❥ 𝕭iancaneve

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Mi svegliai con la nausea, quella mattina, con tanto di testa che girava e occhi che parevano vorticarmi nelle orbite.

Il trip era arrivato, alla fine, simile a un pittore curioso che si era divertito a intingere i suoi polpastrelli nelle pupille nere e si era sollazzato a deturpare il colore chiaro delle iridi. Azzurro, azzurro cielo, azzurro mare, azzurro onesto e leggermente strabico, azzurro come i puffi che vedi sgambettare qua e là sotto acido.

Acidi, quelli sì che erano viaggi pazzeschi, non come quella merda da reparto di geriatria che avevamo buttato giù come surrogato, perché neppure quando si trattava di droga potevamo permetterci qualcosa di decente.

Si fotteva di freddo in camera mia, perché Luca era andato via chissà quando dimenticandosi di chiudere la finestra. Stronzo.

Avevo dormito quattro ore e sedici minuti in tutto, senza uno straccio di lenzuolo o coperta sopra, e tutto quello che riuscivo a fare in quel momento era concentrarmi sulle mie palpebre: mi incaponii, non volevo sbattessero più di una volta al minuto. Che poi, a ben vedere, i sessanta secondi del mio tempo mentale chissà quanto erano nella realtà.

Non so quanto tempo rimasi a fissare il soffitto, ma poi un rimasuglio di puro istinto di conservazione mi spinse a rinunciare all'impresa di battere il mio record e a ciabattare verso la cucina, dove mia madre - udite, udite - se ne stava a impilare vasetti tarchiati o allungati, zittiti da coperchi a scacchi rossi e bianchi. Uno sull'altro, ordinatamente e con una calma che stonava col contesto quanto Gino Paoli in un gruppo punk.

Con gli occhi rossi di una posseduta, me ne andavo tranquillamente in giro per il suo regno da casalinga alienata e mia madre non si accorse di niente. Niente.

Solo quando mi avvicinai a lei, allungandomi sulle punte per raggiungere il ripiano della credenza intossicata di polvere
nella spasmodica ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, smise di canticchiare quel suo solito motivetto antico tra le labbra. Scrollò le spalle spigolose quando, nel movimento, la sfiorai involontariamente; a confermarmi che si fosse accorta della mia presenza solo in quel momento, il sussulto quasi impercettibile delle clavicole asimmetriche.

Avevo ereditato da lei quella stessa caratteristica fisica, ma lei non avrebbe mai visto le mie sporgere affilate e impietose sotto la pergamena di pelle sfilacciata e scarna, dato che in casa giravo sempre con strati e strati di vestiti pesanti e informi per ripararmi da tutta quella umidità che mi faceva avere l'impressione di vivere nelle cazzo di segrete del castello della Regina psicotica di Biancaneve.

«Ho fatto la marmellata.» cinguettò accennando l'ombra di un sorriso stanco. «La Signora Biggi, stamattina mi ha portato le arance che le sono avanzate dal mercato. Così ho fatto la marmellata, la preferita di tuo padre.» precisò quando si accorse che continuavo a fissarla con la mia Girella stantia bloccata tra i denti e un sopracciglio sollevato fino all'attaccatura dei capelli.

Non poteva saperlo, ma in realtà tutto il mio essere in quel momento era sigillato nel gioco del monobattito palpebrale.

«Così avremo marmellata di arance per le colazioni primaverili, magari se si mette la bella stagione, possiamo farla sul terrazzino. Potremo comprare un piccolo tavolino e due sedie pieghevoli, che ne dici?»

«E io mi metto il basco di traverso e vado a prendere una baguette, infilandomela su per il culo.»

Avrei preferito una reazione, una qualsiasi, pescata a caso proprio come avevo fatto io la notte precedente con le pasticche colorate. Avrei voluto che mi riprendesse, che si incazzasse come una bestia per quella mia acidità insolente e irrispettosa, e invece, tutto quello che riuscì a fare, fu perseverare in quel cazzo di volo pindarico pronto a sfasciarsi contro la montagna di problemi del nostro residuo di famiglia.

«Smettila di dire sciocchezze, signorina. Fare colazione sul terrazzino è una cosa che fanno migliaia di persone, se hai un terrazzino è naturale. Piccoli risparmi quotidiani, come fanno tutti, ed ecco i pochi soldi che servono. A pensarci bene, con un po' di trama di legno e dei rampicanti, potremmo addirittura trasformare il terrazzino in un grazioso pergolato.»

Quasi mi andò di traverso la merendina. Gettai un occhio al fondo della tavola dove stava lavorando. Vi campeggiavano cinque o sei balordissime riviste di casa e cucina, dove "in poche e semplici mosse" dei professionisti strapagati e con qualsiasi tipo di materiale a disposizione, rivoluzionavano spazi angusti per poi farli fotografare da altri professionisti dotati di grandangolo.
Gli bastava l'inquadratura giusta, due fiori di plastica qua e là, e anche lo sgabuzzino lurido del McDonald sulle loro pagine patinate diventava qualcosa di "radical chic" per la massa informe di casalinghe disperate che anelavano un tocco di glamour artefatto e fasullo nelle loro esistenze monotone e altrettanto artefatte e fasulle. Come se bastasse quel diversivo per smettere di chiedersi ogni santo giorno come aveva fatto la loro vita a prendere quella piega, tutta bigodini in testa e mani consumate dal sapone a furia di lavare le mutande al marito, e dove fossero finiti i sogni di bambina che invece prevedevano cavalieri e castelli.

«La nostra cucina se potesse chiamerebbe il telefono azzurro, e tu parli di pergolati? Mamma, rimani connessa al mondo. Siamo messe da ridere, fai lavoretti saltuari, si muore dal freddo e abbiamo riparato il tubo della doccia col nastro adesivo! Il terrazzo lo prenderei in considerazione solo perché è il posto più salubre di questo cazzo di appartamento di merda!»

Non mi andava giù che non riuscisse ad inquadrare il problema della nostra povertà, delle difficoltà economiche che ci costringevano a tirare la cinghia su tutto. Non mi andava giù che avesse sostituito l'accudire un marito massacrato dai lavoracci che era costretto a fare, con qualsiasi cazzata come fare marmellate o passeggiare con le vecchie del condominio, da buona dama di carità, invece di provare a occuparsi di me, di sua figlia! Quella ce l'aveva ancora, che cazzo, e lei sembrava averlo dimenticato.

«Dovresti dire alla pazza di sopra che se proprio vuole farci l'elemosina almeno lo facesse con un criterio. Perfino gli scarafaggi hanno chiesto lo sfratto da questa casa, neanche me la ricordo l'ultima volta che abbiamo fatto un pasto decente, e lei ci porta le arance per la marmellata. Flash news: non abbiamo neanche una fetta biscottata su cui spalmarla. Non abbiamo nient'altro!»

Mia madre non si smosse. Continuava a impilare i barattoli con amanuense tenacia. Fosse stato per lei avrebbe fatto solo quello, fino al suono delle trombe ai cancelli del Paradiso, pur di tenere stretto attorno al polso di mio padre e al proprio, il flebile nodo di una qualche vaga e immaginaria comunicazione.

«Mi fai pena.» strisciai tra i denti un attimo prima di cadenzare il passo nervoso in direzione della mia stanza.

«Parla bene, c'è ancora qualcuno di rispettabile nella nostra famiglia.»

I miei piedi si bloccarono di colpo al suono di quelle parole, esalate a mezza voce, dolorosa e vuota come una tonsillite fantasma. Mi ci volle il tempo di un respiro, poi ammortizzai e realizzai.

«Sai, la signora Biggi ti prega di essere almeno più silenziosa, la prossima volta. I muri sono sottili.» aggiunse sotto il mio sguardo sconcertato.

La nausea riprese il suo inesorabile galoppo, quel poco di girella mangiucchiata non accettò di essere relegata in quel luogo oscuro e acido che era il mio stomaco. Lo sentii chiaramente dimenarsi e feci giusto in tempo a raggiungere il lavandino in bagno, dove il frutto della sua ribellione venne rigettato. Quando alzai lo sguardo, lentamente e a corto d'aria, la luce dietro lo specchio, bianca e sparaflashata, mi restituì un'immagine crudele contro la tonalità della mia pelle, in gara con il neon per il Premio Innaturalità.

La Biggi, ovvero la nostra vicina di casa, oltre ad essere una specie di Grande Fratello del palazzo era anche la regina dell'ipocrisia, una di quelle persone che si mostrano gentili con te solo perché ti sia chiaro che loro stanno meglio di te. Vedere noi in quelle condizioni, evidentemente, faceva ingigantire il suo ego e la faceva sentire una persona migliore. Non sapevo se disprezzarla o invidiarla visto che a lei bastava così poco per sentirsi realizzata, alla fine era un animo semplice.

Misi su i Joy Division a palla solo per darle fastidio, mentre mi vestivo di fretta e furia: quella con la mia genitrice era stata la lite più silenziosa della storia, mi aveva fatto alquanto sclerare e qualche residuo chimico incastrato tra i neuroni riempiva ancora la stanza di proiezioni allucinogene. Flash di pubblicità Mulino Bianco mi correvano davanti agli occhi e sognavo di entrarci dentro, sedermi sorridente a tavola con loro, accettare la loro sana ed equilibrata colazione, solo per poter, senza preavviso, cacciare l'accendino e dare fuoco a tutte quelle maschere rassicuranti.

Le gambe si mossero velocemente dentro le calze smagliate e piene di buchi vistosi per tornare in cucina.
«Tieni.» sputai con lo stesso sdegno con cui lanciai due carte da centomila sul ripiano davanti ai suoi occhi. «Se vuoi fare la madre, fai la spesa. Sennò compraci il pergolato, o il cazzo che ti pare.»

Un attimo dopo ero fuori, non mi ero nemmeno presa la briga di sbattere la porta, sarebbe stato un gesto teatrale totalmente sprecato con una che dimostrava la stessa reattività di un opossum che si finge morto.

Fango vischioso trascinava foglie marcescenti nei rigagnoli e ribolliva di pioggia fra le sbarre dei tombini. Un'altra bella giornata, insomma, ero sempre più convinta che il destino avesse proprio un'ironia di merda.

Rallentai i passi concitati di rabbia gradualmente, come gli atleti al termine di una gara di fondo. Ansimavo forte, ma nemmeno la pioggia che si infilava nel colletto della felpa mi indusse a fermarmi. Camminavo lentamente in mezzo alla strada, due svolte a destra della fermata del 151 con il palo divelto, con lo sguardo che si perdeva ai lati, lungo le reti metalliche, i pilastrini in cemento e i muretti che, mancando di qualche mattone qua e là, sembravano tante bocche dopo un'estrazione.

Finché non superai l'ultima schiera di condomini fatiscenti e raggiunsi la mia meta.

La vecchia piscina comunale.

La scritta si leggeva ancora sulla targa all'entrata, in quello stile semplice e impersonale che ben si sposava a tutto quel cemento. L'ingresso era stato transennato e una catena arrugginita avvolta attorno alle maniglie con attaccato un lucchetto. Deterrenti ridicoli, perché era quasi più facile intrufolarsi lì dentro che trovare un pusher nella nostra scuola.
Un'altra messinscena.

Zigzagai in mezzo ai corridoi fatiscenti, la puzza clorata e stantia aveva un non so che di rassicurante.

La piscina correva vuota da un'estremità all'altra e parecchi dei pannelli di vetro che facevano da soffitto erano incrinati o mancavano del tutto, facendo entrare la pioggia. Mi fermai più o meno a metà, con le gambe penzoloni oltre il bordo; sul fondo una miriade di piastrelle sbeccate, seminascoste da cumuli di sporco e immondizia.

Questo era il destino delle speranze: lì, sotterrate dal degrado.

Non so nemmeno per quanto tempo era rimasta aperta quella piscina pubblica, prima che la società che la gestiva fallisse e nessuno si facesse più avanti per rilevarla. Erano continui i furti di materiale, e nessuno aveva voglia di buttarci soldi. Tempo un anno di chiusura ed era diventata già un luogo che, nel quartiere, tutti sapevano che non sarebbe stato mai più riaperto. Persino le maioliche alle pareti, di una certa qualità, erano state ricoperte di scritte contro la polizia, lo stato, la morosa troia, oppure semplicemente di disegni osceni.

Era un luogo deprimente insomma, ma dondolarci i piedi mi aveva sempre fatta sentire in pace, sia quando c'era l'acqua che quando l'acqua era venuta meno, sostituita dalla merda del quartiere, ingrato con la bellezza.

Ecco il problema, l'egoismo marcio della gente, che spinge a deturpare la bellezza di tutto ciò che non si può possedere. Come se le cose belle fossero il promemoria della loro angoscia, del loro fallimento esistenziale, della loro incapacità di arpionarle e tenerle per sé. Meglio distruggerle, allora, trasformare tutto in discarica.

Essere circondati dalla merda, fa sentire migliori: lì, in fondo, è facile anche per un pezzo di vetro brillare in mezzo ai rifiuti.

Io non volevo finire così. Ecco il motivo per il quale di me stessa non me ne fregava nulla.

Da qualche parte, nella desolazione del nostro appartamento, all'epoca, c'erano ancora gli album di foto di quando ero piccola, che ritraevano una bambina carina con i codini. Ma arrivata alle scuole medie, avevo capito in fretta che il destino della bellezza era finire male, tanto valeva non impegnarsi a mantenerla. Era iniziato tutto in una maniera talmente subdola da riuscire a passare quasi inosservata, un semplice rumore di fondo che ruminava le mie stesse parole in testa di tanto in tanto, e smisi di interessarmi alla moda, al trucco e a tutti quegli ammennicoli che piacciono tanto alle ragazzine, la cui massima aspirazione è sentire il desiderio degli occhi altrui sfrigolare sulla propria pelle.

Non io. Io non avrei permesso a nessun altro al di fuori di me stessa di distruggermi come succedeva a tutto ciò che c'era di bello attorno a me.

Così ero diventata quella che quando è in compagnia fuma sigarette per tenere le mani occupate, canne per fermare i pensieri, che beve alcol per rallegrarsi. Scoprii, forse troppo presto, l'MDMA, l'ecstasy, i funghetti allucinogeni quando mi andava di culo, e tutta quella serie di ragazze incredibilmente divertenti e spensierate che diventavo ogni volta grazie a tutte quelle sostanze.

Con tutti quei pensieri per la testa, mi sentii completamente sola, come non mi ero sentita nemmeno al funerale di mio padre, perché lì, almeno, c'erano stati il Prozac e Luca a tenermi compagnia. In quel momento, invece, c'erano solo dei postumi al sapore di succo gastrico, l'assenza ingombrante di quello che speravo fosse ancora il mio migliore amico e la consapevolezza di avere una madre che si girava dall'altra parte rispetto allo sfascio delle nostre vite.

Pergolato, che idea del cazzo.

Passai probabilmente mezz'ora dondolando semplicemente le gambe, osservando le smagliature delle calze come fossero le spaccature della terra diventata troppo secca per la mancanza di pioggia. In fondo agli arti, le All Star di seconda mano comparivano e sparivano oltre il bordo della piscina al ritmo del dondolio.

Quando arrivarono tre o quattro ragazzini in vena di fare i vandali in fasce, o in attesa di un "amico", capii che era finito il mio momento introspettivo. Mi alzai dirigendomi verso casa, magari mia madre era tornata con qualcosa come la Magnesia, e, in caso contrario, anche uno sciacquo con la sola acqua sarebbe stato già un buon lenitivo al mio stomaco in subbuglio.

Stavo fuori al mio portone, cercando la chiave giusta nel mazzo che era lo stesso da sempre e io da sempre non trovavo la chiave al primo colpo, quando attirò la mia attenzione una macchina troppo nuova, troppo costosa, troppo lucida per quel posto.

I cerchioni cromati e la statuina scintillante a forma di giaguaro che svettava sul cofano anteriore mi fecero pensare che fosse sicuramente qualche ricco sprovveduto che si era perso nel dedalo schifoso del Chernobyl, guadagnandosi così un buon cinquanta percento di possibilità di ritornare a casa a piedi se avesse avuto anche la sfortuna di incappare nelle persone sbagliate.

Perciò, quasi non mi strozzai con la mia stessa saliva quando la vidi rallentare e poi fermarsi proprio alle mie spalle, sotto casa mia.

Per un attimo, probabilmente ancora in preda all'impietoso hangover farmacologico, immaginai addirittura che potesse essere un qualche emissario del Principe Azzurro, magari quei maledetti film per adolescenti non erano solo contenitori di cazzate impossibili.

Invece, dalla scintillante portiera, non poteva fare capolino nessuno di più diverso da Azzurro e tutta la sua dinastia.

Quando vidi Luca venirne fuori, buttando uno sguardo appannato a destra e uno a sinistra, mi venne un tuffo al cuore, mi cristallizai letteralmente sul posto. Non sentivo più nulla: la pioggia, il rombo del motore di quell'automobile che valeva quanto il mio rene, il rumore delle chiavi che tintinnarono sul pianerottolo di marmo del mio portone. Niente.

Rimasi ferma, con impressa nelle pupille solo l'immagine di Luca che a sua volta osservava la macchina fare lentamente inversione a U, sicuramente diretta a luoghi più degni della sua presenza.

Come sempre, ero io a notare lui, e non il contrario.

Mi diedi mentalmente della stupida e mi chinai a recuperare le chiavi da terra. Quando mi rialzai, però, a discapito di ogni pronostico, Luca aveva gli occhi su di me, incastrati in un viso quasi terreo, un'espressione granitica, ma al contempo intensa. Profonda. Un pugno nello stomaco.

Rimanemmo così per qualche istante, immobili, ognuno congelato sul posto dall'inaspettata presenza dell'altro, finché non fu lui a rompere quella quiete surreale.

«Stanco, Pulce. Ci si vede»

Alzai appena la mano in segno di saluto, con l'anello del portachiavi infilato nel medio, poi distolsi lo sguardo e iniziai a salire le scale.

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