❥ 𝕴l fagiolo magico

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Quello "stasera nevica" appena sussurrato ebbe il potere di farci staccare come se avessimo preso una scossa elettrica da diecimila volt.

Fu Seb a intercettare per primo la presenza di Luca. Gli bastò alzare lo sguardo per vederlo affacciato alla ringhiera sgangherata sopra le nostre teste, sfoggiava il sorrisetto ironico di uno che stava per godersi lo spettacolo dell'accoppiamento di due scimmie allo zoo.

Gli sembrava davvero quello il momento di disturbare Seb per della bamba tagliata male che nemmeno poteva permettersi?

«Sei diventato pure guardone oppure la coca è l'ultimo desiderio della tua bella che sta morendo di vecchiaia?» incrociai le braccia con fare ancora più provocatorio delle parole, ma i suoi occhi rimasero così incollati sul movimento di Seb che si riallacciava malamente la cintura, che temetti non mi avesse sentita.

Così rincarai la dose.

«Non potevi trovarti uno di quei pusher in giacca e cravatta per far incipriare il naso alle tue clienti in menopausa, dovevi per forza rompere le palle a noi?»

Fu allora che lo vidi, quel lampo di risentimento nei suoi occhi, nonostante la poca luce da quelle parti.

Uno a zero per me, pensai.

Luca si dondolò un po' sul parapetto della rampa, sbuffò e infine si buttò giù atterrando in piedi. Nonostante il gesto atletico, mi sembrò di sentire le sue articolazioni scricchiolare come un vecchio impiantito di legno.

«Buffo che proprio tu parli di giacca e cravatta.» mi istigò, lo sguardo beffardo dritto nel mio.

«Lo sai che non ce l'ho quella merda, mi costa un botto e me la chiedi solo quando ti fa comodo, Lucky.» si intromise Seb, l'unico a chiamarlo così. Non mi era mai stato detto da dove venisse fuori, ma quel nomignolo sembrò irritarlo.

Così, calcai la mano.

«Oh, il piccolo Lucky la chiede solo quando la padroncina molla la presa.» scimmiottai, imitando il gesto di lasciare il guinzaglio, il labbro inferiore che sporgeva in una posa fintamente addolorata.

«Aiuto gente. È bello aiutare gente. Giusto, Pulce? Alla fine ci si sente riempiti.» fece una certa pausa strategica prima di aggiungere. «Di gioia.»

Seb non era un fulmine di guerra, ma a furia di scattare la testa tra me e Luca nel seguire il nostro battibecco non troppo criptico, capì che quella sera non avrebbe ottenuto né una lira da lui, né una misera sega da me. Perciò ci salutò mettendoci davanti alla cruda verità. «Okay. Ci si vede, ragazzi. Non voglio saperne di litigi tra amici. O amichetti. O il cazzo che vi pare.» ci diede le spalle e sollevò distrattamente la mano in un cenno strafottente mentre se ne andava su per le scale.

Rimasi per un attimo a guardare la sua schiena che si allontanava e sentii una rabbia calda, tossica, densa, scivolarmi lungo la spina dorsale.
«Scopi per soldi. Non puoi proprio parlare tu.» ringhiai voltando di scatto la testa su di lui, una volta soli, col fare capriccioso di una bambina di cinque anni.

«Anche tu non puoi parlare se hai la bocca piena.»

«Che cazzo ne sai di quando ce l'ho piena? Sei sparito, Luca. Sparito! Puff! Non ti sei mai preoccupato di venirmi a trovare o di parlarmi, o anche solo di chiedermi come sto. Tu non ci sei, non ci sei mai. Quindi spiegami come ti permetti di piombare così, dal nulla, e di sederti pure sulla sedia del giudice supremo di stocazzo!»

Indugiai nell'osservarlo, nell'incontrare una ruga tra le sopracciglia, il labbro un po' irrigidito, quella sorpresa un po' amara che cercava di nascondere, ma che si fece largo a gomitate tra il naso e la bocca.

«Non serve parlarti, l'ho visto come ti stavi fiondando sul cazzo di Seb pur di trovare un cavaliere per la sera.» il suo tono asciutto faceva letteralmente a pugni con il mio, isterico.

«Fai ridere.» sghignazzai amaramente, roteando gli occhi al cielo in un gesto teatrale. «Sei una puttana e moraleggi. Sei meglio di Mai Dire Gol.» gli diedi le spalle e presi anche io le scale, decisa a troncare definitivamente quella conversazione al sapore di fiele.

«Io almeno lo so perfettamente di essere pagato per scopare.» avevo appena messo piede sul primo gradino, che Luca mi artigliò nella piega del gomito e mi spinse di nuovo verso il basso, sbattendomi le spalle contro il muro di quel sottoscala di cemento vivo e freddo. «Tu, invece, fai tutta la sostenuta, mi guardi dall'alto in basso e poi, alla fine, annaspi tra i cazzi.» mi urlò in faccia.

«Io non annaspo tra i cazzi.» sputai acida, con il risentimento che mi si rimescolava nel sangue. Un risentimento tale da non avermi fatto pensare a nulla di meglio che la negazione di quanto aveva urlato lui, senza uno straccio di nuovo argomento a mio favore.

«Invece ci annaspi eccome tra i cazzi che ti scegli. Datti una svegliata, Pù. Il principe azzurro non ce l'ha la cravatta, e non si sbatte minorenni mentre la moglie fa le feste di beneficienza.»

Crack.

Non so se quello fu il rumore del mio cuore che si infranse o dell'impatto della mia mano sulla sua faccia.

Lo colpii. Non con uno schiaffo, o con un pugno; solo un gesto carico di frustrazione che andava a cozzare con qualcosa di lui, forse il mento. Artigliai il suo colletto con entrambe le mani, lo scrollai senza smuoverlo di un centimetro. Mi sembrò di scontrarmi contro una pietra, una piastrella, un pezzo di marmo.

«Che ti frega a te, eh? Se è questo quello che pensi, se ti faccio così schifo, perché non esci definitivamente dalla mia vita, visto che già la consideri di merda!? Devi smetterla!» sentii la mia voce incrinarsi, spezzarsi, il respiro che rantolava parole senza significato. «Smettila di essere ovunque, sulla bocca di tutti, negli occhi di tutti. SMETTILA DI ESSERE DENTRO LA MIA FOTTUTA TES...»

Le mie parole morirono nella collisione delle sue labbra sulle mie.

Affondò le mani tra i miei capelli, le mie precipitarono sul suo petto. Mi sentii quasi morire, perché non respiravo più. Non c'erano più né l'aria né le parole, c'era solo quel bacio, quei baci, disperati, furiosi.

«Zitta Pulce, cazzo. Zitta!» mi ringhiava sulle labbra.

Fece scivolare l'indice sulla clavicola, lungo la gola. Mi afferrò, stringendo quel tanto che bastò per farmi sobbalzare. Mi balenava qualcosa, dietro tutti quegli strati di rabbia, irritazione e pupille dilatate, qualcosa di molto simile all'affetto. Qualcosa che aveva a che fare con i ricordi passati, con le speranze di due bambini che avevano trovato rifugio l'uno nell'altra da una vita che da soli faceva sempre un po' più schifo, fagioli da piantare, molliche da seguire, case di marzapane da assaggiare insieme dallo stesso piatto. C'era la voglia di credere ancora alle favole in mezzo a quegli schiocchi di labbra, a quella collisione di denti, intreccio di lingue, la voglia di credere che un lieto fine era possibile in fondo, per noi.

Ci baciammo come due condannati a morte l'indomani, lo sentivo respirare senza un senso, senza ritmo, come un epilettico con le convulsioni, irrigidirsi contro l'incavo del mio collo, succhiare la pelle, mordere, leccare, marchiarmi la carne col fiato.

Mani fredde, umide di condensa, e urla.

Urla dappertutto, anche al tatto, tutto quello che sentivo erano urla.

Non smettemmo mai di guardarci negli occhi, proprio come la prima volta, la mia prima volta, in quel fiocco di gambe avvinghiate, adolescenze scandite da ubriachezze, da temporali e da pozzanghere nell'asfalto spaccato.

Eravamo solo noi, le nostre mani inerpicate sotto le magliette a carezzare, stringere, graffiare, saccheggiare la pelle in tensione dell'altro.

Eravamo noi, solo noi, da sempre. Tra famiglie sgangherate, predatori vestiti da adulti e sensi storditi dalla droga. Anche quando i soldi non c'erano, sempre insieme.

E fu allora che capii cosa significasse davvero fare sesso per rabbia, perché era quella che restava imbrigliata sugli strascichi di tutti i miei pensieri e, ci avrei giurato, anche dei suoi. Lo percepivo dal modo in cui mi stringeva forte i polpastrelli attorno alla coscia, dal ringhio che accompagnava ogni trafittura, spingendo con forza, come per rivendicare un posto che doveva essere solo suo.

«Pulce, cazzo. Pulce!» ripeteva rabbioso, mentre mi aggrappavo al suo collo, mentre ci consumavamo a vicenda come due gatti sul retrobottega, con il pelo arruffato e i lombi esposti al freddo della sera. Una rabbia che sentii ad ogni spinta, diversa da quella che pensavo, e che parlava di incomunicabilità.

Pulce.
Cazzo.
Pulce.

La sua rabbia sembrava non riuscire ad andare oltre quelle parole, perciò lasciò che fossero il suo corpo, le sue carezze ruvide, i morsi, i baci violenti a parlare per lui. Si aggrappò a quel suo scoparmi come a un acquerello di emozioni inespresse.

«Cazzo cosa, Lu?! Cazzo cosa?!» gli mugolavo addosso in quell'amplesso decisamente meno patinato di quello fatto sui sedili di cuoio color ghiaccio della macchina di Bobbi, ma maledettamente più intenso e maledettamente più rischioso considerando che non ero una vecchia in menopausa, ma una diciottenne ancora molto addentro al ciclo della vita. Ma non arrivò mai a dire nulla più di quello, facendo scivolare il tutto in una ansante battaglia all'ultimo sopravvissuto, senza nemmeno le parole per ferirci.

Non ci pensai più, ad un certo punto. Volevo solo sentire, affondare, stordirmi e risvegliarmi. Svenire dal sonno dopo, con tutti i muscoli indolenziti, e vederci appannato per quanto avevo goduto, e biascicare e ridere e parlare e stare zitti, e muoverci, e ridere ancora, e scoppiare in lacrime anche. Anche imprecare, pregare e strisciare. Anche soffrire fino a tagliarmi la lingua con i denti. In quel preciso momento l'unica cosa che importava, l'unica che desideravo con ogni fibra del mio essere, era soltanto sentire Luca, afferrare e stringere e strappare, fino a rotolarmi in quel suo aroma di marijuana e bagnoschiuma da discount. Me ne sbattevo altamente delle conseguenze.

Quando me lo fece raggiungere, l'orgasmo fu tale da farmi cacciare un grido, dissimulato soltanto dalla sua mano, volata rapida a tapparmi la bocca. E forse fu quel totale stordimento dei sensi a impedirmi, sulle prime, di notare che quando uscì da dentro di me Luca stava ridacchiando, in viso quell'espressione da gran scopatore che a me dava sui nervi.

Se la cavava a scopare, okay, ma nemmeno lo si poteva definire eccezionale. Non era il "lui" delle storie d'amore epiche o il protagonista di qualche romanzo rosa da esperienze multiorgasmiche e sette posizioni per amplesso.

Era pur sempre un disadattato.

Magari il protagonista di un libro scritto da un disadattato su una banda di disadattati.

E, mentre si sistemava le braghe, continuava a ridere come un coglione.

Diedi giusto il tempo alle mie pulsazioni di scendere sotto i centoventi battiti al minuto - tanto era inutile recuperare le mutandine, strappate e perse in chissà quale delle pozzanghere maleodoranti ai nostri piedi - poi sputai un avvelenato: «Cazzo ridi?»

«Vedi che non c'è bisogno di prenderlo in bocca.» biascicò tra una sghignazzata e l'altra.

Lo guardai sorpresa, cercando sul suo volto inespressivo una traccia d'ironia – avrei preferito anche l'umorismo più amaro alla voragine che mi stava scavando nel petto.

«Sei uno stronzo, Luca.» fu tutto quello che riuscii a sussurrare.

Senza smettere di sorridere, lui si limitò a richiudersi la patta dei jeans, poi si tastò le tasche e in tono di scherno lasciò cadere un: «Però ho solo diecimila. Bastano?»

In quel presente dalle fattezze banali, quasi prevedibili – almeno agli occhi degli altri – fui accecata da costellazioni di illusioni scoppiate in volo come meteore.

C'era stato qualcosa, sì.
Ma era il solito qualcosa che sarebbe finito lì com'era cominciato. Con Luca che veniva a cercarmi, a tirarmi via dalla mia vita, dalle persone senza nome che non sembravano nemmeno esistere, e che poi, stanco di giocare con me, non sapeva più dove girarsi, cos'altro fare per ferirmi, e semplicemente mi lasciava lì.

Immediatamente sentii salirmi agli occhi le lacrime. Se io annaspavo tra i cazzi, lui si era trasformato in una persona di una insensibilità unica.
E io gli avevo concesso tutta me stessa anche quella sera, e anche quella sera, come le altre, ero finita a mangiarmi l'anima, pensando a quanto sbagliavo ad avere a che fare con lui, in qualsiasi modo facessi.

È triste quando non si è capaci di accorgersi che siamo troppo cresciuti per soffiare sulla brace delle illusioni morte.

Uno a zero per te, amore.

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