❥ 𝕷a Bella e la Bestia

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Spezzata.

Era così che mi sentivo. A niente serviva stringermi da sola mentre camminavo tra le vie scarsamente illuminate del Chernobyl, in un sabato sera qualsiasi, sugli strascichi di un inverno che sembrava non voler cedere il posto alla primavera.
Sentivo solo freddo, ma la colpa non era del vento che si insinuava sotto la gonna, lì dove non restava niente, né delle mie mutandine, né della mia dignità.

Luca me le aveva strappate via entrambe, prese e buttate chissà dove e, soprattutto, chissà perché.

Incazzata come una iena per aver dovuto lasciare la mia bicicletta fuori all'Irish, ben consapevole che non ne avrei trovato più neanche la traccia sull'asfalto, marciavo verso casa con le mie all star sdrucite e i lacci sfrangiati.

Da sola, di notte, nel cuore del Chernobyl.

La paura mi si incastrava in gola ogni volta che passavo accanto a un vicolo buio, pregando che tra gli ubriaconi e i tossicomani di quel quartiere malfamato non si nascondesse il Charles Manson di noantri e, ciliegina sulla torta del disagio, un miscuglio di roba mia e sperma mi colava tra le cosce nude, ricordandomi con prepotenza a ogni passo che l'indomani avrei dovuto recuperare con una certa urgenza una qualche ricetta falsa per una pillola del giorno dopo.

Fottuta. In tutti i sensi.

Appena tornai a casa, miracolosamente incolume, capii che tutto il malessere mi si leggeva in faccia direttamente dalla reazione di mia madre. Non era una scheggia, questo ormai dovreste averlo capito. Per intenderci, era stata capace di bersi la cazzata di un fantomatico nuovo innesto di origano per un progetto scolastico quando aveva trovato una bustina di erba assieme a del tabacco sbriciolato sul fondo della tasca della mia felpa. Aveva l'intuito di pesce rosso, per farla breve, perciò immaginai di avere davvero un aspetto di merda quando mi chiese se stessi bene non appena mi vide varcare la soglia di casa.

La liquidai con i miei soliti modi delicati come quelli di un dobermann, dove il "fatti i cazzi tuoi" finale venne accolto come una buonanotte insindacabile e volai a chiudermi in bagno subito dopo.

Anche in quel momento, accucciata sul piatto della doccia, senza neanche la forza di scorticarmi a sangue pur di togliermi il suo odore, le sue mani, il suo sperma da dosso, continuava a rimbombarmi nella testa un'unica domanda: perché?

Perché mi aveva usata così, come l'ultima delle cagne utili solo a svuotarsi le palle? Proprio lui, Luca, il mio migliore amico. Quello con cui giocavo e ridevo da che ne avevo memoria, che nascondeva ogni mia paura dietro a due parole, che mi abbracciava la notte quando sgattaiolava a casa mia per farsi medicare le ferite. Non erano solo frutto della mia immaginazione le nostre chiacchierate tra le lenzuola, a non parlare di niente oppure di tutto, non lo erano i pomeriggi scanzonati, le nostre risate, la nostra bolla tra la gente che continuava a scambiarci per fratello e sorella o per una coppia di fidanzatini sin dall'alba dei tempi.

Ogni minuto della mia vita batteva all'unisono con il suo respirare.

E invece Luca mi aveva dimostrato che io per lui ero solo una puttana.

La puttana della puttana.
Si poteva cadere più in basso di così?

È strano come a volte la consapevolezza arrivi tutta insieme, in un frastuono assordante e accecante, e come subito dopo il mondo fuori sia diverso, mentre lo schianto fuma ancora per l'impatto, senza che però sia realmente cambiato niente intorno. Solo dentro.

Avevo bisogno di non pensare. Cercai come una forsennata di racimolare gli ultimi rimasugli di ganja da qualunque indumento, reggiseno e borsa che avevo in camera. Mi diedi della pazza, della patetica e della stupida ogni volta che non trovavo nemmeno una fogliolina, nemmeno un semino da mischiare al tabacco per uno svuotino di fortuna. Avevo dato fondo a tutto e, dopo ciò che era successo con Seb - o meglio, ciò che non era successo - avevo completamente dimenticato di rifornirmi.

Di nuovo, colpa di Luca.

Dopo aver imprecato e bestemmiato perfino santi inventati, mi misi l'anima in pace e mi decisi a trovare un altro modo per tenere la mente impegnata, per non pensare. Qualcosa di diverso dallo sballo.

Qualcosa di nettamente diverso, visto che imbracciai tutti i documenti che avevo a disposizione e mi misi a lavorare sul progetto.

Bobbi mi aveva detto che di lì a pochi giorni avrebbe presentato la domanda alla Provincia per ottenere il benestare alla realizzazione dell'opera e i permessi di ristrutturazione e di gestione del complesso e, con un po' di fortuna, avrebbe cercato di convincerli a stanziare addirittura dei soldi per coprire una fetta di quello che la Fondazione non aveva possibilità di sganciare.

Dopo diverse ore e un quantitativo di fogli appallottolati per la stanza che avrebbe fatto inorridire Greenpeace, il WWF e tutti i nazi-ambientalisti che inneggiavano alla deforestazione come reato da pena capitale, finalmente mi sembrò di essere riuscita ad abbozzare una "Relazione sulle possibili ricadute benefiche del progetto per la popolazione scolastica coinvolta".
Di certo non era scritta in un italiano da opera letteraria, ma diceva molto di quello che avrebbe potuto dare la ristrutturazione di quel complesso comunale alla nostra scuola in termini di prospettive. I due spazi, infatti, distavano più o meno cinquecento metri l'uno dall'altro e sarebbe stata un'ottima opportunità metterli in una comunicazione positiva.

L'ultima rilettura delle sei di mattina mi galvanizzò a tal punto che mi sembrò di avere più adrenalina che sangue nelle vene. Ero così eccitata per aver prodotto qualcosa di vagamente decente ai miei occhi e con le mie sole forze, senza l'aiuto di nessuno - e, soprattutto, senza aver dovuto aprire le gambe a nessuno - che ormai la voglia di dormire era prossima al nulla cosmico.

Passai le restanti due ore in un costante conto alla rovescia all'orario di apertura degli uffici e quando scoccarono le otto mi precipitai a telefonare a Bobbi.

Gli parlai così frettolosamente che probabilmente non capì un accidenti. Si prese un attimo di silenzio, poi sentii un suono, nel suo respiro, che mi diceva avesse cambiato posizione sulla sedia.

«Frena, frena, frena, Pulce. Troppe cose da assimilare prima del caffè. Ho un buco a mezzogiorno, passi da me?»

«Da te in ufficio?»

«Dio, no. A casa, ovviamente

«A casa?»

«Sì, oggi qui ho il delirio, sarebbe impossibile darti il giusto spazio e controllare la tua relazione come si deve, senza che ci interrompano ogni cinque minuti.»

Acconsentii: in fin dei conti era meglio saltarla direttamente la scuola, non tanto per le lezioni o per la mia scarsa predisposizione a imparare cose inutili, quanto per non rischiare di finire a dormire davanti ai professori, una rappresaglia che avrebbe abbattuto definitivamente le mie speranze di promozione come un refolo di vento spariglia i castelli di carte.

L'attesa, però, mi sgonfiò come un palloncino a elio bucato, a poco a poco e inesorabilmente. Gli effetti della notte in bianco cominciarono a farsi sentire, così come gli occhi pesanti e la devastazione psicofisica. Sbuffai davanti alla mia immagine allo specchio: proprio l'unico giorno in cui volevo essere presentabile, apparivo come la gemella di Mercoledì Addams, solo più emaciata. Rovistai nel mio borsello di finta pelle borchiata con le fibbie quasi scucite in cerca dell'eyeliner, perso in chissà quale Stargate. Ripiegai allora sulla matita smozzicata, passai la lingua sulla punta per inumidirla e percorsi con sicurezza prima la palpebra destra e poi la sinistra.

Due linee perfette.

Potevo non valere niente, alla fine magari faceva cagare pure la mia relazione, l'unica cosa vagamente concreta che la mia mente avesse partorito da quando avevo imparato e leggere e scrivere, ma continuavo ad avere un tocco preciso e aggraziato nel disegno. Per quanto utile come la forchetta nel brodo, in quel momento trovai quella misera certezza quasi rassicurante.

Decisi di concedere una possibilità al genere umano passando fuori al pub per recuperare la bicicletta. Per fortuna non avevo grosse aspettative da deludere, così non mi scomposi più di tanto quando non la trovai. Era una Mountain bike passata da mio cugino Pollo, a mio cugino Gianni e, miracolosamente, a me. Nemmeno quell'ammasso di ferraglia e adesivi appiccicati e staccati di donne nude, band metal, punk e frasi sdolcinate scritte col pennarello e con un fantasioso uso dei tempi verbali alla ragazza del momento, si era salvata dall'inciviltà del Chernobyl.

Mi toccò, quindi, raggiungere il "quartiere bene" con l'autobus e una buona dose di ascetismo. Citofonai al cancello di Bobbi in perfetto orario e dopo aver strascicato le scarpe lungo il vialetto di ciottoli che sembravano posizionati con il goniometro, arrivai fuori la sua porta. La trovai socchiusa, senza lui ad aspettarmi sulla soglia.

«Permesso.»

«Vieni, sono nello studio.»

Espirai, armeggiai con le tasche anteriori, con la collana che penzolava fino allo sterno, con il mazzo di chiavi che tenevo appeso al passante dei jeans e mi feci strada fino alla stanza che ospitava l'imponente scrivania di mogano. Una quantità spropositata di scartoffie ne occupava quasi tutta la superficie, tra la fotografia degli sposi dietro la torta nuziale e un piatto su cui era adagiato un sandwich mezzo mangiucchiato.

«La relazione.»
Tirai fuori dallo zaino il plico scritto a mano e lo posai davanti agli occhi di Bobbi, pronta a giustificare qualsiasi tipo di difetto di ciò che avevo scritto, trincerandomi dietro l'estrema necessità di iniziare a bonificare quel baluardo di degrado del quartiere per migliorare anche la capacità media di apprendimento degli adolescenti.

Lui lanciò un'occhiata fugace prima a me, poi al mio corsivo incerto e lasciò ricadere quei fogli a righe spillati in mezzo al mucchio che intasava la scrivania con noncuranza.

«Carina la tua maglietta. Toglila.»

Il mio disappunto iniziò ad aleggiare tra noi quasi come se fosse palpabile. Il problema non fu il tono imperioso che utilizzò, né il fatto che avesse il cazzo svettante dopo nemmeno venti secondi di pensieri erotici, il tempo trascorso tra il mio arrivo e la sua battuta.

No, quello, in sostanza, faceva quasi parte dell'arredamento.

Il problema fu, piuttosto, il suo totale disinteresse per la mia tremenda nottata passata a scrivere cose di cui fino a quel momento non avevo neanche la più pallida idea dell'esistenza, ma che mi ero impegnata a imparare e rielaborare per tenere viva la fiamma di quegli ideali che lui mi aveva messo in mano e che ora metteva da parte perché c'era qualcos'altro che preferiva mettermi in mano. Qualcosa che, evidentemente, per Bobbi era di gran lunga più importante.

Fui presa da un violento desiderio di piangere e urlare contemporaneamente, ma lo controllai aprendo e chiudendo ritmicamente le dita delle mani e lasciando la maglietta al proprio posto. Piangere era una cosa da ragazzini emotivi e se qualcosa di emotivo ancora resisteva dentro di me, con la stessa cocciutaggine delle radici di gramigna nei vasi di gerani di mia madre, di certo non l'avrei mostrata a Bobbi. Uno che predicava tanto di voler intaccare la mia cementifera corazza, ma che in fin dei conti dimostrava solo di voler vedere scivolare via i miei vestiti, più che le mie maschere.

Lui tornò a posare il suo sguardo su di me, probabilmente non avendo sentito nessun fruscio di indumenti. C'era una lievissima punta di fastidio nei suoi occhi, ma ciò che vi lessi era più che altro sorpresa.

Non gli diedi il tempo di dire nulla, lo anticipai.
«Cioè, ma tu ci credi in questo progetto o è tutta una scusa?»

Colse la provocazione, ma non come mi aspettavo. Era facile immaginarlo sbottare come ogni uomo di affari con qualche suo sottoposto disubbidiente, scucire le offese una ad una mentre stringeva il nodo alla cravatta e il suo sguardo trasudava rancore; perciò mi spiazzò vederlo reagire in un modo del tutto diverso.

Bobbi soffiò nell'aria una risata sardonica, il suo sguardo d'ambra attraversato da un cupo bagliore.

«Pulce» disse, sbuffando lievemente, «per mia fortuna ho fiuto per queste cose, non mi serve più di un'occhiata alla tua relazione per ritenerla valida.»

«Ma l'hai appena guardata!»

«Concetti chiave, parole che hai marcato di più con la penna perché inconsciamente le ritieni più importanti, passaggi che hai rinchiuso tra due punto e accapo. Magari per te è impossibile anche da immaginare visto che non hai la benché minima dimestichezza con questo genere di cose, ma io ho già incamerato tutto quello che c'era da verificare, Pulce. Ed è un lavoro davvero buono, te lo dico sinceramente. Non capisco di cosa ti preoccupi tanto.»

«Di cosa mi preoccupo? Cazzo, come fai a non capire? Neanche il tempo di entrare che mi hai chiesto di spogliarmi, cazzo, è... non è una cosa normale, Bobbi, è inutile che me lo spacci come una cosa divertente e a margine del progetto. Perché qui mi sembra che per te l'unica cosa a margine sia proprio il progetto!» La mia voce era assottigliata dal desiderio irrefrenabile di fare chiarezza una volta per tutte.

La rabbia che avevo dentro si risvegliava sempre più agile; erano quelli i soli momenti in cui mi sentivo forte, come se arrabbiarmi con lui fosse la sola possibilità di stringere il timone e salvarmi da un naufragio infinito.

«Penso che sia solo per scoparmi.» sillabai dopo una pausa che parve infinita, costringendomi a tenere le pupille allacciate alle sue. «So che sembra assurdo che uno si sbatta così tanto solo per scoparsi una, che tiri su tutto questo carrozzone. Soprattutto quando poi la tizia in questione sono io, insomma, guardami. Ma non posso farci niente. È quello che penso, che lo fai per darmi il cazzo e basta.»

Si avvicinò con calma, facendo il giro della scrivania con una lentezza disarmante, e quando mi fu davanti ero già pronta a uno di quegli squallidi teatrini alla "Baby, stai tranquilla" con tanto di dita ad alzarmi il mento e altre cazzate da Harmony di due lire.

«Non mi piacciono le parolacce.» proruppe invece, severo come chi non ammette diritto di replica, stupendomi. «Non mi piacciono quando escono dalla bocca di nessuno, men che meno dalla tua. Quindi, intanto, cerca di moderarti. Punto secondo, mi dispiace doverti ricordare, bambina, che se non fosse stato per me che, come dici tu, "ho tirato su un gran carrozzone", pensi che qualcuno se ne sarebbe mai interessato del degrado? Dello squallore in cui vessa il Blocco che tutti chiamano Chernobyl? E se lo chiamano così un motivo c'è! E della brutta fine che fanno il novantanove percento dei ragazzi che ci vivono, chi ne parlerebbe? Chi muove anche solo un dito per cambiare le cose? Nessuno, ecco chi. Mi dispiace dirtelo, ma forse sei tu quella che non sta dando la giusta importanza al progetto, a pensare che sia tutta una messinscena. Anzi, se fossi in te mi rimangerei ogni singola parola. Pensi che io tolleri tutte le rotture di compilare scartoffie, cercare investitori e, alla fine, realizzare quella mastodontica restaurazione, solo per qualche orgasmo? Senza offesa, ma lì fuori ci sono buchi come il tuo che costano meno, a livello di sforzi.»

Mi guardò intensamente con impercettibili movimenti degli occhi a ripercorrermi tutto il viso e, dopo aver esalato un respiro profondo, il suo tono si addolcì. «Se sto facendo tutto questo, Pulce, è perché ci credo davvero. Credo in quella piccola fiamma che, per quanto tu ti sforzi di tenere nascosta, riesce comunque a farti brillare gli occhi, a quell'entusiasmo che ti accende impercettibilmente, che ti fa formicolare la pelle e ti colora le guance quando ne parliamo. Credo ai tuoi sogni, al fatto che tu meriti più di chiunque altro su questo pianeta di vederli realizzati. Perché sei speciale, intelligente e... carina? Posso dire carina? No, forse non lo posso dire perché fa parte delle qualità che non vanno sottolineate a una ragazza arrabbiata, perché magari potrebbe pensare che mi interessi solo il suo corpo. Ma, Pulce, quando dico che sei speciale, lo dico sul serio, perché solo tu puoi scrivere questo gettando un'intera notte di sonno per il bene dei tuoi compagni e della tua comunità. Perché le persone come te, che ancora hanno la voglia e la forza di lottare per cambiare il mondo, sono poche, e questo ti rende davvero preziosa.» allungò un dito solo per sfiorarmi la tempia, un tocco appena accennato, che accarezzava.

Rimasi senza parole. La mia mente fece un passo indietro, racimolò gli strascichi di diffidenza che ancora serpeggiavano in me – ma non persi la calma: ammutolita, lo guardai, l'azzurro degli occhi screziato dalla sorpresa.

Bobbi rimase anche lui in silenzio per un po', nella sua serena compostezza, a frugare nel mio sguardo come a volerci trovare dentro le parole che sembravano mancarmi. Frugò nella mia miseria, e probabilmente mi vide per quella che ero, una ragazzina che nascondeva, dietro il suo essere malfidante e sospettosa, la fragilità di un cigno di carta.

«Posso abbracciarti adesso, Principessa, o devo chiedere il permesso all'Ambasciata di Stronzilandia?» mi sorrise.

«Fanculo, Bobbi.» gli saltai al collo e lo baciai forte, con la sensazione di avere nello stomaco le leggendarie farfalle che sbattevano le ali contro il mio sterno e quella ancora più avvolgente di essere stata per la prima volta nella mia vita davvero capita e apprezzata da qualcuno.

«In "stronzese" è un sì?» ridacchiò sulla mia bocca.

Le mie labbra divennero morbide e cedevoli e Bobbi le assaggiò come se fosse impossibile smettere. Chiudemmo entrambi gli occhi, le mani di lui a tirarmi indietro i capelli dispettosi e le dita che si infilavano tra quei ciuffi scompigliati per farmi cambiare la posizione della testa.

Mugugnai qualcosa mentre litigavo con la cintura di pelle infilata nei passanti del suo completo tre pezzi. «Frena, Pulce.» sogghignò imprigionandomi le dita tra le sue per bloccare quel mio armeggiare convulso. «Abbiamo una relazione da leggere e revisionare, insieme. Deve essere tutto perfetto per quando la porterò personalmente agli uffici della Provincia.»

Tornò a sedersi sotto i miei occhi increduli, adombrati da piacere inappagato e ammirazione che si confondevano in salti carpiati vertiginosi.

«Anzi, ti dirò di più. C'è un cliente, un pesce grosso, che terrà un gala venerdì sera. Ci saranno molti, moltissimi possibili investitori, anche i Guerra, di certo. Sarei davvero onorato se tu venissi con me, che partecipassi attivamente alla serata e che fossi disposta a fare tutto il possibile per conquistare i loro consensi.»

«Oh.» fu l'unica cosa che riuscii a farfugliare, sbigottita. «Tu mi vuoi portare a una serata di lavoro? Tua... tua moglie è d'accordo?»

«Ti assicuro che le faresti un piacere, Ursula non ama quel genere di intrattenimento. Non ama correre dietro a pesci più grandi di lei. E poi, in questo periodo, fare serate mondane la stressa molto. Ma sono sicuro che tu, invece, saprai destreggiarti alla grande: già ti immagino protagonista indiscussa e sono fortemente convinto che ci metterai tutta te stessa affinché il progetto vada in porto.»

Accettai di buon grado, gasata a livelli esorbitanti dalla convinzione che aveva messo radici solide dentro di me che sarebbe andato tutto per il verso giusto, che finalmente avrei avuto l'occasione di dimostrare che Luca aveva torto, che non ero solo un'ingenua ragazzina con la propensione a darla via facilmente. Io ero quella che ci aveva visto lungo, invece, quella che in mezzo a caterve di palle curve che ci lanciava la vita era riuscita a coglierne una al balzo per migliorare lo schifo in cui tutti noi tutti sguazzavamo, ma che nessuno si era mai preso la briga di muovere un dito per cambiare.

Dopo un po', ne approfittai di vederlo assorto nella lettura del mio scritto per andare in bagno. Gli ormoni in subbuglio avevano bisogno di un bel getto di acqua ghiacciata dritto in faccia per poter essere sedati e, quando non trovai una salvietta con cui asciugarmi, mi misi distrattamente a cercarla.

Fu allora che lo vidi, il test di gravidanza.

Spuntava assieme alla sua scatola accartocciata da dentro il cestino dei rifiuti, sotto al lavandino.

Sapevo che non erano fatti miei, che già avevo invaso a sufficienza la vita privata della povera Ursula - in fondo, già mi facevo letteralmente i cazzi suoi - eppure, una curiosità morbosa mi spinse a tirare fuori quel test dalla spazzatura e addirittura a controllare cosa significasse la solitaria lineetta rossa che vi appariva sopra.

Quando, secondo le istruzioni, l'esito era insindacabilmente negativo, quasi trassi un sospiro di sollievo. Se fosse stato in arrivo un piccolo Bobbi Junior non avrei potuto più tenere a bada i sensi di colpa per la nostra tresca, e mai come allora sperai che fosse più lontano possibile il momento di troncarla.

O, forse, sperai proprio che quel momento non arrivasse mai.

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