Capitolo 6

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Non aveva mai avuto paura dell'altezza.

Non era mai stata una bambina che aveva le vertigini quando si trovava ad un gradino più alto, rispetto agli altri. Benché meno della velocità. E il giro che suo fratello le aveva promesso, il giorno del suo compleanno, non era altro che una piccola giravolta in aria, ad un'altezza non proprio pericolosa.

Il giorno dopo erano iniziate le lezioni private di pilotaggio. Come aula avevano usato il garage di Maurice e lì, Leonard Putnam, insegnò a sua sorella di soli diciassette anni tutto ciò che doveva sapere sui biplani, monoplani e velivoli in generale. Infatti, non si era limitato solo a parlarle del velivolo che avrebbe manovrato da lì a qualche mese, ma anche di quelli usati dagli alleati e nemici nella guerra. Amelia ascoltava con fare attento, appuntando su un libro dalla copertina marrone e un poco logora tutto ciò che poteva esserle utile: come manovrare un velivolo in caso di turbolenze in aria, in caso di temporali improvvisi, e come atterrare facendo in modo di uscirne indenne. Restavano addirittura ore chiusi lì dentro e, verso tarda sera, quando rientravano, incrociavano un Maurice sorridente, lieto di vedere due fratelli così uniti. Anche se i due concordavano sul fatto che non sarebbero mai stati completi, almeno non prima del ritorno di Samuel.

Non avevano più ricevuto alcun telegramma e, a detta di Madame Le Blanche, neanche al bordello era arrivato nulla. Tutto nella norma, si ripeteva Amelia, la nave dov'era imbarcato doveva aver già raggiunto Liverpool. Poteva tornare in ogni momento.

Era il secondo giorno di lezioni ed Amelia non faceva che ammirare il suo monoplano, maestoso e fermo nel garage di Maurice. Il grande giglio al lato sembrava invocare a gran voce il suo nome, sembrava sussurrargli avventure d'oltremare ed esplorazioni storiche. Quel giorno imparò grandi cose sui motori e la tenuta dei velivoli. Smaniava dalla voglia di volare nel cielo blu, di circondarsi dalle nuvole, di poterle addirittura toccare. Ah, che bellezza sarebbe stato poi... raggiungere suo fratello a bordo del Lusitania, di rientro da Liverpool!

I sogni infantili, però, venivano ben presto distrutti dalle autoritarie parole di Leonard, che aveva riso all'idea di raggiungere Samuel nel bel mezzo del mare aperto.

"Hai ancora molto da imparare, Lelia. E poi come pretendi di far atterrare il tuo monoplano sul Lusitania?" Chiese in modo ironico, incrociando le braccia al petto e assumendo una classica espressione di un adulto che derideva una bambina dei suoi sogni infantili.

Puntualmente Amelia mise il muso, arricciando il naso dritto e bianco, dalla punta leggermente rosata per via della troppa cipria. "Vedrai se non diventerò un pilota di aerei in gamba!"

Leonard aveva riso e le aveva dato un buffetto sul naso. "Coraggio, guerriera, continuiamo la lezione."

E il fratello maggiore aveva continuato a spiegare fino alle otto di sera, quando anche Maurice annunciò il suo rientro a casa per la cena. Allora anche i due fratelli si erano congedati. Nel raccogliere le proprie cose, Amelia lanciò ancora uno sguardo al suo monoplano. Le era sconosciuto su quanto i due fratelli avessero speso per quel regalo, ma era certa che Maurice aveva fatto loro un buon prezzo, proprio per l'amicizia che li legava da anni, da quando la piccola Putnam era ancora piccolina e vedeva le cose alla sua altezza. Quando aveva cinque anni ricordava che Sam la prendeva in giro, accomunandola ai nani da giardino che decoravano il cortile della loro residenza, modesta ma elegante. E poi era cresciuta, quanto bastava, e il paragone era diventato inutile. Amelia sentiva di conservare ancora qualcosa della bambina che si apprestava a lasciare quel corpo. Lo era ancora, fondamentalmente, nei gesti, nei comportamenti e persino nelle abitudini. Quando c'erano i fulmini si rifugiava ancora da suo fratello e piangeva per un nonnulla. Ma il suo corpo era cambiato, quello riusciva a vederlo da sola.

Negli anni il seno era cresciuto e anche adesso, a diciassette anni compiuti, riusciva a sentirlo più tondo, più formato, più sodo. Anche i fianchi le si erano allargati, così come le gambe più slanciate e le labbra più carnose, più piene. Anche se Carin, una delle domestiche, ripeteva che non era giusto che una ragazzina della sua età si mirasse in continuazione allo specchio. Di quel passo sarebbe diventata sfacciata, una ragazzetta facile. E giustamente, raccontato ciò a Mrs. Putnam, erano piovute altre critiche e rimproveri su di lei.

Il cortile della residenza era ancora illuminato, le siepi ben curate e le auto parcheggiate nel garage ancora aperto. Le luci all'interno erano già accese. Le stanze che solitamente venivano illuminate per prima erano la sala da pranzo, la cucina, e il soggiorno, dove suo padre sorseggiava del brandy fumando un sigaro a fine giornata. Mrs. Putnam se ne stava seduta su una panchina a leggere un libro fino all'imbrunire, ma stranamente c'era un'altra luce accesa. Quella della camera dei genitori.

Entrando nella hall, Leonard e Amelia trovarono solo Adelle a riceverli. Lo sguardo costruito su una smorfia di circostanza e un sorriso tirato si aggiungevano ad un flebile saluto ai padroni appena rientrati.

Leonard alzò un sopracciglio, aprendosi il colletto della camicia sul davanti per il caldo. "Che succede? Dove sono i miei genitori?"

Adelle ci mise due minuti buoni per rispondere, cosa che sorprese anche Amelia. Solitamente era, tra i pochi membri della servitù, quella più chiacchierona. Chi aveva osato mangiarle la lingua? Se Amelia risultava rilassata o addirittura divertita, Leonard assunse un'espressione più cupa e seria.

"Suo padre l'attende nel suo studiolo, signorino Putnam." Disse la donna, deglutendo e pulendosi nervosamente le mani imperlate di sudore sul grembiule bianco che le circondava la vita.

"Ah, bene! Non vedo l'ora di raccontargli quello che ho imparato oggi." Esclamò allegra la bionda, avanzando verso il soggiorno. Ma Adelle la fermò, prendendola per un braccio.

"Signorina Amelia, Mr. Putnam ha richiesto la presenza solo di vostro fratello." Annunciò poi, osservando dapprima la ragazzina e poi il diretto interessato.

Fu proprio quest'ultimo a parlare. "E' successo qualcosa a Raissa?"

"Ve lo dirà lui, padrone. Non sono tenuta a dare spiegazioni."

Leonard osservò il volto della sorella, spiazzato da quella risposta ma non allarmato. Che diamine erano quelle mezze risposte? Perché non si sentiva la voce di sua madre rimproverare Carin per non aver apparecchiato correttamente la tavola? Perché non sentiva il bisbigliare allegro delle domestiche pettegole? Perché non avvertiva la presenza di suo padre vicino al tavolo da bigliardo, entrando nel soggiorno? Perché tutto gli appariva così... morto?

Leonard lasciò sua sorella nella hall, avanzando verso una piccola porta che collegava il soggiorno con una stanza da tre pareti strette. L'angolo di riflessione di suo padre, dove correggeva le bozze al giornale e dove lavorava fino a notte fonda per un articolo importante. La sensazione di disagio non diminuì, osservando la figura del genitore di spalle, seduto su una poltrona antica, un bicchiere vuoto stretto in una mano e lo sguardo rivolto davanti a sé. Era successo qualcosa, ne era certo.

"Padre?" Lo chiamò ma non ottenne nessuna risposta.

Chiuse la porta alle sue spalle e con passo cauto si avvicinò alla scrivania piena di scartoffie, di fogli sparsi qua e là, anche sul pavimento. Erano tutti articoli di giornale. Non si soffermò troppo sui titoli, neanche quelli scritti a lettere cubitali, e finì col raggiungere il genitore che ancora non si era accorto della sua presenza.

"Che sta succedendo, padre? State male?"

Finalmente Daniel Putnam si voltò verso suo figlio, il suo secondogenito. Colui che aveva scelto una carriera di studi, piuttosto che una militare. Colui che era conosciuto come quello dall'animo calmo e riflessivo della famiglia. Mr. Putnam provò ad alzarsi ma fu nuovamente costretto a risedersi. La testa era un misto di voci e sussurri confusi, girava come una trottola e se non fosse stato per quella sedia sarebbe finito sul pavimento.

"Padre? Rispondetemi! Perché avete chiesto a Adelle di farmi venire qui? È successo qualcosa a Raissa? Vi supplico, parlate!" Esclamò Leonard, alzando di poco il tono della voce. Cosa che non scompose il genitore, che rimase con espressione impassibile a guardarlo, seduto a peso morto sulla sedia.

"Lei sta bene." Si limitò a dirgli, con tono calmo come se non fosse accaduto nulla, come se fosse tutto dannatamente normale.

Leonard tirò un sospiro di sollievo, poggiando le mani sui fianchi. Per un attimo aveva temuto il peggio. "E allora che accade? Cos'è questa faccia da funerale? La mamma ha ricominciato di nuovo con la storia del matrimonio di Amelia scommetto. Ne abbiamo già parlato..."

"Non è tua madre!" Urlò improvvisamente l'uomo. Leonard sobbalzò accanto alla scrivania, arretrando di un passo. Lo guardò e notò che la sua espressione era mutata. Da impassibile era diventato agitato, scontroso come non lo era mai stato, e ogni sua parola era uno strillo. Inno a qualcosa che lui non comprendeva. Daniel respirò con fatica e quando Leonard si avvicinò per chiedergli cos'avesse, di nuovo, il ragazzo si rese conto che gli occhi del genitore si stavano inumidendo di lacrime. Istintivamente, quasi come se fosse consigliato da una presenza invisibile, guardò sulla scrivania. Un articolo di giornale riportava delle parole dette dal presidente Wilson, direttamente dalla Casa Bianca. Prima ancora che potesse allungare una mano per leggerlo, le parole di Daniel Putnam riuscirono a bloccarlo e a ghiacciargli il sangue nelle vene. "Mio figlio è morto."

La tensione inghiottì l'intera stanza e chi c'era dentro.

Leonard osservò il genitore, solo per un istante, per comprendere se avesse capito bene. E come a leggergli nella mente, con un urlo straziante, ripeté: "Mio figlio è morto!" Il giovane si scansò appena in fretta, perché il bicchiere che stringeva l'uomo poco prima andò a frantumarsi a pochi passi da dov'era lui prima. Ansimando, sentiva che le forze iniziavano ad abbandonarlo.

Doveva fermarsi, riflettere, pensare.

Si chinò a terra, mentre il pianto addolorato dell'uomo seduto alla scrivania fungeva da una sonata da pianoforte adatta ad un momento del genere. Samuel, suo fratello, era morto. Ma come poteva essere successo? Non erano supposizioni. Altrimenti suo padre non si sarebbe lasciato andare così, alla disperazione. Doveva essere una cosa certa.

"Come... come è successo?" Iniziava a perdere anche la voce, oltre che alla forza.

"I tedeschi hanno... hanno affondato il Lusitania, ieri pomeriggio." Riuscì a dire Mr. Putnam, prima di ripiombare di nuovo nell'angoscia e nella tristezza.

Sembrava la domanda più sciocca del mondo. Come è morto? Eppure, in momenti del genere, sembrava la cosa più sensata da poter dire, anche per uno come lui. Leonard riuscì a rialzarsi a stento, poggiando la mano su uno scaffale vuoto. Vuoto come il cuore di ognuno di loro, come lo sguardo di chiunque si sarebbe fermato, anche solo per un istante, a ricordare il giovane Putnam, l'eroe che tutti avrebbero voluto per figlio e fratello. E Leonard doveva sentirsi orgoglioso di poter dire di averlo conosciuto sotto il miglior ruolo che poteva esserci, quella di guida come fratello maggiore. Pochi anni di differenza tra loro, ma era noto a tutti quanto i suoi genitori erano devoti più al primogenito che a lui. E non vi era gelosia in quel pensiero, talmente sciocco in un momento come quello.

Di quella sera, Leonard Putnam non ricordò molto. Di lui si sarebbe detto che aveva preso la notizia con una calma sconcertante, quasi innaturale per un ragazzo che perde un fratello. Ma sentiva che, essendo l'ultima colonna di un palazzo prossimo a crollare, toccava a lui reggere tutto in piedi. Toccava a lui consolare, abbracciare, chiunque si sarebbe presentato alla loro porta. E inevitabilmente toccava ancora a lui a dare alla sorella quella notizia, una notizia che mai avrebbe pensato di dare. Come sarebbe riuscito a far comprendere ad una ragazzina di diciassette anni le atrocità della guerra? Come poteva rifilarle la scusa del posto migliore, dell'angelo custode che l'avrebbe protetta e tutte le altre belle parole che avevano rifilato a lui a tutti i funerali alla quale, da bambino, aveva assistito?

Diplomazia. Impassibilità. Emozioni che nascondevano una tristezza persino troppo grande da esporre dinanzi agli occhi della propria sorella.

La hall era caduta in uno strano silenzio, ancora più inquietante di quando erano entrati. Di sfuggita, Leonard riuscì a scorgere le domestiche nella cucina. Adelle, soprattutto, uscì con un vassoio d'argento e una tazza con una tisana fumante, diretta verso le scale. Rivolse al giovane padrone un'occhiata di circostanza e poi salì i gradini che l'avrebbero portata da una distrutta Mrs. Putnam.

Trovò Amelia seduta su una seggiola, accanto all'attaccapanni, che dondolava le gambe con fare infantile e annoiato. Leonard tirò in su col naso, manifestando la sua presenza.

La bionda scattò in piedi. "Finalmente! Ma cos'erano tutte quelle urla? Papà sta bene?"

Il ragazzo si intenerì dinanzi al tono così preoccupato della sorella. Trovandosela davanti, improvvisamente, gli venne difficile anche iniziare il lungo discorso che avrebbe portato alla notizia conclusiva della morte del loro fratello maggiore. La loro guida gli aveva lasciati per sempre. Non avrebbero più parlato, non avrebbero più scherzato e non ci sarebbero più stati i classici battibecchi che avvenivano tra fratelli.

Quei soli pensieri furono ancora sufficienti per farlo crollare. Leonard cadde in ginocchio.

"Leo! Che succede?" Chiese la voce di Amelia, maggiormente preoccupata, accasciandosi alla sua altezza sul pavimento. In quell'abitino rosa pizzo sembrava un piccolo confettino, con i capelli acconciati in una treccia che le arrivava sin sotto le spalle.

Gli occhi chiari di Leonard luccicavano di lacrime che a tutti i costi voleva reprimere e, come se riuscisse a leggergli nella mente, Amelia intuì che qualcosa di grave era accaduto.

"Oh, mio Dio!" Si portò le mani alla bocca. "Raissa sta bene, vero?"

"Sì, sta bene." Riuscì a mormorare in risposta, esattamente come il padre aveva fatto con lui qualche minuto prima.

Amelia lo guardò per un momento. Si guardò intorno, perdendosi nel silenzio di una casa che aveva visto giorni migliori. Sua madre non era scesa per accoglierla o rimproverarla, suo padre non stava giocando a bigliardo con suo fratello, e le domestiche erano stranamente silenziose. Il suo cuore sembrò fermarsi, in quel petto di donna che si apprestava ancora a crescere. Il tempo sembrò fermarsi nello stesso istante in cui Leonard strinse gli occhi con forza, cacciando delle lacrime che manifestavano l'enorme dispiacere.

"Leo..." Con una mano delicata come i petali di un fiore, Amelia sollevò il mento un poco barbuto del fratello. Lasciò che questo aprisse gli occhi, gli sarebbe bastato una frazione di secondo. In cui avrebbe visto la verità che celavano quelle lacrime. Quando lo fece, Amelia si sentì quasi mancare. Deglutì. "Sam... sta bene, vero?" Ansimò per tutto il tempo in cui Leonard incamerò quella domanda. Si limitò a tirare per un braccio la sorella contro di sé, facendola rifugiare sul suo petto.

"Mi dispiace, Lelia. Sam è..." Riusciva a pensare a malapena a quella parola, figuriamoci a dirla.

Amelia sembrò dimenticarsi di respirare per due minuti buoni. Tra le braccia di Leonard tutto le appariva più sicuro, tranquillo... ma non quella volta, non con quella notizia. Le lacrime iniziarono a salirle agli occhi, inumidendo quel colore aquatico così bello. Non avrebbe mai più scherzato con lui, non l'avrebbe mai più abbracciato e non l'avrebbe mai raggiunto nel mare aperto mentre lei pilotava il suo monoplano. I bei sogni venivano distrutti dalla realtà, dalla tristezza e dall'angoscia. Quando si fece strada dentro di lei la consapevolezza che Samuel non sarebbe più tornato, il nodo che sembrava serrarle la gola andò a sciogliersi e il suo pianto si unì a quello di suo fratello.

"Sam... no. Non può essere!" Esclamò quasi in un sussurro. "Lui doveva tornare. L'aveva promesso. Lui mantiene sempre le sue promesse."

"Non questa volta, Lelia."

"Non ti credo. Lui sta per tornare, lo so." Disse lei, alzando lo sguardo per guardare il fratello negli occhi umidi come i suoi. Occhi di chi non voleva ancora credere alla notizia appena ricevuta.

"Ti prego, piccolina. Basta. Samuel non tornerà mai più." Ripeté ancora una volta, un poco commosso dal carattere forte della sorella, il suo non volersi arrendere neanche all'evidenza.

"Non ti credo!" Urlò, allontanandosi dal fratello per scattare in piedi. "Sam tornerà. Perché ci vuole bene e ha promesso di tornare!" Le lacrime le offuscavano la vista, ma non abbastanza da fermare il suo spirito da guerriera. Voltò le spalle a Leonard, incurante dei suoi singhiozzi, e aprendo la porta di casa, scattò fuori in una folle corsa. Attraversò il cortile e uscì in una strada deserta, illuminata da pochi lampioni.

Nessuno avrebbe notato la sua assenza. Nessuno l'avrebbe fermata.

Doveva andare da suo fratello, corrergli incontro, andare al porto. Perché lui era lì, con il suo bagaglio, i suoi affetti, e la sua divisa verde scintillante. Era lì e la stava aspettando. Lei, i suoi genitori, Leonard e anche Raissa. Lui stava aspettando tutti loro e non si presentavano. Amelia continuò a correre, con il vento estivo che le asciugava le lacrime e la gonna di pizzo dell'abito che si alzava e sporcava di polvere allo stesso tempo.

Correva, nella speranza di trovare qualcuno.

Correva, nella speranza di riabbracciare suo fratello.

Correva, perché fondamentalmente era l'unica cosa che potesse fare.

E arrivò quel momento dove la tristezza lasciò spazio alla stanchezza. Anche se avrebbe ritardato un po' suo fratello non si sarebbe arrabbiato. Tanto lui era lì al porto... e l'avrebbe attesa. Con la schiena a ridosso di un muro di mattoni, Amelia si accasciò al suolo, lasciando che il suo cuore riprendesse un ritmo regolare. Chiuse gli occhi, lasciando che le ore passassero sulla sua testa, sulla sua figura addormentata in mezzo alla strada. Riaprì gli occhi spenti che intorno a lei c'era la luce. Il buio aveva lasciato lo spazio ad un pallido sole che si nascondeva dietro la nebbia che avvolgeva la città di Riverdale.

Quanto tempo aveva dormito? Non poteva saperlo.

Poi ricordò tutto, passo dopo passo. Leonard e lei che rientravano in casa, la domestica che chiedeva al fratello di raggiungere Mr. Putnam nel suo studio, e la notizia della morte di Samuel. Amelia rabbrividì, camminando come un fantasma in mezzo alla nebbia, senza una meta precisa. Il corpo era lì, ma la mente era altrove. Tanto che quando si ritrovò in un giardino pubblico, con un arco e delle colonne le sembrò di avere delle allucinazioni. Lì, in mezzo alla nebbia, c'era un soldato.

Un sorriso stanco e triste curvò le sue labbra. "Samuel!" Ritrovando una strana forza, prese a correre verso la figura che si nascondeva nella coltre di nebbia che avvolgeva la città nelle prime ore del giorno. La ragazza si fermò in mezzo al parco, sotto il grande arco ovale dalle colonne bianche. Si fermò come il suo cuore, il suo entusiasmo, il suo respiro. Non c'erano gli occhi piccoli e dolci del suo Samuel. Vestito con quella divisa militare vi era qualcun altro... qualcuno che non era suo fratello.

"Amelia." Anche il tono era diverso e prima ancora di poter vedere il volto dello sconosciuto, la ragazza capì che suo fratello non c'era più. Comprese che la notizia della sua morte era vera, dolorosa, ma esistente. Tremò, ricordandosi di aver passato ore sotto un cielo notturno, senza dar notizie di lei ai suoi genitori o a Leonard.

Saranno preoccupati.

Oppure no. Chi avrebbe badato a lei con il lutto che inghiottiva la sua famiglia? Nessuno.

L'ombra creata dal tetto di quella specie di gazebo di marmo, le rivelò un volto barbuto, una divisa militare dei marines molto simile a quella del fratello, se non uguale. Le rivelò due occhi chiari che la scrutavano curiosi, che sembravano conoscerla quanto in realtà lei non l'aveva mai visto. Ansimò ancora, guardandosi intorno in cerca della sua bussola, in cerca di suo fratello. Ma lui non c'era.

Lui non verrà, Amelia. Non tornerà mai più. Le rivelò una vocina interiore nella sua testa.

Le lacrime tornarono a bagnarle il volto. Iniziava a sentire un lieve pizzicore alle guance e istintivamente si chiuse le braccia al petto coperto dall'abito merlettato di rosa pastello, con le maniche a sbuffo sporche di polvere. "Ch-chi siete?" Balbettò, sperando che le sue parole potessero arrivare allo sconosciuto chiare e concise. Non era certa di potersi ripetere.

L'uomo si levò il berretto della divisa, facendolo oscillare lungo il suo fianco. "Sono il maggiore Cameron Mendel, mrs. Putnam."

Amelia si accigliò. Sapeva il suo nome e sapeva anche il suo cognome. "Come fate a sapere il mio nome, maggiore?"

Il soldato tese le labbra in una linea dritta. "Ero... nella squadra insieme a vostro fratello."

L'angoscia tornò ad avvolgerla. Talmente tanto che riuscì a tirar fuori dalle sue labbra solo un comunissimo e banale: "Oh".

"Vi ha parlato di me?" Osò chiedere, lasciando che due lacrime le rigassero il volto. Le due di una lunga serie.

"Sì. E della vostra famiglia. Sono venuto proprio per darvi la notizia... ma a quanto vedo le notizie corrono per essere solo il terzo giorno." Rispose con un tono sorpreso il maggiore, riferendosi ai mille titoli a lettere cubitali che infestavano i giornali locali, di New York e di tutti gli Stati Uniti. Ormai tutta la popolazione americana era a conoscenza della tragedia scoppiata in mare.

Amelia abbassò lo sguardo, confusa. Cosa avrebbe dovuto fare? Invitarlo a casa? A prendere un thè e ringraziarlo del viaggio invano che aveva fatto?

"Maggiore Mendel..."

"Vi prego, signorina Putnam, chiamatemi Cameron." La interruppe lui, tenendosi il berretto con due mani.

"Maggiore andrà benissimo, per il momento." Il tono risuonò brusco ma era l'unico che fosse capace di adottare in un momento del genere. Era ancora tremendamente sconvolta ed era già un miracolo che riuscisse a mettere due parole insieme di senso compiuto. "Siete sopravvissuto solo voi?" Chiese, tornando a guardare il volto contratto in una smorfia mortificata dell'uomo. Che bisogno aveva di fingere ad essere dispiaciuto per qualcuno che nemmeno aveva conosciuto bene? O forse erano amici stretti lui e il fratello scomparso? Samuel non gli aveva mai parlato di un certo Cameron Mendel, anche se quando era a casa cercava di tenere la carriera militare alla larga dalla sua famiglia.

"In una locanda qui vicino alloggia anche il tenente generale, Andrew Lovett. Gli unici sopravvissuti siamo io e lui. Volevamo porgere le nostre più sentite condoglianze alla vostra famiglia." Spiegò brevemente l'uomo.

Amelia si fidò. Ella girò la schiena e iniziò a camminare nell'erba bagnata dall'umidità mattutina. "Conoscevate mio fratello?" Senza chiederglielo, sentì il maggiore seguirla a grandi falcate e con due semplici passi gli fu a fianco.

"Non troppo bene come avrei voluto, signorina Putnam. Però parlava sempre di voi, dell'altro suo fratello, della sua famiglia e della sua fidanzata."

Raissa.

Il pensiero della donna gli procurò una fitta al cuore. Chi si sarebbe preso il compito di darle quella brutta notizia? Ammesso e concesso che qualcuno non avesse portato i giornali al bordello. Era certa che Leonard avrebbe preso la macchina nelle prime ore del giorno e sarebbe corso a City Island prima che qualcuno potesse arrivare prima di lui.

"Signorina Putnam." La chiamò Mendel, costringendola a fermarsi prima di uscire dal cortile e tornare in strada, lì dove si era appisolata. Amelia lo guardò, senza dire nulla e lo lasciò continuare. "Vostro fratello ha combattuto per la patria per diverso tempo ed è morto nel modo più stupido che possa esserci. Ma è morto per la sua America, per il suo popolo e per la sua famiglia. Voi dovete essere orgogliosa di lui."
La bionda alzò un sopracciglio. "Lo sono, maggiore Mendel." Non aveva bisogno certo di quell'individuo per essere orgogliosa di suo fratello maggiore. Era... fermò il flusso dei suoi pensieri, così come i suoi piedi. Già, si disse, da quel momento doveva usare il passato quando si riferiva a lui. Il vuoto tornò a colorare i suoi magnifici occhi verdi.

Mendel si fermò un passo dietro di lei. "Perdonatemi. Sono l'ultimo a dover dare consigli fraterni, ve lo garantisco." Riposizionò il berretto sulla testa, tornando a nascondere i capelli neri tagliati a spazzola, come richiedeva il codice militare. "Ma permettetemi di riaccompagnarvi a casa. Le strade non sono sicure in questo periodo."

Ma cos'era quell'atto di pietà che sentiva nella sua voce e le procurava un fastidio enorme? Chi era, a parte un ex compagno di suo fratello, per potersi permettere certe confidenze? "Maggiore, non vorrei essere brusca con voi, ma preferirei tornare da sola. Vi garantisco che le strade, qui a Riverdale, sono sicure. Più qui che in mare aperto." Rispose, guardandolo negli occhi. Alla fioca luce del pallido sole, Cameron Mendel appariva come un uomo qualunque, anzi... appariva come un visitatore in terra straniera. Il suo inglese poi non era neanche perfetto. "Arrivederci, maggiore." Lo salutò frettolosamente, riprendendo poi la sua andatura sicura e rapida verso la strada di casa, come se avesse il diavolo alle calcagna.

Mendel non la seguì, se ne rimase lì a guardarla andare via, provando un senso di pena per lei. Quella ragazzina aveva appena perso il fratello e lui si metteva a fare scuola di vita? Proprio lui poi? Sospirò, sistemandosi la giacca della divisa e tornando verso la locanda dove era arrivato con Andrew Lovett neanche cinque ore fa. Dopo l'affondamento del Lusitania niente era stato come prima. Un senso di impotenza cercava di prendere il sopravvento sulla sua figura, su di lui. Imbucò una missiva, guardandosi intorno, e rientrò nel suo alloggio. I suoi fantasmi continuarono a torturarlo anche per quelle poche ore di sonno a lui concesse.





Wolf's note:

Finalmente ci siamo riusciti!

Purtroppo il lavoro mi ha portato via parecchio tempo e dal 15 Maggio che dovevo aggiornare... ci riesco solo oggi 3 Giugno. Chiedo umilmente scusa a tutti voi per il disagio! Mi auguro che non capiterà una seconda volta, mi organizzerò bene. 

Qui arriviamo alle prime reazioni della famiglia Putnam alla morte del figlio, Sam. Nel prossimo capitolo avremo modo (piccolo spoiler) di vedere anche la reazione di Raissa. Mica ce la vogliamo dimenticare proprio adesso, no? 

Ora, salvo imprevisti, il nuovo capitolo dovrebbe vedere la luce Mercoledì 13 Giugno. In caso contrario vi consiglio di tener d'occhio la mia pagina facebook e de la mia pagina d'autrice qui su Wattpad per eventuali avvisi, ma vi anticipo che non dovrebbero esserci. Il link è cliccabile dalla mia pagina d'autrice qui su Wattpad. <3

Colgo l'occasione per ringraziare, come sempre, tutti voi lettori che con messaggi privati e non mi sostenete sempre e sostenete anche la storia. Sempre lieta che vi piaccia! <3 E non mi resta che darvi appuntamento a Mercoledì col nuovo capitolo. 

Quale data dovete segnare sul calendario? Mercoledì 13 Giugno! 

Un abbraccio e al prossimo capitolo!

Wolfqueens Roarlion.


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