7. Perversità al sapore di Sangue (PARTE 2)

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I capelli cadevano come un manto di petrolio sulle spalle. Il sole mi feriva gli occhi e smaltava il viso con una maschera di luce. Gettava torrenti di calore sulle case, si stendeva sulle strade e nutriva le persone che passeggiavano. Cascate di fiori scendevano da balconcini di legno intarsiato. I gabbiani volavano lontani sprofondati nel blu del cielo e si disperdevano dietro brandelli di nuvole. Il profumo degli alberi tingeva l'aria e mi inondava le narici. Ero sommersa dalla magia di Cartagena e non sapevo dove guardare prima. Come essere sott'acqua. A destra i palazzi moderni erano miraggi oltre una striscia di mare, a sinistra i mille colori delle abitazioni mi inebriavano in un'esplosione cromatica. Dalla macchina assistevo a quella vita come sopra ad uno scoglio, ma camminare in quelle vie era buttarsi dallo scoglio e affogare nella magia.

Tra i turisti incantati alcune persone avanzavano con gli occhi fissi sulla strada. Sguardo in basso, visi come maschere senza espressione, passi svelti. Figure ignare del mosaico di contrasti che le circondava. Volti grigi, sagome che di tanto in tanto si perdevano dietro le ombre delle auto, macchie nere che contaminavano la magia.
Un brivido di disgusto mi percorse la schiena. Le mani strette sui manici delle valigie. La plastica premeva contro i palmi e le dita arcuate impugnavano quei pezzi come se volessero staccarli. E se quella città in realtà fosse una trappola, una gabbia di assassini travestita da città vivace? Avrei voluto prendere centinaia di coltelli e buttarli addosso a quegli automi; avrei voluto trasformarli in corpi senza vita, squarci di morte nei mille colori di Cartagena. Dopotutto meglio un gioiello macchiato di sangue che sporco di polvere.

Perché io? Perché proprio i miei genitori erano morti e quegli esseri insulsi vivevano ancora? Dopo quel lutto ero diventata come quelle persone, una tessera grigia in un mosaico di tristezza. Se fossi morta anche io non avrei conosciuto quell'uomo, non avrei ascoltato quella dannata canzone, non avrei saputo quella leggenda e non avrei avuto quell'ossessione improvvisa di perversità. Ma ora che ero viva avevo il desiderio di dare un senso alla mia esistenza, non potevo marcire in mezzo a quella massa di persone. Difficile ammetterlo, ma l'unico modo per conquistare la dissidenza era affogare il pianto nel sangue. Un desiderio indecifrabile, ma forse era quella la perversità: un progetto di morte indecifrabile a parole, ma già interiorizzato e decifrato nella mente.

«Eccoci qua»
L'autista buttò le valigie a terra e si sistemò i capelli. La maglia a maniche corte bianca risaltava la carnagione scura e i pantaloni neri coprivano le gambe fino alla caviglia. Posai i bagagli insieme agli altri e mi voltai indietro. Le macchine percorrevano veloci la strada e la gente camminava sui marciapiedi come briciole sparse su una tovaglia. Davanti a me si ergeva un edificio verde acqua dai contorni bianchi, il più alto tra tutti quelli attorno. L'autista alzò gli occhi e pigiò uno dei pulsanti alla sua destra. Il portone si aprì. Riprendemmo le valigie ed entrammo dentro. Un corridoio ampio e alto si allungava come una striscia luminosa. La luce colava sulle pareti bianche e il pavimento era rivestito da piastrelle sulle quali si aggrovigliavano fantasie blu e gialle.

Increspai le sopracciglia.
Chissà come sarebbe stata la zia...

Un odore di lavanda si spandeva nell'aria. Alla fine del corridoio si spalancò una rampa di scale. Salimmo e arrivammo all'ultimo piano del palazzo. Una porta aperta. I contorni di una silhouette femminile si distendevano su uno sfondo bianco. Occhi grigi coperti da un velo di ciglia nere. I lineamenti erano solchi che calcavano un'espressione curiosa sul viso. La bocca socchiusa. Una cascata di riccioli bianchi inondava la testa e cascava sulla schiena. Un vestito nero in pizzo lasciava scoperte le spalle e stringeva la vita, per poi aprirsi in una gonna svasata.

Stavo ferma come un birillo. Non sapevo cosa dire. L'autista era un'ombra dietro di me. Gli occhi di quella donna mi gelarono. Attraverso le iridi senza colore scorsi una figura dritta con in mano due valigie. Esplorai con uno sguardo quel volto segnato da piccole rughe; come esaminare con una lente d'ingrandimento un paesaggio attraversato da piccole scanalature. Quella donna era così diversa da me, come poteva essere mia zia? Ero figlia del caso, immersa in una realtà mai vissuta prima. Le palpebre si chiusero e due braccia mi circondarono. Il mio corpo immobilizzato abbracciato da quella donna, come un palo avvolto da un ramoscello.
«Bella come mia sorella»
Le sue labbra si schiusero in un sussurro e le posò sulla mia testa. Con una mano mi accarezzava i capelli. Era così dolce, come se mi stesse fasciando con un lenzuolo di zucchero filato. Completamente vuota. Quella donna aveva spazzato via tutto in un attimo, in un abbraccio. E non ci conoscevamo nemmeno, non l'avevo mai vista in vita mia. Tutto accaduto per caso, eppure un legame già ci univa. Gli anelli di una catena che pian piano cominciava a comporsi.

«Oh che queste valigie pesano!»
Era l'autista. Il bianco del suo sorriso da strafottente spiccava. La zia si staccò da me. Le sue pupille si restrinsero. Il naso si arricciò. Corrugò le sopracciglia e abbassò la testa. Prese le valigie e le trascinò dentro casa. Io e l'autista la seguimmo.
Lei vedendomi mi sorrise:
«Chiamami Lisandra»

Ricambiai il sorriso e rimasi in piedi al centro della sala, come una formica in una gabbia gigantesca. Un tappeto di fantasie deformi straripava come un fiume arcobaleno sotto i miei piedi. Sulle pareti si stendeva un bianco su cui si incastravano dipinti di ogni dimensione. Solo su una parete dominava il rosso, talmente scuro che si sarebbe squagliato in un mare di sangue sul pavimento. Alla mia destra un divano verde, davanti a me una libreria piena di libri. Al centro della sala la luce del sole annegava un tavolino rotondo circondato da quattro sgabelli. L'autista chiuse la porta. Le mani in tasca e gli occhi che gironzolavano da ogni parte. Si avvicinò a me.

«Non ci far caso, è solo psicopatica...»
Alzai lo sguardo:
«Quindi tu e lei vi conosc...»
Mi mise una mano sulla bocca:
«Non fare domande, non c'è nulla da capire o sapere»
Si allontanò e si andò a sedere su uno degli sgabelli. Rimasi immobile affianco al divano mentre lui scribacchiava sul telefono. Da quando aveva visto la zia pareva irritato. Come se fosse scontento di se stesso e avesse perso la perversità, quella paura con cui riusciva a dominare la mia mente.

«Lamia! Che fai ancora in piedi, siediti!»
Mi voltai. La zia era arrivata con un vassoio in mano. Annuii e mi accomodai sul divano. Si sedette affianco a me e poggiò il vassoio sul tavolino. Tre tazze di tè freddo mezze piene, un piatto con dei tramezzini, una ciotola di patatine.
Mangiammo in silenzio. Ad un certo punto l'autista si alzò e andò in bagno.

Gli occhi di Lisandra si posarono sulle mie mani. Le sue dita incontrarono le mie creando un groviglio inestricabile. Il suo sguardo risalì sul mio viso come uno strascico che si sollevava da terra. I suoi palmi premevano contro i miei come se dovessero squarciare la pelle ed entrare dentro di me, oltre i tessuti e infilarsi nella mia anima. I nostri occhi si incrociarono e cucirono un telo che mi avvolse in un abbraccio. Un calore formicolava sulle guance. Noi due paralizzate su quel divano mentre la vita ci scivolava addosso. Aprì la bocca e inspirò lentamente:

«Bentornata»
Districò le sue dita dalle mie e mi accarezzò i palmi con i pollici. Era come se la vita si fosse bloccata. Così amorevole, mi ricordava la canzone di prima. La stessa voce che pronunciava parole d'amore, lo stesso abbraccio, le stesse emozioni artificiali di prima che diventavano realtà. Quella melodia di addio dispersa nel vento era ritornata, come se si fosse reincarnata in Lisandra. Sentivo che c'era qualcosa di nascosto dietro quei gesti d'amore.
Volsi lo sguardo in basso:
«Posso farti una domanda?»
Lei annuì.
«Conosci per caso una canzone che fa "I've sent this letter... reach your hand" e poi dice "Goodbye" e poi c'è un pianoforte e una voce masc...»
«Trilogy»
Fece un attimo di pausa:
«Immagino te l'abbia fatta ascoltare lui»
«Ma vi conoscete?»
Sfiorò le mie labbra con l'indice:
«E chi lo sa»

L'autista tornò dal bagno. Lanciò un'occhiata verso noi due. I suoi occhi sbirciarono da sotto le sopracciglia arruffate ogni mio particolare. La zia continuava ad accarezzarmi a testa bassa, non si era nemmeno accorta della sua presenza. Il vuoto. Quell'uomo era una domanda vivente. Che senso aveva quella rivalità? Ogni sua azione scavalcava la logica e mi mandava in paranoia.

«Posso rimanere anche la notte?»
Lisandra alzò la testa:
«Perché?»
«Perché riparto domani mattina»
Si risedette sullo sgabello e posò le mani sulle ginocchia:
«Medellin è troppo lontana»
Lei corrugò le sopracciglia e si staccò da me. Le sue pupille scivolarono sui capelli brizzolati, sui tratti spigolosi, sul collo fino a posarsi sulle occhiaie. L'autista la fissava in cerca di una risposta. Chissà cosa pensavano l'uno dell'altro...
«Solo stanotte»
Lui sorrise, ma non era il sorriso che incuteva paura. Era come sbeffeggiasse se stesso. Non aveva più lo stesso potere su di me, non riusciva più a spappolarmi i pensieri e a decifrare le mie emozioni. Ogni suo movimento o espressione era un qualcosa di effimero. Si alzò e uscì dalla stanza.

Nel pomeriggio io e Lisandra passeggiammo per le vie di Cartagena. Stradine con case coloniali, patii, chiostri, chiese, conventi, palazzi. Alle figure grigie non ci pensai nemmeno, la zia era uno scudo da loro. Camminare con lei era come aprirsi un varco in mezzo a quella melma di gente. Tornammo a casa verso le otto di sera e cenammo. Andai a dormire presto perché ero molto stanca.

I denti infilzano, lacerano e squartano la carne. La luce della luna illumina le chiome ramate e le natiche ricoperte di squame. Le lingue leccano fiotti di melma viscida che scivolano in gola a piccoli sorsi. Un ultimo sorso impregna le loro anime. Le code si curvano, si rizzano, si allungano in spirali. Le mani stringono pezzi di organi che si spappolano in brandelli appiccicosi, come se fossero rivestiti da bava.
Le ossa galleggiano in un mare di sangue. Gli occhi sono due buchi neri che risucchiano ogni traccia di vita e la sputano in un fango di morte.
Le donne serpente inspirano a pieni polmoni l'aria satura di perversità. La loro pelle bianca è una tela sporca di rosso. I loro occhi sono puntati su quell'uomo e quella donna smembrati.
Nessun urlo.
Solo il sapore del sangue sulle labbra.

Aprii gli occhi. Il lenzuolo bagnato e le goccioline che scorrevano sulla schiena e tra le gambe. Un odore acre scivolava lungo le pareti e impregnava il letto. Le occhiaie pesavano come macigni. Un dolore picchiettava la fronte e le tempie come una pioggia di lava. Il battito del cuore tuonava nel mio petto come se una cascata di fulmini mi stesse colpendo. L'orologio segnava le due di notte. Mi alzai dal letto e mi affacciai alla finestra. Il cielo nero rigato dalle striature bianche della luna. Un'aria gelida si infilava sotto la canottiera zuppa e un fruscio si intrufolava nelle orecchie. Cos'era quel sogno? Perché avevo sognato la leggenda di Lamia? E se questi cadaveri fossero stati i miei genitori? Avrei voluto piangere, ma non ci riuscivo; c'era qualcosa che non me lo permetteva. Era tutto così strano, eppure tutto ciò che prima sembrava un mistero in realtà si annodava ad altri fili in un reticolato di assurdità.

La porta si aprì. Due braccia mi circondarono. Di nuovo.
«Cosa succede?»
«Ho fatto un incubo»
Lisandra mi strinse di più:
«Quanto sangue c'era?»
«Tanto, troppo»
Sospirai:
«E credo che le vittime siano i miei genitori»
Niente. Nessuna lacrima. Com'era possibile?
«So già cosa hai sognato»
«Cosa?»
«Lamia»
«Sì, due Lamia che divoravano un uomo e una donna»
«Intendo anche il tuo nome»
Mi accarezzò:
«La leggenda che sta dietro il tuo nome»
Mi staccai da lei e spalancai gli occhi:
«No. Non anche tu»
«Perché dici questo?»
«La canzone, la leggenda di Lamia... anche l'autista me le aveva fatte sentire queste cose. E poi non capisco più niente, quell'uomo mi ha mandata in confusione»
La notte sprofondava sulla città e la luce della luna gocciolava come vernice sui muri dei palazzi.
«Tutto collegato in una rete di assurdità, non ha senso»
«Non è una rete di assurdità»
Mi voltai verso di lei. Si era seduta ai piedi del letto. I suoi occhi erano due scaglie d'argento nel buio.
«Sono segnali»
«Segnali di cosa?»
«Della tua perversità»

Mi girai verso di lei:
«Anche l'autista me ne aveva parlato»
«Dimentica l'autista, già il fatto che tu non sappia nemmeno il suo nome dimostra quanto sia un'esistenza indecifrabile ma allo stesso tempo effimera»
«Ma se qualcosa è indecifrabile devo per forza saperne il significato»
Lisandra scattò in piedi. Le sopracciglia si alzarono. La luna aveva cancellato ogni ruga e illuminava la pelle come una maschera di carta. Le labbra semichiuse. Era di fronte a me:
«Lamia, ti piacerebbe bere un bicchiere di petrolio?»
«Assolutamente no»
«Ecco. È lurido, amarissimo e nero. Un bicchiere di tenebra liquida, colmo di segreti. Prova ad immaginare centinaia, migliaia, milioni di formiche immerse in quel liquido. Ti piacerebbe infilare le mani lì dentro per prendere ogni singola formica?»
«No»
«E allora non serve sapere il significato delle sue azioni, non significano nulla, come le formiche nel petrolio. Una volta che hai preso tutte le formiche non solo non hai ottenuto nulla, ma ti sei anche fatta un danno da sola imbrattandoti di quella melma»

Ricordi e pensieri erravano per la mia testa, fuggivano come nuvoloni neri che sfumavano dopo una tempesta, frammenti azzurri che si ricomponevano in un cielo sgombro da nuvole. Finalmente capivo qualcosa, riuscivo a dare un senso alla mia esistenza. Non ero più come la massa di persone grigie, non ero più uno dei tanti tasselli di quel mosaico di tristezza.
Mi avvicinò le labbra all'orecchio:
«Concentrati sulla perversità piuttosto»
Il sudore scorreva sulla mia pelle. La sua mano mi stringeva il collo e le sue unghie infilzavano la carne. Ero sporca. L'anima era un pozzo di dolore e le pareti del mio cuore erano appiccicose di un desiderio di sangue. Bastava quella parola, una sola parola per far ardere in me quella voglia di morte.
«Ho sempre immaginato com'è questa perversità»
Lisandra lasciò il mio collo.
«E io allora non ti lascerò mai il privilegio dell'immaginazione»

Aprì la porta:
«Lo senti?»
Note di pianoforte si arrampicavano per aria. Tasti che si avvinghiarono nel nulla e si incastrarono l'un l'altro creando un crescendo. E poi ruzzolarono giù, come se fossero caduti da un precipizio.
«È Trilogy»
In lontananza i sintetizzatori componevano un delirio di note. Quella canzone era rinata. Io ero rinata. Volsi lo sguardo verso Lisandra. Lei sollevò due coltelli e mi sorrise. Non c'era più nulla da dire o capire. C'era solo da lasciarsi trascinare in quel tripudio di pazzia.
«Lamia, è il tuo momento»
Lisandra mi porse un coltello:
«Andiamo?»
«Andiamo»

Mi prese per mano e mi portò in salotto. L'autista giaceva sdraiato sul divano. La voce maschile era tornata ad accompagnare il pianoforte, ma stavolta era qualcosa di più selvaggio. Le parole scivolavano sui tasti dei sintetizzatori come carezze frenetiche. Alzai il suo braccio. Affondai la lama nella carne e tracciai una linea orizzontale dietro al collo. Quello specchio argenteo si macchiò di schizzi scuri.
I suoi occhi si aprirono e un grido si sollevò dalle sue labbra. Era così soddisfacente, ero come quella canzone, rinata, sì, rinata da quel dolore che non mi apparteneva. Lisandra lo buttò per terra e lo trascinò verso la parete rossa. Lo prese per i capelli. I suoi occhi erano trafitti dal bagliore della luna. Le sue pupille si spostavano da ogni parte come se volessero fuggire e scivolare giù lungo il corpo.
Lisandra gli coprì la bocca:
«È un grave errore urlare a mezzanotte»
L'autista trattenne un gemito. Non potevo più resistere. L'adrenalina fluiva come droga nelle mie vene. Lisandra conficcò il coltello nel suo braccio.
«Ora»
Impugnai di più il coltello e lo colpii. Una, due, tre coltellate. Niente e nessuno mi avrebbe più fermato. Niente e nessuno aveva più importanza. Sangue schizzava da ogni parte e soffocava i gemiti dell'uomo fino a spegnerli. Quella melma fuoriusciva da ogni parte e scendeva come un mare sul pavimento. Il cuore mi batteva all'impazzata, ma non riuscivo a fermarmi. Ancora, ancora, ancora più sangue. Ne volevo ancora, ancora e ancora.

Il brano era finito. Mi fermai.
Non restava più nulla dell'autista. Rimaneva solo quella rugiada rossa.
Lisandra mi sorrise.
Io, Lamia, padrona della mia perversità.
E ora non mi restava che assaporare il sapore del sangue.
Il coltello mi cadde dalle mani.
«La mia sete di sangue non è ancora passata»

I diritti d'autore del brano "Trilogy" (1972) vanno solo ed esclusivamente agli Emerson Lake & Palmer.

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