Atto I

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Era già buio quando il mio turno di lavoro finì. La sartoria gestita dalla Signora Felicia aveva chiuso tardi il suo Atèlier ed era stato compito mio chiudere a chiave. Mi era stato commissionato un abito in ritardo, ma la Signora Felicia non mi aveva dato il permesso di uscire, almeno finché non lo avessi finito. Fortunatamente ero molto veloce con ago e filo. Non era questa la causa del mio rincasare così tardi, bensì l'attenzione verso i dettagli e la qualità del tessuto. L'Atèlier della Signora Felicia era molto rinomato tra i nobili, i nostri clienti erano impeccabili. Questo impiego mi permetteva di vivere una vita semplice, in un piccolo appartamento nella periferia di Londra.

Cercai di correre su quella strada ciottolata irregolarmente, senza sforzarmi troppo con le mie scarpe usurate. La pioggia scendeva sonoramente e batteva secca sopra il giornale con cui mi riparavo la testa. La pagina era aperta su un articolo che metteva i brividi. Rosa Nera era stato avvistato per le vie di Londra proprio il giorno prima. Lui non era un semplice uomo, bensì il ladro mascherato più spietato e pericoloso di sempre.

Non mi sentivo per niente sicura in quelle vie poco illuminate, con la nebbia alta e il rumore della pioggia che confondeva i suoni. La mia vista era appannata, ma mi scansai appena in tempo quando vidi venirmi in contro due grossi cavalli che trainavano una carrozza.

«Fate attenzione, signorina», mi rimproverò l'uomo che fungeva da cocchiere.

«Scusatemi». Cercai di stare più attenta e proseguii per la mia strada.

Uscendo dal Centro città e dirigendomi verso il paese notai diverse lanterne spiccare nel buio e udii un forte brusio di sottofondo. E dei passi, una corsa senza sosta verso una meta comune. Fui costretta ad avvicinarmi, la mia casa non era lontana da quel punto, così riconobbi gli agenti di polizia, impegnati ad inseguire qualcuno.

«Fermatevi!», urlarono affannosamente, «Tornate indietro! Questo è un ordine!», ma nessuno sembrò dar loro ascolto.

Mi chiesi chi avrebbe potuto essere, ma a sguardo basso percorsi l'ultima via prima della meta, dalla parte opposta. Improvvisamente un'ombra nera mi piombò davanti, con la stessa maestria di un gatto e si fermò a guardarmi. Mi impietrii sul posto, incapace di parlare, muovermi e, addirittura, respirare. Il tempo sembrò fermarsi per un istante. Non riuscivo a scorgere molto nel buio, ma quell'immagine mi ricordava tanto un'altra che era sopra la mia testa, ormai inzuppata.

«Da questa parte!», riconobbi la voce degli agenti e quel brusio lontano mi risvegliò dalla trance. Mi voltai a controllare, quando una solida presa mi bloccò le braccia e mi tappò la bocca. Mi sentii trascinare verso un vicolo buio alla mia sinistra e pochi secondi dopo la squadra di polizia corse senza sosta lungo la via in cui ero prima. Eravamo. L'ombra nera non mi aveva dato il tempo di realizzare ciò che era successo. Quando il rumore dei passi cessò, la presa attorno al mio corpo si fece più lenta e svincolai, liberandomi facilmente. Appoggiai la schiena al muro, con un terribile batticuore e l'istinto di urlare. Lo shock subìto ancora non mi permetteva di reagire.

«Non dovreste girovagare di notte tutta sola, potreste incontrare individui pericolosi». La voce del mio presunto aggressore suonò lieve e vellutata. Attirando così la mia attenzione mi presi del tempo per scrutarlo. Portava un mantello nero, con le piume sulle spalle, sotto il quale si intravedeva un completo elegante dello stesso colore. Da sotto il suo cappello a cilindro sbucavano lunghi ciuffi biondi che coprivano parte del viso. Il viso, era impossibile vederlo. Solo le sue labbra erano in vista, perché i restanti lineamenti erano nascosti da una maschera nera.

«State parlando di voi?», trovai il coraggio di dire. Le mie parole uscirono come un sussurro, ma l'uomo capì. La sua bocca si curvò leggermente verso l'alto, mostrando un vispo sorrisetto. Girò la testa di lato, verso l'unico riflesso di luce che emetteva un lampione e così vidi i suoi occhi. Restai ammaliata da quanto erano insoliti. Un azzurro così intenso, ma oscurato dalle ombre della notte. Erano vivaci, attenti e, soprattutto, giovani.

Di scatto ritornò a guardarmi, senza perdere la sua espressione. «Sono la Rosa Nera».

Il sussulto che feci non sembrò così tanto sincero. Sapevo già chi era e per qualche ragione ne restai affascinata. «Immagino che quegli uomini stessero cercando voi», affermai con troppa disinvoltura.

«Sì e vedendovi qui avrebbero interrogato anche voi».

La testa iniziò a girarmi per le troppe emozioni. Ecco perché mi aveva nascosta con lui. «Adesso sembrerà che io sia vostra complice!», non avrei mai dovuto permetterlo. Feci per andarmene, quando venni ancora bloccata al muro, con tutta la sua figura a oscurarmi. Sollevò leggermente il mantello di lato e il suo viso fu subito vicino al mio. I suoi occhi persero la lucentezza che avevo scorto e quando la mia voce minacciò di uscirmi dalla gola, Rosa Nera appoggiò il suo dito sopra la mia bocca, zittendomi. Sentivo la stoffa del guanto bianco premermi contro. Non ne capivo il motivo, ma non ero più spaventata di prima. La soggezione che mi incuteva mi aveva pietrificata. D'un tratto piccoli passi lenti si stavano avvicinando alla nostra postazione e il riflesso di una lanterna illuminò la via principale. Io non vedevo niente, ero avvolta dall'oscurità di Rosa Nera.

«Fate attenzione ed evitate di creare rumore», sentii la voce degli agenti di polizia che cercavano ancora invano di catturare il ladro. Mai nessuno ci era riuscito, fin'ora. Pensai bene di far saltare la copertura gridando che lui era lì e aveva cercato di rapirmi. In fondo, Rosa Nera non mi stava impedendo di parlare. Era convinto che un solo gesto mi avrebbe messa a tacere, allora perché stava funzionando? Era il timore di essere scoperta e messa sotto processo o c'era dell'altro? La polizia avrebbe sicuramente creduto a me, ma l'idea di tradire la fiducia di quel ragazzo in qualche modo mi infastidiva. Quando constatai che gli agenti se n'erano andati e Rosa Nera aveva abbandonato ogni forma di protezione, eccetto la vicinanza tra noi, lo spinsi lontano con la forza che avevo. Che pensiero ridicolo che mi ero fatta venire. Mi vennero i brividi.

«Perché non avete paura?», mi fece notare. Aveva ragione, ero fin troppo lucida e tranquilla per agire come una disperata e scappare. Il mio corpo aveva ripreso la sua mobilità, eppure non mi staccavo da quel muro. Quindi, perché non avevo paura? Ero al corrente delle aggressioni e delle rapine che effettuava quel ragazzo, eppure aveva l'aria di essere un gentiluomo. Avrebbe potuto essere un inganno, a pensarci bene.

«Sono altre le mie paure», gli confessai, suscitando un non so che interesse.

«Perché non siete in casa?», forse voleva informarsi un po' troppo. Decisi che non era una buona idea espormi così, quindi rimasi in silenzio. Abbassai lo sguardo, temendo il suo inquisitore. «Non avete rifugio per la notte? Tenete». Il suo stato di preoccupazione mi aveva sconvolta, ma ancor più ciò che teneva tra le dita, una moneta d'oro.

«Io ce l'ho una casa! Non posso accettare!», mi sentii in imbarazzo per l'equivoco.

«Dunque perché non correte al riparo nel vostro focolare?».

Poi capii, la domanda non era perché non rientrassi in casa, ma perché fossi ancora con lui. Non sapevo cosa rispondere e non volevo farlo, perciò raccontai la verità. «Sono rimasta a lavorare oltre l'orario di chiusura».

«Allora tenete il denaro per l'impegno», non aveva ritirato la moneta dalla mano, quale ladro avrebbe mai fatto un gesto simile?

«No, non accetto denaro rubato», non mi importava di risuonare scortese. Non volevo i suoi soldi.

La sua reazione mi sorprese, si era messo a ridere. «Questo denaro è sempre appartenuto al popolo, non è rubare se lo prendete voi».

Non riuscii a capire. «Che intendete?».

Di nuovo quel sorrisetto sghembo. «Ve lo spiegherò un altro giorno». Con la mano si abbassò la visiera del cappello in segno di saluto e corse via in direzione dell'oscurità di quel vicolo. Con un salto si librò nell'aria, sparendo tra la pioggia e le nuvole scure.

Il giorno dopo, a lavoro, era più che plausibile fossi distratta, ma avrei dovuto impegnarmi per non destare sospetti. Dopo che Rosa Nera sparì nella nulla io ritornai a casa fradicia. Accesi tutte le candele che avevo e il caminetto in camera per asciugare l'abito. Avevo solo due stanze per vivere ed erano sufficienti. Non mi servivano i suoi soldi. Dormii poco e in malo modo, perciò nel cucire le lunghe gonne con merletti feci fatica, commettendo gli errori più banali.

«Attenta o la Signora Felicia ti licenzierà!», Josephine, una delle poche ragazze giovani che lavoravano con me, non che mia amica, era in procinto di portare i suoi abiti finiti dalla sartoria all'Atèlier, ma nel vedermi si bloccò. «Faccio io, tu porta questi!», prese il mio posto e le fui grata, avevo bisogno di una pausa. Uscii dall'edificio per entrare in quello di fronte e la Signora Felicia era alle prese con un nuovo cliente. Non aveva mai dato tante attenzioni ai compratori, a meno che non fossero importanti.

«Sono più interessato ad altri modelli», le rispose. Ero troppo curiosa, mi capitava di rado assistere a tali scene e mi avvicinai, nascondendomi tra i manichini. Si trattava di un giovane ragazzo, il suo completo nero non proveniva dalla nostra sartoria, era di maggiore valore. I suoi capelli erano biondi e lisci, curati. Purtroppo il volto era coperto dalla robusta figura della Signora Felicia e dal suo cappello rosa piumato.

«Certamente, Milord. Da questa parte», gli rispose. Avevo ragione, si trattava di un nobile.

La Signora Felicia si scostò e io potei vedere il ragazzo con cui stava parlando. Non avevo mai visto nessuno di più affascinante. I suoi lineamenti erano perfetti, la sua pelle candida e liscia. I suoi grandi occhi erano azzurro intenso, tendenti al blu. E mi stavano guardando, mi aveva scoperta.

«Non scomodatevi, chiederò alla vostra lavoratrice».

Tentai di nascondermi, ma il nobile stava venendo verso di me, così persino la Signora Felicia mi inquadrò. I suoi occhietti scuri mi stavano rimproverando.

«No, aspettate, lei è una...», cercò di fermarlo, ma non ci riuscì.

«Con permesso», le parlò sopra, allontanandosi.

Rimasi ferma dov'ero, con ancora gli abiti in mano. Mi inchinai, a disagio. «Milord».

«Sono il figlio del Conte Harcourt, mi chiamo Keith Harcourt», delicatamente mi prese una mano e con leggerezza baciò il dorso.

«Cosa desideravate acquistare?», gli chiesi, spostando lo sguardo verso il pavimento.

«Ho trovato ciò che stavo cercando», sollevai la testa nel tentativo di captare ogni suo segno verso qualsiasi abito, ma i suoi occhi puntavano nei miei. «Una marsina scura».

«Sì, certo, da questa parte», lo condussi verso i nuovi modelli di frac e con un mezzo inchino me ne andai.

«Aspettate», dichiarò. Mi girai di scatto e lo vidi assorto con una mano a mezz'aria. Qualcosa tra di noi tintinnò e una lucina dorata volò verso di me e cadde sui vestiti che avevo in mano. «Per la vostra gentilezza», prese una delle marsine ripiegate e, senza provarla, si avviò alla cassa. Mi aveva lanciato una moneta d'oro.

«G-grazie», balbettai, confusa.

Sistemai gli abiti di Josephine, riposi la moneta in tasca e tornai in sartoria senza dire una parola. Lei aveva aggiustato gran parte del mio disastro, forse il denaro avrei dovuto darlo a lei. Però ebbi come una strana sensazione, come se in realtà fosse sempre appartenuto a me e il fatto che fosse stato un nobile in persona a darmelo aveva innalzato il suo valore. Josephine non avrebbe potuto fare tutto il lavoro al posto mio, così ripresi in mano la macchina da cucire e continuai. Grazie a lei riuscii a finire in tempo e ad uscire ad un orario decente.

Il clima era stabile, se non per un gelido vento che accompagnava il tardo pomeriggio autunnale. Ripescai la moneta dalla tasca e la rigirai tra le mani. Quanto di più buffo. La sera prima l'avevo rifiutata da un ladro e il giorno dopo un aristocratico aveva compiuto un atto di beneficenza. Forse il destino aveva voluto premiarmi per la mia mancanza di avarizia.

«Ehi, state attenta, signorina!», la voce di un ragazzo mi riportò alla realtà.

«Come?», successivamente un altro mi urtò la spalla, sbilanciandomi. Ero rimasta imbambolata a pensare come mio solito da non accorgermi di dove mettessi i piedi. «Scusate», replicai, ma i due giovani si misero a ridere rilassati, dicendo che non era successo nulla di che. Poi corsero via frettolosamente. Non capii cosa ci fosse di strano, finché non mi sentii mancare qualcosa. Né in mano né in tasca avevo più la mia moneta, era sparita. O meglio, era stata rubata.

«Al ladro! Al ladro!», urlai, cercando di correre come loro, mentre i restanti passanti rimanevano di stucco. Gridavo aiuto, che qualcuno li fermasse, quando finalmente ricevetti riscontri.

«Il ladro! Prendetelo! Rosa Nera è qui!», mi bloccai immediatamente e con lo sguardo seguii la direzione in cui stava puntando il dito di un cittadino. Sopra i tetti delle case una figura nera stava correndo lontano. «Guardie, guardie! Catturate il ladro!», l'uomo continuava ad esclamare.

«Forza, catturiamolo!», gli agenti di polizia sbucarono fuori non appena uscì il nome di Rosa Nera, ignorando completamente me. Avevo il brutto presentimento che avessero scambiato lui per il vero ladro e per qualche ragione ciò mi diede fastidio. Va bene fare giustizia, ma almeno correttamente, pensai sbuffando.

«Non è lui il ladro!», mi ritrovai a correre dietro agli agenti che correvano dietro a Rosa Nera, il quale... dove stava andando? Poi sparì e la polizia svoltò per cercarlo. Io non seppi cosa fare, così continuai dritta, perché mi era sembrato di riconoscere uno dei mascalzoni di prima. «Fermo!», gli ordinai. Avevo ragione, appena mi vide si rimise a scappare, in direzione del Ponte di Westminster. Io non ero così veloce, iniziavo a stancarmi e a rallentare, tutto per un dono del figlio del Conte Harcourt. Keith. Poco dopo che il ladro salì sul ponte una figura nera lo atterrò dall'alto e lo colpì più volte, mettendolo così in fuga.

Restai immobile, a fissarlo da lontano e avevo il sospetto lui stesse facendo altrettanto. Feci un passo in avanti, quando la polizia mi tagliò la strada e salì sul ponte. Erano in troppi contro uno solo e avevo timore per Rosa Nera. Per quale arcano motivo? Era un ladro pure lui, ben venga fosse stato catturato. Però lui aveva raggiunto quel mascalzone e lo aveva colpito per qualcosa in particolare, che fosse la mia moneta?

Sentii uno scrosciare d'acqua e vidi che un agente era caduto nel Tamigi. Più veniva attaccato più Rosa Nera si difendeva egregiamente. Schivava i colpi, ma ne lanciava altrettanti e difficilmente sbagliava. Molti uomini cadevano nel fiume, altri a terra e quando si rialzavano indietreggiavano. Sembrava non ci fosse più nessuno attorno a lui, era davvero spietato come dicevano. Finché alle sue spalle si alzò un agente. Era armato di fucile e stava prendendo la mira. Perché Rosa Nera non si era dato alla fuga? Non si era accorto? «Attento!», gli gridai, quasi spaventandolo e finalmente notò il fucile. Si appropriò dell'arma e calciò sia l'oggetto che la guardia giù dal ponte. Restò a fissarmi come poco tempo prima. Di nuovo provai a camminare e mi avvicinai al ponte. Cautamente salii, ma quando ci divisero solo pochi passi lui si girò. «Aspettate», temei se ne andasse.

«Vi ringrazio per avermi salvato», ma non lo fece. Semplicemente mi dava le spalle. «Da quanto ho capito questa è vostra», da sopra il suo cappello volò qualcosa che aveva lanciato e si trattava della solita moneta. La presi al volo con un po' di fatica. «Spero non vi dispiaccia che ve l'abbia restituita un ladro». Il suo tono era sempre vellutato come lo ricordavo, ma pareva offeso.

«Questa è un'altra circostanza», mi alterai, «vi chiedo scusa se in qualche modo vi ho offeso, ma questa moneta mi apparteneva già», mi chiesi se avessi fatto bene a salvarlo, ma dopotutto lo aveva fatto per me.

«E se fosse stato un nobile a donarvela, l'aveste accettata?», girò la testa leggermente di lato, non abbastanza da leggermi l'espressione colpevole.

«Tenetela, non la voglio più», gli allungai la moneta.

«Come ho già detto, il denaro è sempre appartenuto al popolo».

Di nuovo quella frase, ma ancora non coglievo il senso. Non potevo farmi scappare una tale occasione.

«Perché rubate?», Rosa Nera dava l'impressione che si aspettasse questa domanda e solo allora si girò. Il forte vento gli fece frusciare il mantello e i capelli disordinati che gli coprivano il collo.

«Per permettere a chiunque di vivere una vita agiata», non si scompose minimamente.

«Sperperando il caos tra le città?», i suoi occhi erano ancora spenti e questo mi rattristì.

«Ho un ordine ben preciso, invece. La gente che derubo sono nobili o di potere i quali hanno derubato a loro volta i cittadini, arricchendosi della loro fiducia e truffandoli per un proprio tornaconto. Io riporto alle persone oneste ciò che hanno perso a causa di questi individui. Non mi sono mai appropriato dei gioielli o del denaro prelevato».

La sua dichiarazione mi aveva sorpresa. «I giornali raccontano tutt'altro», fu l'unica cosa che riuscii a dire. Non avevo idea se credergli o scambiare tutto per una strategia. Allora perché offrirmi dei soldi senza chiedere nulla in cambio?

«Questo perché ho pestato i piedi alle persone sbagliate. Sono andato contro uomini importanti e molto potenti che hanno sentenziato la mia condanna».

«E' altrettanto ovvio! Ci sono altri modi per aiutare il popolo, la beneficenza, per esempio», lo pregai, per il suo bene. «Smettetela di rubare».

Si avvicinò a piccoli passi. «Beneficenza? La facciata peggiore della nobiltà. Credono che con un bottino possano comprare l'amore dei più deboli economicamente, che tutto sia loro dovuto e pretendono rispetto solo perché hanno allungato un soldo, ma loro non sono migliori di me. Nemmeno il Conte Harcourt con le sue iniziative patetiche».

Sussultai a quel nome. Keith. «Ti sbagli, loro non sono tutti uguali, la loro mentalità sta cambiando, si preoccupano anche dei lavoratori e non li lasciano morire di fame!», mi avvicinai anche io, non avevo paura di lui e soprattutto il figlio del Conte era stato molto gentile e rispettoso.

Eravamo molto vicini e i suoi occhi finalmente avevano preso uno strano luccichio. «Gli esseri umani nascono tutti nella stessa maniera», con una mano mi afferrò il polso e mi strattonò verso di lui. «Io faccio qualcosa purché possano vivere nella stessa maniera», nel mentre con due dita mi sollevò il mento avvicinando le sue labbra alle mie. Spalancai gli occhi. Non potevo credere mi stesse baciando dopo quello che aveva detto. E non potevo credere glielo stessi permettendo. La sorpresa era stata piacevole, la sua bocca era delicata e premeva paziente, ma una reazione incontrollata fece sì che gli tirassi uno schiaffo in faccia. Si allontanò subito dopo, lasciando la presa. Il mio cuore ebbe un tuffo e per poco non mi venne l'impulso di scusarmi, ma ero troppo scioccata. Era stato inaspettato.

«Non smetterò di rubare. Io non sono corrotto dal denaro o dall'avidità. Per quanto riguarda la beneficienza, non mi è mai piaciuto essere banale come tutti gli altri». Scattò via fino l'estremità del Ponte, sparendo man mano dalla mia vista.

Mi aveva lasciata lì da sola, immersa nei miei pensieri. Mi toccai le labbra leggermente umide e il ricordo recente si fece vivo nella mia mente. Non sentivo nemmeno freddo dall'ondata di calore che aveva avvolto il mio corpo. Probabilmente si trattava di rabbia.

«Come ha osato!?», ragionai ad alta voce, mentre mi convinsi a tornare a casa. Non aveva il diritto di farlo, non gli avevo dato il permesso. Essere banale come tutti gli altri, proprio per niente. Lo avevo denominato gentiluomo, ma di galanteria non ne sapeva assolutamente nulla. Keith Harcourt era stato un vero signore e mi avevano fatto imbestialire le critiche che Rosa Nera gli aveva affibbiato. Sì, certo, era stato lui a riprendermi la moneta che il figlio del Conte mi aveva regalato, ma lo avrei ringraziato volentieri solo con le parole. «Ahia!», mi scottai la lingua con il brodo ancora caldo. Lasciai raffreddare la cena e mi misi la camicia da notte, legandomi poi i capelli in una treccia. Finii così la mia zuppa alle verdure, dopodiché andai a dormire.

Il vento era particolarmente burrascoso e picchiava forte contro le mie finestre, facendo sbattere qualsiasi materiale solido sul mio fragile vetro. Anche la temperatura era scesa notevolmente, tremavo sotto il lenzuolo. Purtroppo avevo finito i ciocchi di legno da bruciare. Con la moneta ne avrei potuti comprare un bel po' o forse sarebbe stato meglio accaparrarsi delle calde e morbide coperte nuove.

Improvvisamente sentii un forte rumore e la finestra si spalancò, spegnendo così le candele. Ma non fu quello a svegliarmi, bensì una mano guantata sopra la mia bocca. Emisi un urlo ovattato, quando Rosa Nera appoggiò il suo dito sopra le sue labbra. Cercai di controllare il respiro e feci cenno che non avrei gridato. Mi liberò e indietreggiò per permettermi di respirare a pieni polmoni.

«Cosa vi salta in mente?», bisbigliai con la mano sul cuore. In quella giornata aveva deciso di farmi morire. «Piombare così in casa mia, come lo sapevate che ero qui? Che cosa volete?», il panico non si stava affievolendo, soprattutto nel vederlo immobile a fissarmi. Tirai le lenzuola fino alle spalle.

«Vi prego di perdonarmi, sono venuto di persona a porgervi le mie scuse», inclinò leggermente la schiena e poi si tirò su. «Non era mia intenzione spaventarvi».

«Non mi avete spaventata», replicai svelta e lui socchiuse la bocca. «Ma avreste potuto scusarvi in un secondo momento che non fosse qui, magari al Ponte».

Si girò e andò a chiudere la finestra, ma poi aprì una sola anta. «Temo non sia possibile, non mi rivedrete più». Fece per uscire, ma lo chiamai, chiedendogli spiegazioni. Esibì il suo solito sorrisetto. «La nobiltà di Parigi ha bisogno di essere punita».

Fino a Parigi e poi chissà dove nel mondo, come gli articoli su di lui recitavano sempre.

«Perché mi avete baciata?», divenni rossa come un peperone e smisi di tremare.

Il suo sorriso si allargò. «Volevo lasciarvi un mio bel ricordo prima di partire», poi mi guardò e il riflesso di un lampione espose alla luce i suoi occhi lucenti, «essendo quello per voi il vostro primo bacio». Sgattaiolò fuori dalla finestra esattamente com'era entrato, lasciandomi più contrariata di prima.

«Brutto demente!», scoppiai come una locomotiva. Quel ladro era riuscito a rubarmi persino il mio primo bacio. Mi agitai nel letto dal nervoso. Non era così che me l'ero immaginato da bambina. Benissimo, lo avrei dimenticato, non sarebbe stato quello il mio primo.

Ritornare a dormire fu alquanto difficile, esattamente come lavorare il giorno dopo. Non ero più sulle nuvole, ma estremamente alterata e poco delicata, avrei rischiato di rompere la stoffa. Cucire mi permetteva di non pensare, ma la velocità con cui finivo era troppo elevata e non potevo rischiare di rimuginare. Per sdebitarmi con Josephine mi appropriai dei suoi vestiti, in realtà era un pretesto per avere le mani impegnate. Quando andai in Atèlier avevo una montagna di indumenti. Sbirciai i clienti, ma Keith Harcourt non era presente, che peccato, avrei voluto rivederlo.

Il giorno seguente comprai il giornale per un semplice motivo, un brusio di sottofondo continuava a ripetere il suo nome e non sarei riuscita a concentrarmi su altro se non avessi soddisfatto il bisogno di leggere. Rosa Nera aveva colpito, quella volta a Parigi, come mi aveva detto. Non aveva mentito. L'articolo diceva che aveva scassinato la proprietà di Lord Montfort. Mi chiesi cosa lo avesse spinto ad effettuare quella scelta. Tra tutti i nobili, perché lui? Poi rammentai cosa mi disse, che derubava solo truffatori. Mi avvicinai al giornalaio e mi feci coraggio.

«Perdonatemi signore, chi è Lord Montfort?», le persone al mio fianco iniziarono a sghignazzare e le donne mi deridevano da dietro i loro ventagli su quanto fossi giovane e ignorante.

«Si tratta di un Duca della Francia, noto per aver spinto i suoi acquirenti in bancarotta. Non è certo ben voluto nel giro degli affari, era ora qualcuno gli desse una lezione».

Era ora? Quindi aveva detto ancora la verità. Non badando ancora alle reazioni che suscitavo continuai a chiedere:«dunque cosa ne pensate di Rosa Nera?».

L'uomo scoppiò a ridere. «Non è così terribile come dicono. Almeno finché non sei un nobile», e rise di nuovo, ma fiutai una leggera puzza di alcol. «Non serve avere paura, è dalla nostra parte, ragazzina».

Io non avevo affatto paura. Ciò che mi preoccupava era che Rosa Nera aveva detto la verità e a confermarlo c'era un uomo ubriaco. La prospettiva non era delle migliori.

Continuai in questo modo, ogni giorno compravo il giornale, mi informavo e tenevo d'occhio i suoi spostamenti: Madrid, Granada, Milano, Vienna. Era stato via tutta la settimana. Il tempo libero lo passavo in biblioteca, cercando quante più informazioni disponibili circa i nobili descritti sul giornale, ma non si faceva presente nulla di compromettente sui libri. I cittadini più adulti conoscevano per sentito dire che le persone rapinate erano dei falsi incantatori, come Antonio Fabiani.

«Cosa ti sta accadendo in questi giorni?», durante il nostro giorno libero io e Josephine passammo ore al mercato per comprare cibo e la mia nuova coperta.

«Niente», mentii, «ho solo troppa energia da bruciare», ma poi Josephine sussultò.

«Hai un nuovo amico? Hai intenzione di presentarmelo?».

La guardai stupefatta. «No! E no», amico, ma cosa stava dicendo? «Non c'è nessuno».

«D'accordo, come sei noiosa», per scherzare mi tirò il suo cestino sul fianco.

Dopo aver finito io ebbi un'idea. «Vai pure a casa, devo sbrigare un'altra commissione», la salutai.

Avevo voglia di fare una passeggiata sul Ponte di Westminster, da sola, per schiarirmi le idee. Non era per niente affollato, se non per un gruppo di adolescenti e un uomo, in disparte. Mi posizionai nello stesso punto in cui ero stata con Rosa Nera e guardai l'acqua del fiume. Riuscivo ancora a sentire i tuffi degli agenti e quel fucile che prendeva la mira. Se non lo avessi avvisato, a quell'ora sarebbe stato un disastro. Quella mattina nessuno aveva avuto sue notizie. Mi chiesi dove fosse, cosa stesse progettando. Ah, quel dannato bacio. Se ci pensavo mi veniva l'orticaria.

«Prendetela!», mi girai appena in tempo per vedere due del gruppo degli adolescenti prendermi per le braccia e strapparmi via il cestino dalle mani.

«Lasciatemi andare, aiuto!», mi dimenai senza successo.

«Che abbiamo qui?», altri due ispezionarono il contenuto della mia spesa. «Nessuna medicina, però c'è una coperta e tante cose da mangiare!», esultarono.

«Non vi permettete», qualcuno alle loro spalle aveva parlato, era l'uomo in disparte.

Ma quando lo vidi in faccia lo riconobbi subito. Capelli biondi, portamento nobiliare. «Voi siete...!».

«Ho detto di andare via, subito!», strattonò il ragazzo che teneva il mio cestino, lo spinse contro il suo compagno e caddero. Gli altri due mi lasciarono andare, buttandomi quasi a terra, poi scapparono tutti. Prima che avessi potuto toccare il suolo, le braccia di Keith Harcourt mi afferrarono.

«State bene?», mi chiese con una nota di preoccupazione.

Mi tirai su. «Sì, scusate Milord», feci un breve inchino e imbarazzata raccolsi le mie cose.

«Vi prego, chiamatemi Keith», mi aiutò, chinandosi. Un gesto così fuori dal comune.

«Non dovete scomodarvi, Keith», facevo un grande sforzo ad usare solo il nome, ma non volevo deluderlo.

«Lo faccio con piacere, come vi chiamate?», ci rialzammo.

«Io sono [nome], mio salvatore», alzai un lembo della gonna e piegai le ginocchia.

«E' stato un piacere rivedervi», i suoi occhi da vicino erano molto più intensi, più affascinanti.

«Aspettate, vorrei sdebitarmi», guardai tutto ciò che avevo. «Vi va un pic-nic?», ma cosa andavo dicendo, lui era un nobile, un Conte, perché mai avrebbe dovuto pranzare all'aperto con me?

«Sembra divertente, volentieri», mi sorrise a bocca chiusa. In silenzio e con le mani in tasca mi fece strada. Ci dirigemmo al parco del Big Ben e sull'erba stesi la mia coperta. Sistemai dei pomodori, pane, insalata e della frutta.

«Non è molto, me ne rendo conto», mi mortificai. Non avrei potuto cucinare nulla senza materiale.

«E' ciò che avete da offrire ed è perfetto così», si accomodò al mio fianco, appoggiando un braccio sul suo ginocchio piegato. Per volere divino quella giornata era soleggiata. Di tanto in tanto le nuvole oscuravano il cielo, ma erano di passaggio. L'arietta fresca era piacevole.

«Posso chiedere perché siete qui?», più lo guardavo e più non capivo cosa lo spingesse a frequentare le nostre strade. Non si addiceva a ciò che mi circondava, sarebbe spiccato come un sole persino in una buia notte di pioggia. I suoi occhi osservavano attentamente l'orizzonte prima di posarsi sui miei e la loro intensità mi mise a disagio, come se mi stessero scrutando nel profondo.

«Trovo che confondermi con il popolo sia il modo più pratico per valutare lo stato di benessere e di salute che appartiene alle persone meno fortunate e, se non dovesse essere, aiutarle di persona».

Quella frase mi colpì. Chi diceva che i nobili erano tutti uguali era un bugiardo. «Ho sempre saputo che voi foste speciale, vi ringrazio».

Inclinò il suo viso perfetto di lato e socchiuse gli occhi. Non aveva imperfezioni, la sua pelle era impeccabile, ma aveva l'aria di essere molto stanco. «Non elogiatemi, eseguo solo il mio dovere».

«Da quello che mi è parso di capire, molti nobili non sono come voi, ma oserei dire... criminali», valutai bene l'ultima parola, per giunta la bisbigliai. Non avrei mai voluto che si offendesse o prendesse il mio discorso come una critica. Mi sarei aspettata del disappunto, invece sorrise debolmente.

«Avete capito benissimo, nel mio mondo esiste un'alta percentuale di criminalità a discapito dei più deboli, ricchi o poveri che siano non fa differenza. Io vorrei fare la differenza. Costituire un punto d'appoggio per chi ne avesse bisogno», sollevò la testa e i fiochi raggi del sole gli illuminarono l'espressione piena di speranza.

Mi sentii così inferiore a tale bellezza. «Voi state già facendo la differenza», uno strano desiderio mi costrinse ad avvicinarmi di più a lui e mi feci spazio tra la frutta.

«Immagino sappiate qual è il passatempo preferito di mio padre».

Mi bloccai immediatamente e non osai andare oltre. Non avevo idea di chi fosse suo padre, ma ne avevo sentito parlare, niente di meno che da Rosa Nera, per quanto riguardava la beneficenza.

«La raccolta di fondi è diventata di moda tra noi», continuò, «ma in realtà si tratta di ipocrisia. Mio padre guarda la gente dall'alto verso il basso e sogghigna dietro la maschera. Gode del potere che i soldi gli conferiscono sui bisognosi».

Un'altra verità era saltata fuori, anche i nobili portavano una maschera e il fatto che fosse proprio uno di loro a confessarlo e non un ladro dava alla notizia più scalpore.

«Mangiate», mi offrii un pomodoro decisamente più grande rispetto alla norma. Io ero rimasta ferma a pensare. C'era qualcosa in quel ragazzo che mi attirava particolarmente.

«Mangiatelo voi», posai una mano sul frutto che teneva e lo spinsi nella sua direzione. Se il mio stomaco si era già chiuso, quando toccai le sue dita vellutate si aggrovigliò. Erano più lisce e delicate della seta più pregiata custodita in negozio. Terminai il contatto e mi misi le mani sulle guance. «Che sciocca, non avete le posate!», mi allarmai.

Keith mi regalò un sorrisetto sghembo e iniziò ad addentare il pomodoro. Non avrei mai pensato di vederlo mangiare in questo modo. Restai a guardarlo e lui sembrò a suo agio. «Non mi piace essere banale», mi fece l'occhiolino. Avvampai.

«Non lo siete», mi era sembrato di aver già sentito quella frase.

«Vi sentite bene?», chiese e io annuii in silenzio. «Forse avete la febbre, la vostra pelle è molto rossa».

Sì, probabilmente lo era, perché mi sentivo andare a fuoco. Che pensiero sciocco che mi era venuto.

«Permettete?», Keith si avvicinò ulteriormente e con estrema delicatezza mi scostò i capelli dal viso e appoggiò le sue labbra sulla mia fronte. «No, la temperatura è corretta», sussurrò sopra il mio naso. Il suo profumo mi entrò nelle narici inebriandomi, era qualcosa di floreale. Inspirai profondamente per ricordarmelo meglio, quando mi trattenni a causa del suo pollice che scivolava lungo le mie gote. Si accorse della mia incapacità fisiologica e ritornò al suo posto. Sapevo non si trattava della stessa cosa, ma era così che avevo immaginato il mio primo bacio e, grazie alle sensazioni che provai, decisi che sarebbe stato quello il mio.

Keith ritirò il cibo nel cestino e si alzò, aiutando anche me. «Perdonatemi, ma ho delle commissioni urgenti da sbrigare».

Ormai il suo tocco mi aveva stregata, però a quelle parole mi risvegliai. «Ma certo Milord, volevo dire, Keith, scusatemi se vi ho trattenuto facendovi perdere tempo», mi chinai a piegare la coperta e quando mi sollevai lo trovai pensieroso. Mi posò un dito sopra le labbra. I suoi occhi brillarono, ma poi si spensero. Sorrise malinconicamente.

«Vi riaccompagno a casa», mi offrì il suo braccio.

«In realtà abito in un appartamento».

«Non ve ne vergognate».

«E voi non vi vergognate a farvi vedere insieme a me?», titubante gli avvolsi il braccio con il mio e lui mi sospinse contro il suo corpo.

«Per niente».

Gli sguardi dei passanti erano sicuramente sbigottiti. Non lo seppi con certezza, anche se udivo i versi di stupore, perché fissavo il pavimento. Mentre Keith aveva lo sguardo alto e non si fece scomporre. Mi teneva salda una spalla, mentre la mia schiena era appoggiata al suo petto.

Tentai di rilassarmi, ma non riuscii. «Va bene qui», mi fermai a una via prima, esattamente dove la notte piovosa avevo incontrato Rosa Nera per la prima volta. Gli occhi di Keith emanavano uno strano bagliore. «Voi non potete immaginare come mi sia sentita», sorrisi raggiante.

«Ne sono lieto, [nome]», tolse la mano dalla spalla. «Vorrei dirvi una cosa».

«Parlate», lo sentivo che c'era qualcosa di strano, lo percepivo. «Per favore».

«Io...», si bloccò e il suo viso si tese, la mascella si contrasse. Se ne andò ed entrò nel vicolo in cui Rosa Nera mi aveva rapita. Allungai una mano, ma non lo seguii. Evidentemente non ero stata di ottima compagnia. «Gli esseri umani nascono tutti nella stessa maniera», sentii dire dalla sua voce e scattai in avanti. Keith era lontano, ma le pareti avevano fatto rimbombare il suono fino a me. «Io faccio qualcosa purché possano vivere nella stessa maniera». La sua figura di spalle si girò e riconobbi la maschera che stava indossando. Il cuore mi si fermò all'istante. Senza pensarci corsi per raggiungerlo, ma lui era già scappato via come solo Rosa Nera sapeva fare.

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