Sei stato bravo, Vom Mendelson. Volevi provare a tradirmi ma ti sei ripreso alla grande." Si congratulò in modo sincero. Del resto, teneva molto a quell'uomo. La punta di diamante della sua organizzazione. Li sarebbe dispiaciuto privarsene, molto.

Dal canto suo, Cameron se ne stava lì con lo sguardo serio, falsamente professionale, con una mano ricaduta su un fianco e chiusa in un pugno, ben nascosto agli occhi glaciali del suo capo. "Con tutto il rispetto, Signore, ma non avete risposto alla mia domanda." Disse, cercando di non ringhiare quella frase tra i denti. Fortunatamente, tutto ciò apparì come doveva essere. Una formale richiesta di congedo, giacché il suo incarico era ormai ultimato.

Brandolf sospirò, spegnendo la sigaretta nel posacenere. "E vostra moglie ha disubbidito ad un mio ordine. Sbaglio o vi avevo detto di portarla qui nel mio studio, con voi?" Lo rimproverò, tornando a fissare il suo sottoposto con gli occhi dalla tonalità quasi bianca, davvero inquietante.

"Ha appena perso suo fratello. Si è sentita poco bene e, sinceramente, mi importa più della sua salute." Rispose Cameron, alzando di poco la tonalità della voce, ma sempre nelle linee del rispetto. Un rispetto che sentiva di non provare più per un uomo come Wagner. Ma doveva recitare, se voleva riuscire nel suo intento.

"E sia! Del resto, vi meritate un giusto riposo per i vostri servigi all'organizzazione e alla vostra patria, che vi ringrazia molto." Riprese il tedesco, aprendo un cassetto della scrivania e frugando all'interno per trovare qualcosa. "Spero che l'aria della Germania faccia rinsavire vostra moglie, che la domi un po'." Wagner fece sventolare davanti agli occhi di Cameron un mazzo di chiavi un poco arrugginite, prima di metterle sul tavolo, proprio sotto i suoi occhi chiari. "Potete partire quando volete. Siete ufficialmente congedato. Ah! E portate anche vostra sorella. Suo marito ritiene che la sua presenza, qui, sia totalmente inutile e io concordo con lui."

Cameron fu sorpreso da quelle parole, tanto che temette che ci fosse una trappola ben improntata, sotto quel tono servizievole. "Dite sul serio?"

Il tono di Wagner si abbassò di colpo, come se stesse rivelando qualcosa di strettamente riservato. "Faceva parte dell'accordo mi pare, no? Anche se abbiamo dovuto cambiare le carte in tavola all'ultimo momento. Avrò ancora bisogno di voi, Cameron, ma per il momento rilassatevi e godetevi la compagnia di vostra moglie." Lo rassicurò con tono calmo, confidenziale. Sembrava totalmente diverso dall'uomo che gli aveva ordinato di uccidere quello che, ad onore del vero, era solo un innocente. Ma questo lato di Brandolf non lo sorprendeva più di tanto, perché lo conosceva talmente bene da sapere che faceva parte della sua doppia personalità, pericolosa come una lama affilata.

Cameron prese in mano le chiavi della sua residenza in Germania. Dopo anni, finalmente, poteva mantenere la promessa fatta a sua sorella, almeno in parte. Tornare a casa loro. Le strinse in una mano e, sbattendo i tacchi degli stivali sul pavimento, fece un saluto militare al suo superiore. "Con il vostro permesso, Signore. Partiremo all'alba." In quel modo, sia sua sorella che sua moglie avrebbero potuto riposarsi a dovere. Il viaggio sarebbe stato altrettanto lungo, senza contare che dovevano abbandonare il territorio nemico senza essere scalfiti. Alle prime luci del mattino, si sarebbe orientato meglio.

"Bene. Potete prendere uno dei velivoli dell'esercito, se volete."

"Grazie, ma mia moglie ne possiede giù uno. Basterà. Vi chiedo solo il favore di far scortare mia sorella fino in Germania da un altro soldato." Anche perché, il velivolo di Amelia, era abbastanza stretto per tre persone.

Wagner annuì. "Certamente. Ne abbiamo molti che vagano per il campo senza meta."

"Bene. Allora è tutto. Signore." Lo salutò Cameron, e non appena il capo della polizia li fece un cenno, uscì dalla stanza per recarsi in quella di sua moglie, al piano di sopra. Non appena uscì, si andò a scontrare con Dankmar che portava qualcosa in mano, coperto da un lenzuolo sporco. Non lo degnò neanche di uno sguardo e lo superò.

"Vieni avanti, Dankmar." Lo invitò Brandolf, togliendo i piedi dalla scrivania e alzandosi in piedi. Sperò che il suo sottoposto gli portava buone notizie, ne aveva necessariamente bisogno. "Ebbene?" Chiese, visibilmente impaziente.

Dankmar Schmid tossì nervosamente, mentre scuoteva lentamente la testa. Alcune goccioline di sudore scivolavano via dalla sua fronte, benché il clima fosse tutto tranne che caldo. Era la tensione, il nervoso.... Questo perché non era mai tornato dal suo capo a mani vuote, e si era sempre distinto per aver portato sempre a termine ogni lavoro. Ma quella volta, quando gli aveva chiesto di mandare alcuni uomini nella foresta per cercare la prigioniera russa, aveva miseramente fallito. E si sentiva deluso lui, per primo. "Mi dispiace, Signore, ma... la donna non si trova da nessuna parte."

Brandolf ringhiò tra i denti qualcosa di incomprensibile, sicuramente qualche insulto nella sua lingua, rivolto a quella donna. Dankmar, così come il resto della cerchia ristretta di uomini che servivano il capo della polizia segreta tedesca, pensava che quella donna fosse la reincarnazione del demonio. Altrimenti non si sarebbe spiegato del perché tutta quella collera che Wagner provava per lei. Doveva averlo stregato, con qualche incomprensibile formula in russo... o usato del malocchio. Poteva sottomettere qualsiasi donna al proprio piacere, eppure si era fissato, da quando l'aveva vista, con quella lì. Eppure, era russa, di sangue ebreo, povera di qualsiasi cosa. Certo, era bella e affascinante... ma finiva lì. Ma ovviamente non poteva sapere ciò che passava per la testa del suo capo.

Wagner, infatti, respirò lentamente. "Hai fallito." Commentò in modo aspro, sputando quasi. "Sono circondato da imbecilli! Diavolo, è una donna! Ferita, sola, dubito che possa brandire qualsiasi arma... è così difficile trovarla!?" Chiese, scaraventando contro il muro, esattamente dietro la schiena di Dankmar, il posacenere. Posò entrambi i palmi delle mani sulla scrivania, ringhiando ancora tra i denti parole incomprensibili.

Dankmar deglutì. "Signore, deve essersi nascosta bene."

Ma Brandolf lo ignorò e preferì sapere qualcos'altro. Tirò in su col naso, voltandosi verso il suo sottoposto. "Dimmi, almeno è pronto ciò che ti avevo chiesto?" Chiese, sperando davvero in una risposta positiva.

Il volto di Schmid tornò a rilassarsi, lieto che il suo capo avesse cambiato discorso. "Sì, capo." Rispose, levando il lenzuolo da ciò che aveva in mano.

Quando Brandolf si voltò, anche i suoi di lineamenti mutarono. Non erano più duri o rabbiosi, ma stranamente rilassati. Ciò che aveva commissionato ad un soldato del campo, abile con il carboncino quanto con il fucile, era proprio davanti a sé ed era meraviglioso. Si avvicinò a passi lenti al suo sottoposto, prendendo in mano quella tavola di legno con sopra disegnato il volto di una donna. L'unica donna capace di occupare la sua mente per così tanto tempo. Per gioco, per un semplice capriccio... o per un insano desiderio di possedere qualcosa di così unico. Chiuse le palpebre, passando un dito su i lineamenti delicati della russa ebrea che gli era sfuggita. Era stata una fortuna quando aveva scoperto che, il soldato abile con il carboncino, aveva avuto l'occasione di vedere Raissa una sola volta. Ma era stata abbastanza da imprimere alla perfezione quel volto nel legno chiaro, e un poco sporco di terra, che aveva in mano.

Avrebbe atteso quel giorno... quel momento, in cui avrebbe potuto finalmente stringerla nella sua morsa, di nuovo, in modo più stretto così da non sfuggirle di nuovo. L'avrebbe trovata. Forse alla fine della battaglia, forse proprio alla fine della guerra, o forse anche negli anni a venire. Ma l'avrebbe trovata. E l'avrebbe domata a suo piacimento, togliendole la voglia di ribellarsi. Un ghigno divertito si dipinse sul suo viso ovale, mentre le iridi chiare, simili ad una perla bianca, si andavano a posare in un punto indefinito sul pavimento. Si disse che sarebbe stato divertente giocare al gatto e al topo. E dopo la fine della battaglia contro Verdun ne avrebbe avuto tutto il tempo.

Sarai di nuovo mia, prima o poi.

"Sei congedato, Dankmar. Fa sapere a quel soldato, Fischer, mi pare si chiami così, che può venire a ritirare i suoi soldi quando vuole. Se li è meritati." Dichiarò, facendo cenno con una mano al sottoposto di abbandonare la stanza.

Brandolf tornò alla sua scrivania, stringendo il ritratto di Raissa impresso nel legno. Quella bocca piena a forma di cuore, quegli occhi così grande... lo intrigavano e lo istigavano maggiormente a vincere quella guerra, perché dopo avrebbe iniziato la sua caccia personale. Quella che si sapeva quando iniziava, ma mai quando finiva. E pregustò già l'idea di un trattamento speciale da riservarle, quando sarebbe stata nuovamente sua prigioniera.

****

Amelia se ne stava seduta sul suo letto, in un'altra stanza che gli era stata riservata lì nella villa. Indossava ancora la camicia sporca del sangue del fratello, le mani bagnate della pezza che aveva usato per pulirlo, e lo sguardo rivolto al pavimento. L'espressione era delle più serie, delle più inespressive. Sembrava che il gelo le fosse caduto addosso, privandola di ogni sorriso, di ogni risata, di ogni gioia che doveva possedere una ragazza della sua età. Ma la guerra l'aveva cambiata. Quella battaglia, quegli uomini che si uccidevano a vicenda per il potere, l'avevano cambiata.

Non aveva perso solo un fratello, ma aveva perso anche la sua giovinezza, la sua adolescenza. Nell'istante in cui si era seduta su quel letto, Amelia si sentì invecchiare di colpo, realizzando gli eventi appena accaduti e riordinato le idee nella sua testa. Per quanto poteva riuscirci. I conti finali erano amari e difficili da accettare e la sua unica consolazione era di avere solo Cameron dalla sua parte. Suo marito, che pur di salvarla, aveva ucciso Samuel davanti ai suoi occhi.

Il cuore le tornò immediatamente più pesante, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di lei da quel momento in avanti. La sua domanda trovò quasi subito una risposta. In una porta un poco cigolante. Non le servì voltarsi verso di essa per sapere che era suo marito ad entrare, a farle visita.

"Sei sveglia, Lelia?" Le chiese, entrando di soppiatto nella camera buia, solo illuminata da una candela posta accanto al letto. La fiamma era alta e traballava poco.

"Sì." Rispose in modo secco la giovane, avvertendo un rumore di passi avvicinarsi a lei. Non si voltò verso suo marito neanche quando le si sedette a fianco, a bordo di quel giaciglio malandato e visibilmente usato. "Ti pregherei di non usare più quel nome." Aggiunse, usando un tono incolore e privo di emozioni.

Cameron sospirò appena, stringendole una mano. "Va bene. Immagino il perché e non te lo chiederò." Le rispose, rispettando la sua volontà.

Lelia era il nomignolo che i suoi fratelli le avevano rifilato quando aveva solo dieci anni, poi i suoi genitori avevano preso l'abitudine e quindi veniva chiamata proprio così, spesso e volentieri, usando il nome completo per le cene o eventi formali. Morto Samuel, le sembrava una mancanza di rispetto continuare a farsi chiamare in quel modo. Quei ricordi, senza volerlo, ne rievocarono uno bello. Forse il più tenero della sua infanzia.

"Quando avevo undici anni, io e i miei fratelli, andavamo spesso in un lago, nella casa appartenuta un tempo a mia zia Evelyn. All'improvviso, Leonard mi chiese, scherzoso, a chi voglio più bene dei due." Iniziò Amelia, senza rendersi conto di star sorridendo appena, tra due lacrime che le uscirono dagli occhi lucidi. "Io rispondo ad entrambi. Non volevo dare un dispiacere a nessuno dei due, anche se avevo una preferenza nel mio cuore. Samuel è sempre stato quello diretto, meno riflessivo e più testa calda. Mentre Leonard era sempre pensieroso, faceva un sacco di domande, e all'età di dieci anni cavalcò un cavallo a pelo, senza sella, allargando le braccia al cielo, pensando di essere un uccello." Ridacchiò, ripensando al racconto di sua madre, pulendosi gli occhi con una mano. "La mia famiglia è sempre stata il mio punto di riferimento, l'ancora dove aggrapparmi quando sentivo di affogare. Ora che Sam è morto, mi sento trascinare sempre più giù, sempre più a fondo." Concluse, avvertendo il tono incrinarsi di nuovo. Sospirò, tirando in su con il naso per sforzarsi di non piangere di nuovo. Non sarebbe servito a nulla.

Cameron aumentò la stretta alla sua mano. "Da oggi sarò io la tua ancora. Di me potrai sempre fidarti, Amelia."

"Il punto è che non so cosa mi succederà. Dove andremo? Mio fratello resterà in vita? Se la caverà?" Chiese tutto d'un fiato, irrigidendosi al pensiero di perdere l'ultimo fratello rimasto in vita. Il suo Leonard dagli occhi blu.

"Ce ne andremo. E dopo la guerra, tenterò di mettermi in contatto con Leonard. Sta tranquilla, se le cose vanno come devono, lo rivedrai." Cercò di tranquillizzarla, ben sapendo che stava per rifilare alla moglie una di quelle bugie imperdonabili. Perché sì, Leonard poteva salvarsi, ma sul fatto della riconciliazione tra i due, ne dubitava. Ma preferiva dare ad Amelia una falsa speranza a cui aggrapparsi, che lasciarla affogare nel suo mare. Troppe lacrime aveva versato in esso, troppo dolore aveva sopportato.

"Dove? Come?" Chiese la giovane, visibilmente interessata a quel particolare.

Cameron le fece tintinnare davanti agli occhi le chiavi della sua residenza, in Germania. "Wagner mi ha congedato. Domani all'alba, io e te partiremo per Berlino e resteremo lì fino alla fine della guerra. Poi, soppeseremo il da farsi." Le illustrò il piano, l'unico che sicuramente non sarebbe fallito.

"Quando arriveremo, potrò scrivere una lettera ai miei genitori? Voglio che sappiano che sono viva e che sto bene." Chiese ancora, pensando a quanto dovevano essere preoccupati sua madre e suo padre. Si fece coraggio nella speranza che, dopo la guerra, avrebbe rivisto anche loro. Come gli aveva detto suo marito.

"Ma certo! Sta tranquilla." Mentì il tedesco, accarezzandole i capelli. "Ora dovresti riposare. Il volo domani sarà abbastanza lungo." Le disse, cambiando discorso con rapidità per non tradirsi con qualche parola di troppo.

Amelia si irrigidì di colpo, al pensiero di dover stare da sola per tutta la notte. "Resta con me. Non voglio dormire da sola." Lo pregò con gli occhi lucidi. Aveva paura di qualche incubo che avrebbe avuto e voleva avere la sua ancora al proprio fianco, capace di riportarla alla realtà. Per quanto amara poteva essere, era meglio sapere di avere lui, che non avere proprio nessuno al mondo. Non lo incolpava per ciò che era successo, anche se avrebbe voluto morire lei, piuttosto che suo fratello. Ma sapeva anche che Cameron non l'avrebbe mai permesso.

Il tedesco annuì con espressione serena. "Va bene." Acconsentì, togliendosi la giacca della divisa, le scarpe e i pantaloni. Preferì restare solo con la camicia. Quel letto era piccolo, ma si sarebbero stretti di più per entrarci. Vide sua moglie spogliarsi con mani tremanti, lasciando tutto lì su una sedia, prima di raggiungerlo nuovamente a letto. Poggiò la testa sul suo petto, lasciando che gli stringesse una mano. Le ci volle poco, perché avvertì il respiro farsi sempre più pesante, come se si stesse trattenendo qualcosa. "Piangi, Amelia. Se vuoi farlo, fallo." Le disse, rivolgendo lo sguardo al soffitto.

Amelia sciolse il nodo che aveva alla gola e pianse sul petto del marito, con il pensiero del corpo di suo fratello, gettato in una fossa, che l'angosciava. Fu all'improvviso che ebbe un'idea. L'unica capace che potesse metterla in pace con sé stessa e con i defunti. "Devi farmi un favore, Cameron." Mormorò tra le lacrime e i singhiozzi.

Un poco assonato ma ancora sveglio, il tedesco attizzò le orecchie. "Dimmi."  

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