7. Perversità al sapore di Sangue (PARTE 1)

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Erano le sei e ventidue del mattino e la carreggiata era sgombra di veicoli.
Ogni cosa era addormentata, l'unico suono percepibile era il rumore di rotolamento degli pneumatici sull'asfalto.
Posai gli occhi su dei cartellini bianchi con le scritte "Cartagena... Barranquilla..." e il resto venne reso un mucchio di lettere mosse dall'auto che sfrecciava veloce sulla strada statale.

Volsi lo sguardo alla mia sinistra. Due occhi castani incrociarono i miei. La mano destra sul volante e il braccio sinistro a peso morto lungo l'esterno dello sportello. Il vento agitava i capelli brizzolati come un phon sparato sulla faccia. L'autista inforcò un paio di occhiali neri sul naso e incurvò le labbra. Mise la mano sinistra sul volante e le dita adunche della destra infilarono un cd nell'autoradio.

Un insieme di note cominciò a correre insieme al vento:
«You get a shiver in the dark
It's a raining in the park but meantime-
South of the river you stop and you hold everything»

«A band is blowing Dixie, double four time» continuò l'autista. I miei occhi fissavano come due luci spente la strada.
«You feel alright when you hear the music ring»
La sua voce grave soffiava una serie di parole a me incomprensibili.
«Che canzone è?»
«Sultans of Swing dei Dire Straits, mai sentita?»
«Mai sentita»
«Nemmeno quando eri piccola?»
«Mai»
Lui alzò le sopracciglia:
«Che infanzia di merda»
Alzò il volume. Io rimanevo con la schiena incollata al sedile. Il vestito bianco in pizzo era così leggero che con una folata il vento se lo sarebbe portato via. I capelli lunghi e lisci come spaghetti svolazzavano da ogni parte. Due ciuffetti cadevano sopra la fronte e fili neri coprivano la visuale. Il paesaggio ai miei occhi era una tela graffiata da un gatto. Le labbra erano serrate in una striscia orizzontale ed erano risaltate da un colore roseo.

Avevo circa quattordici o quindici anni all'epoca. Un mese prima erano morti i miei genitori in un incidente stradale. Mentre loro venivano travolti da mille pezzi di vetro io me ne stavo nel comfort del mio letto. Era un qualcosa di raccapricciante. Genitori e figli sono attaccati a un filo che nessuno riuscirebbe a spezzare, i genitori saranno sempre con i figli e i figli saranno sempre con i genitori. Ora che si era spezzato quel filo ero abbandonata. Ero come un'edera molle e rigogliosa, che si attaccava e si stendeva sopra al muro resistente dei miei genitori. Ma quando questo muro si sbriciolò le foglie dell'edera cominciarono a cadere una ad una. Le mani che si stringevano, le dita intrecciate tra loro in un groviglio inestricabile, la pressione dei palmi che sprigionava quell'inconfondibile calore materno echeggiavano nella mia mente. Era come se fossi nuda e stessi camminando su un sentiero infinito di carboni ardenti. Un'impotenza mi assaliva dalla testa ai piedi come se un branco di lupi stesse divorando ogni centimetro della mia carne. Erano collassati due pianeti e un intero universo era scomparso. Il silenzio aveva risucchiato qualsiasi emozione e mi aveva reso uno spettro. Agonia. Troppi pensieri scarabocchiavano la mia mente, era come se tutte le linee di quegli scarabocchi mi si attorcigliassero attorno alla gola e mi sgozzassero.

«Oh ma che è sta faccia?»
L'autista ruppe il mio vagare nel vuoto.
«Niente»
«Niente niente?»
«Niente»
Fece un sospiro e ruotò gli occhi. La canzone era finita da un pezzo e ne partì un'altra completamente diversa. Un flusso come di archi scese lento e dopo pochi secondi si affievolì in un'ultima vibrazione. Un groviglio di note di pianoforte mi scivolò addosso in un crescendo, per poi districarsi in una melodia che mi sfiorava la pelle come velluto. Gli occhi liquidi e grandi erano contornati da due occhiaie poco più scure della mia carnagione. Li chiusi e aprii bocca senza proferire parola. Una voce maschile mi accarezzò le orecchie con parole dal sapore d'amore. Il pianoforte era una sequenza ordinata di suoni che cuciva un telo e mi avvolgeva in un abbraccio. Era come se la vita si fosse bloccata. Solo gli ingranaggi di quel rettangolino su quella distesa grigia si muovevano, oliati da quella musica. La voce si era trasformata in una melodia di addio. I colpi dati al pianoforte volevano sovrastarla, come se quella voce stesse abbandonando quei tasti.

«I've sent this letter hoping it will reach your hand
And if it does I hope that you will understand
That I must leave in a while»
Conficcai le unghie nel tessuto del sedile. Tenevo la schiena dritta come se una lama fredda mi premesse la pelle. Mi morsi il labbro finché la prima goccia di sangue non finì sulla mia lingua. La melodia aumentava d'intensità:
«And though I smile
You know the smile is only there to hide
What I'm really feeling deep inside
Just a face where I can hang my pride»
Presi un respiro profondo. C'era un qualcosa in quel brano che mi rendeva colma di tristezza ma allo stesso tempo scatenava in me una rabbia mai provata prima. Avrei voluto alzare il braccio, afferrare la radio e scaraventarla in strada. Volevo vedere ogni componente di quell'aggeggio disintegrarsi in mille frantumi e ridursi in polvere al passaggio delle macchine sulla statale.
Ma perché dovevo distruggere, sgretolare, dimenticare l'abbraccio di quelle note?
Non riuscivo a capire. Perché sbloccava la mia agonia con emozioni artificiali? Quale messaggio incomprensibile si celava in quella dolcezza? La sequenza ordinata di note culminò in un groviglio. Si dissolse in un trillo. Diventò un tintinnio. La voce maschile si disperse nel vento:
«Goodbye...
Goodbye...»

Ma non era ancora finito. Il telo che mi avvolgeva si disintegrò e mille fili di note si avvilupparono in un intreccio. Ero paralizzata ma dentro di me si espandeva una follia, un calore che non aspettava altro che culminare in una vampa di calore sulle mani e sul viso. Il pianoforte non mi accarezzava più la pelle. La graffiava, grattava, sfregava per poi strapparmela di dosso. Amavo questa sensazione, ero diventata un essere senza identità assetato di sangue. Le dita che pestavano quei tasti sembravano disperdere fiotti di sangue per aver perso l'accompagnamento di quella voce.

«Si può sapere che cazzo succede?»
Un click inghiottì la musica. La decappottabile era ferma sulla corsia di emergenza della statale deserta. L'autista si voltò verso di me. Gli occhiali da sole neri coprivano metà viso ed evidenziavano le sopracciglia lunghe e folte come pennellate. Le labbra erano serrate in una linea sottile in attesa di una risposta.
«Piangi e ti aggrappi al sedile manco se fossi sopra una sedia elettrica»
Sul suo viso si leggeva una certa stizza, come se un verme gli fosse passato davanti. Mi passai la mano sul viso e lo guardai.
«Tieni»
Mi porse uno specchietto. Un'espressione attonita strisciava come una serpe lungo i miei lineamenti. Gli occhi erano due fiumi in piena che traboccavano sul volto. Righe trasparenti scendevano lungo le guance come gocce di pioggia sul vetro di un auto. Avevo pianto e non me ne ero nemmeno accorta. Com'era possibile sentire la follia dentro di sé e continuare a disperdere lacrime? Ridiedi lo specchietto all'autista. La decappottabile ripartì.

«Come si chiama quella canzone?» chiesi.
«Prima rispondi alla mia domanda»
«Non lo so» risposi in modo secco.
Aggrottò le sopracciglia, come per riflettere, poi premette il piede sull'acceleratore come se avesse capito:
«Lamia, mi dispiace tantissimo»
«Per cosa?»
«So che ti mancano»
Ripiombai nel dolore. Lo stomaco si contrasse come una spugna schiacciata. Il vento mi fischiava nelle orecchie. Le lacrime scorrevano silenziose. Piangere era un qualcosa di naturale, non singhiozzavo nemmeno. L'agonia aveva risucchiato tutte le emozioni artificiali di prima. La sete di sangue era sparita e restava solo la tristezza della realtà. Presi un respiro profondo:
«È da un mese che mi sento come in una vasca di pianto, che piano piano si riempe di voci, urla e dolore. Le lacrime salgono sempre di più fino a sommergermi del tutto, fino ad un punto di non ritorno. È come fare un suicidio ad occhi chiusi»
Parlavo come un automa che riferiva numeri su numeri. Attraverso la vista appannata intravedevo le sue mani che stringevano il volante:
«Non farti immergere dal pianto, non permettere alle tue stesse lacrime di farti affogare e di ammazzarti»
Tirai su con il naso:
«E perché? Se mi lascio immergere non riesco a respirare, affogherei, ma è un piccolo sacrificio, un piccolo sacrificio per non sentire più le voci, le urla e il dolore, per non sentire più nulla»

«E allora perché stiamo qua sopra?»
«Non me lo ricordo»
«Stiamo andando a Cartagena de Indias da tua zia, andrai a vivere da le...»
«Non sarà mai come mamma» lo interruppi. Gli occhi erano due vulcani da cui uscivano lacrime calde come lava bollente. La gola chiusa da un singhiozzo che non voleva uscire. Tenevo le mani strette a pugno. Il vuoto. Mi mancavano da morire. Senza di loro ogni istante della mia vita era come correre controvento con un lenzuolo che mi soffocava dalla testa ai piedi. Ma sarebbe bastato solo lasciarsi trascinare dal vento e non avrei sentito più la fatica ad ogni passo, il lago di lacrime sul volto, quella morsa che mi pressava ogni organo.
L'autista mi guardò con la coda dell'occhio e mi buttò sulle cosce un pacchetto di fazzoletti. Ne presi uno e me lo stronfinai sulle guance. Il nodo in gola si sciolse. Il cuore ricominciò a battere regolarmente.

«Lamia, sai cosa devi fare per smettere di soffrire?»
«Nulla perché non smetterò mai»
«Eh no»
Si morse il labbro. La testa diritta. Si tolse gli occhiali e le pupille si dilatarono. I suoi occhi castani erano fissi sulla strada. Le sue occhiaie erano così grigie che sembravano colare in una nebbia di cenere sui lineamenti. Le sopracciglia spiccavano come due ali di gabbiano sul viso dai tratti spigolosi. Si grattò il mento. Il fazzoletto mi cadde dalle mani. Non sapevo cosa stesse per dire. Mosse la bocca verso sinistra poi schiuse le labbra in un sorriso:
«E se trasformassi le lacrime in sangue?»
Corrugai la fronte: «Ma- ma non ha senso! Non capisco»
«Hai capito benissimo invece, non ti sei accorta di cosa stavi facendo prima?»
«Prima quando?»
«Mentre ascoltavi la canzone»
«Ehm no»
«Non mentirti»
Rise e scosse il capo:
«Potrai dire di no quanto vuoi ma non potrai mai reprimere la tua sete di sangue: hai bisogno di affogare il tuo dolore nella perversità non credi?»
«Cosa significa? Che cos'è la perversità?»
«Lo scoprirai ben presto»
Le sue parole risuonavano come il sussurro di un demone, degli artigli che cercavano di entrare nella mia mente per spappolare i pensieri e ridurli in tante piccole gocce di sangue. Premette il piede sull'acceleratore. Girai gli occhi dall'altra parte. Quell'uomo mi faceva paura, ma non era una paura normale. Non sentivo il cuore battere all'impazzata, la fatica a respirare, l'oppressione, l'agitazione e nemmeno la confusione. Il sangue scorreva caldo nelle vene. Un formicolio mi impossessava le mani. Ingoiai la saliva e una schiuma bollente scese giù. Le narici si dilatarono. Mi passai la lingua sulle labbra. Non sapevo cosa mi stava prendendo, io non comprendevo quel messaggio ma il mio corpo sì. Come se quell'autista, un estraneo di cui non ricordavo nemmeno il nome, avesse messo davanti a me un bicchiere colmo di sangue e io lo stessi sorseggiando ad occhi chiusi.

Si voltò verso di me. Le nostre pupille si attaccarono come calamite per poi staccarsi dopo pochi secondi. Quello sguardo era indecifrabile, ma allo stesso tempo cercava di decifrare ogni mio movimento, espressione ed emozione. Immaginavo quegli occhi tinti del grigio argenteo di una lama che affondava nella carne. E a mano a mano che il coltello si addentrava in profondità il grigio si macchiava di schizzi di rosso, un rosso sempre più scuro, che copriva sempre di più il grigio. Sempre più rovente di quella perversità che aveva nominato.

«Lamia la sai la leggenda che c'è dietro il tuo nome, vero?»
«E perché mi stai facendo questa domanda di punto in bianco?»
«Non chiedere, rispondi e basta»
Feci di no con la testa. L'autista prese una boccata d'aria e iniziò a spiegare:
«Lamia, secondo la leggenda, era la regina di Libia e di lei si innamorò Zeus. Era, moglie di Zeus, uccise quasi tutti i figli della mortale. Per tutta risposta Lamia si trasformò in un mostro che strappava la vita al bene più prezioso delle madri: i figli, esattamente come aveva fatto Era con lei per punirla»
Ascoltavo in silenzio. Spalancai gli occhi. Ancora una volta il dolore era scomparso senza che me ne accorgessi. Non capivo nulla. Né la canzone, né il messaggio dell'autista, né quella leggenda. Qual era il nesso di tutti questi eventi? Tutto così irrazionale, ma allo stesso tempo così collegato. Ero estranea a me stessa, come se fossi un disegno al centro di un foglio bianco e altre figure sconosciute venissero dipinte dentro di me. Forse non dovevo sprecare nemmeno tempo a cercare di tradurre tutto questo in qualcosa, forse l'unica persona da capire ero io.

«...Creature con corpo di serpente e volto di donna, esseri mitologici che si nutrivano del sangue e delle carni di bambini e giovani ragazzi, non lo trovi minimamente affascinante?»
Non gli risposi e sorrisi a bocca chiusa. Volevo troncare ogni conversazione e lasciare che il silenzio prosciugasse tutto. Lui ricambiò il sorriso e si immise in autostrada.

Rimanemmo in silenzio.

Arrivammo a Cartagena de Indias quando il sole mi inondava in una pozzanghera di luce. La macchina avanzava nel fremito del traffico. Affianco alla strada brulicavano mandrie di turisti che si dirigevano verso l'agglomerato di palazzi moderni del centro. L'azzurro del mare si stendeva sull'orizzonte come un deserto cristallino. Il traffico diminuiva e la decappottabile percorreva la carreggiata come una forbice che tagliava in un fruscio la carta. Man mano che andava avanti tutto ciò che era dietro sembrava scomparire in una nuvola di smog.

L'autista si accese una sigaretta. Una spirale di fumo fuoriuscì dalle labbra e si disperse nell'aria. Chiusi gli occhi. Quella nebbia di cenere si infilava nelle narici e sprigionava un'aroma pungente.
«Siamo sull'Avenida Blas de Lezo, ti piace?»
«Un po' caotico»
«Eh beh, siamo pur sempre nella città più importante della Colombia»
Assaporò un'altra boccata di fumo e indicò un portico a tre arcate in pietra sul quale si sorreggeva una torre gialla e bianca:
«Questa è Torre del Reloj, porta d'accesso al centro storico di Cartagena e ingresso originale alla città fortificata»
Guardai ancora per un attimo la fortificazione prima che sfumasse in una tela di luci gialle e bianche. Le macchine erano tante formiche bianche e nere su una distesa marrone chiaro. Le nuvole affondavano nel blu del cielo e facevano da sfondo ad abitazioni di ogni colore. Su un'insegna si incastravano figure arcobaleno coperte da una scritta in corsivo "Soy Getsemani". Alla mia destra il panorama cittadino era macchiato a chiazze dalle sfumature di verde delle fronde degli alberi e delle palme.
L'autista finì la sigaretta e la buttò via.

Superammo una costruzione in marmo simile ad un cimitero e da lì in poi la vita diventò un formicolare di colori di ogni sorta. Bordeaux, blu, beige, rosa, giallo ocra, bianco e altre infinite tonalità si mescolavano in un vortice pulsante di vita. Era un'ipnosi dell'anima, la realtà e la fantasia erano così lontane ma allo stesso tempo così vicine. Una città bambina, da guardare con gli occhi luccicanti e la bocca spalancata.
Possibile sentire in un solo giorno la voglia di morire, la sete di sangue e l'incanto di una città surreale? Una domanda indecifrabile. Un'ossessione improvvisa, come se avessi incrociato lo sguardo di uno sconosciuto e mi fosse rimasto impresso nella mente.

«Hey»
Mi girai. L'autista era alla mia destra con uno zaino alle spalle e mi fece segno di venire con lui. La decappottabile era parcheggiata in un grande spiazzo circondato da palme.
«Andiamo?»
«Andiamo»
Presi le valigie e lo seguii.

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