Atto III

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Era buio pesto e oltre alla stazione non riuscivo a vedere. Keith chiese subito una carrozza, ma non fece sistemare i bagagli dal cocchiere, li prese con sé. «Dovete cambiarvi ora», si tolse la giacca e inaspettatamente anche la camicia. Mi coprii il viso con le mani, non fissarlo richiedeva un certo sforzo, ma avrei dovuto nascondere le mie guance, ormai di una tonalità più scura del vestito. «Potete guardare». Mi fidai e abbassai le mani, constatando che aveva allacciato una nuova camicia con tanti fronzoli davanti e un frac nero.

«Quella è la marsina che avete comprato in Atèlier!», la riconobbi all'istante. Poi mi tolsi il cappello. «Questa piuma invece arriva dal vostro mantello».

«Siete molto intuitiva, ma dovete sbrigarvi», voltò la testa per darmi un briciolo di privacy.

Il cuore minacciò di uscirmi dal petto e mi sentii le vertigini. Le mie gote si infiammarono nuovamente, ma non avevo scelta. Mi spogliai e per ogni centimetro di pelle nuda le farfalle nello stomaco aumentavano. Velocemente mi infilai l'altro abito, con leggera fatica, sbirciando Keith, ma non si era mosso di un millimetro. «P-potete stringermi il corsetto?», non lo avevo mai allacciato se non ai manichini e mi resi conto quanto fosse difficile senza una cameriera personale. Che imbarazzo quando Keith mi aiutò, stavo andando a fuoco! Mi infilai i guanti lunghi fino al gomito e un girocollo nero prima che la carrozza si fermasse. Il cocchiere ci fece scendere e si stupì di come ci trovò, completamente diversi.

Un maggiordomo all'entrata ritirava gli inviti, primo ostacolo da superare. «Voi siete?», chiese a Keith, non conoscendolo.

«Sono Keith Harcourt, figlio del Conte Harcourt», rispose solenne. Io guardai per terra. «Lei è Lady Rosamund, figlia della Marchesa di Greenwich», era stato impeccabile. Feci un breve inchino, poi ci lasciò passare. La sala da ballo era immensa e straripava di persone eleganti. Non avevo mai visto così tanti nobili riuniti e, grazie a Keith, li vedevo tutti sotto una cattiva luce.

«Perché mi sento osservata?», domandai velocemente, in soggezione, stringendomi a lui.

«Perché voi state osservando gli altri con troppo interesse. Poi siete nuova da queste parti. Scioglietevi». Mi fece fare una piroetta e iniziò a ballare. Ci confondemmo subito con gli altri ospiti, muoverci garantiva di coordinarci e ciò creava un perfetto allineamento con le file. Il mio sguardo era felice su Keith, ma il suo era altrove, a cercare Hermann Preminger. Il vestito solo all'apparenza sembrava pesante, ma in realtà svolazzava grazie all'andamento del mio cavaliere dagli occhi lucenti, in quel momento spenti. L'orchestra era celestiale, quella musica mi era entrata fino alle ossa e grazie alla melodia finalmente realizzai che stavo ballando il mio primo valzer con l'uomo che amavo, in una Villa da sogno, con un abito esageratamente bello. Provai troppe emozioni in una volta sola e mi commossi.

«Vi sentite bene? Volete fermarvi?», Keith si preoccupò, ma inutilmente.

«Assolutamente no, credo sia il momento più bello di tutta la mia vita», era incantevole.

«Non vi ho ancora detto quanto siete stupenda», il suo complimento mi fece sorridere e lacrimare contemporaneamente, ma non volevo interrompere nulla per asciugarmi le guance. Quando quella canzone finì crebbe un applauso e Keith mi porse un fazzolettino.

«Come siete romantica», una voce femminile si avvicinò a noi. Era un gruppo di signorine, leggermente più grandi di me, che alludeva al mio pianto. «Forse Milord gradirebbe altra compagnia».

Keith chiuse gli occhi, alzando le labbra e abbassando la testa. «Ritengo sia più piacevole osservare le emozioni umane, piuttosto che le vostre maschere di insufficienza costruite con i vostri averi», poi guardò negli occhi ogni donna, ricevendo insulti di insolenza, mentre quelle se ne andavano via. «Questa festa mi ha stancato e Hermann non si è fatto vivo, ora tocca a noi», mi prese per una mano e si avviò su per la scalinata principale che dava sulla sala. Pescò la sua maschera dal frac e a passo spedito superò ogni porta presente, come se conoscesse già la meta. Si sentirono dei rumori e si bloccò subito. Ci nascondemmo dietro un pilastro e mi tappò la bocca, mentre sbirciava. Qualcuno stava parlando, erano due uomini, ma non riuscii a vedere nulla. Quando se ne andarono riprendemmo a correre e per me era sempre più difficile stare al suo passo. «Entrate qui», aprì una porta, «torno subito». L'idea di stare da sola in quella specie di salotto mi inquietava. Ma avrei potuto dire di essermi persa. Qual era dunque il mio nome? Pensai nel panico.

Frugai tra gli oggetti di Hermann in cerca di qualcosa di prezioso da portare via, ma non c'era nulla a parte la collezione di penne stilografiche. Qualcuno aprì la porta, pensai a Keith.

«Cos'è questo rumore? E voi chi siete, cosa ci fate qui?», erano due uomini, uno molto basso e tozzo che parlò con voce roca, mentre l'altro era alto e magro dai lunghi capelli bianchi.

«I-io mi sono persa, mia madre è la Marchesa di Rosamund, Greenwich», risposi di riflesso, ma non li avevo convinti nemmeno un po'.

«Stavate rubando!», negai all'istante, quando Rosa Nera li colpì forte.

«Venite!», uscii subito dalla stanza e corremmo di nuovo per i corridoi.

«Stanno scappando! Signor Hermann!», quei due avevano chiamato Preminger, avevo paura.

«Dividiamoci!», ordinò Keith e io rimasi interdetta. Mi lasciò la mano e sparì come una scia. Io decisi di ritornare in sala da ballo, sarei stata sicura in mezzo alla folla.

«Fermatevi, ladra!», l'uomo basso stava inseguendo me e dedussi che l'altro lo aveva Keith alle calcagna. Forse l'idea di circondarmi di persone era pessima, avrebbero creduto a lui e mi avrebbero catturata più facilmente. Ricordai com'era fatta la casa dei Crawley e cercai le scale di servizio. Le trovai poco dopo e mi feci largo tra la servitù, che esclamava sorpresa. Uscii in giardino, era estremamente grande e dispersivo, ma avrei potuto nascondermi. Guardai indietro, ma il mio inseguitore non c'era. Aspettai, poi mi avvicinai ancora alla casa, quando qualcuno da dietro mi afferrò le braccia. Non erano gentili e urlai dallo spavento.

«Rosso, l'ho presa!», disse questo e mi trascinò fino a un pezzo di prato illuminato.

«Ottimo lavoro, Bianco!», davanti a me avevo l'uomo basso, era quello alto che mi stava tenendo.

Ma allora. «Dov'è Rosa Nera?», era riuscito a seminarli, presto mi avrebbe salvata. Poi Rosso indicò in alto e io guardai in su. Rosa Nera era accanto a una finestra, in procinto di saltare. Ma non lo fece.

«Non così in fretta», qualcuno alle sue spalle aveva parlato, ma perché non si muoveva? «Oppure le sparo», un oggetto luminoso era appresso a Keith, che in quel momento però venne puntato contro di me. Era una pistola e quel tizio era Hermann. Rosa Nera fece un passo indietro e così Preminger lo prese. Cercai di oppormi, ma Rosso e Bianco portarono via anche me. Mi stavano facendo fare una strada stretta, di pietra e piena di scalini che scendevano sottoterra. Dopo qualche passo vidi delle celle, era una prigione sotterranea. Mi spinsero fino in fondo, dove iniziavo ad udire urla strazianti e lo schiocco di qualcosa. Svoltato l'angolo vidi la scena peggiore che avesse potuto esistere. Keith era stato ammanettato su dei pilastri di legno e la sua schiena nuda veniva frustata brutalmente da Hermann. Era una cascata di sangue. Strillai e quasi non mi ressi in piedi. Al che attirai l'attenzione. Keith chiamò il mio nome.

«Vi conoscete?», rise Preminger. «Fatela accomodare nella cella e che si goda lo spettacolo».

Rosso e Bianco mi buttarono dentro e chiusero a chiave. In ginocchio mi sollevai sulle sbarre e piansi a dirotto nel vedere Keith fustigato e sentendo le sue lamentele trattenute.

«Vi prego! Prendete me!», singhiozzai. «Lasciatelo andare! Punite me!».

«No!», rispose Keith, ma Hermann restò colpito dalle mie parole e si fermò a guardarmi.

«Affascinante», esclamò incredulo. «Siete disposta a soffrire per lui?», spalancò gli occhi.

«Sì!», sputai sprezzante.

Hermann sorrise e fece cenno a quei due. Bianco andò a liberare Keith, mentre Rosso strattonò me fuori dalla cella. Ci fu uno scambio di posto e mentre uno mi legò, l'altro con un coltello tagliò i lacci e ruppe il vestito. Il tintinnio del caleidoscopio che cadeva e rotolava fu il suono più dolce. Guardai Keith negli occhi e dissi di amarlo, sorridendo, mentre Hermann iniziò con la tortura. Keith si oppose subito, ma nessuno lo ascoltò. Per lui lo avrei fatto, per lui sarei anche morta pur di proteggerlo e salvarlo. Trattenere le grida di dolore risultò più difficile del previsto, ma mi sarei sforzata. Non avrei dato la soddisfazione che cercavano, anche se questo avrebbe significato frustate più forti. Il dolore era lancinante e nel giro di poco tempo persi ogni forza. Sentivo Hermann ridere e poi andare via. Rosso e Bianco nel riportarmi in cella tremarono o forse ero io. Venni adagiata a terra, troppo delicatamente e, prima che il lucchetto venisse chiuso, qualcosa di morbido mi venne lanciato addosso. Era il mantello di Rosa Nera, riconoscevo le piume e il loro profumo. Se avessi dovuto morire lo avrei fatto così.

Keith, senza forze, batté un pugno sul pavimento. «Perché lo avete fatto?», non aveva più voce. Strisciando provò ad avvicinarsi. Mugugnai, ma lui non capì. «Non avrei mai dovuto... portarvi qui... è stata colpa mia», si sforzò di parlare. Avrei voluto dirgli che invece desideravo essere lì, con lui, fino alla fine, ma le parole non uscirono. «Vi farò uscire...», con una mano raggiunse la mia e lo strinsi debolmente. Non mi avrebbe mai lasciata sola. Aprii gli occhi e al mio fianco trovai il caleidoscopio. Volli prenderlo e con lentezza lo portai ai miei occhi appannati. Keith aveva le braccia muscolose piene di graffi e un rivolo di sangue gli scendeva dalla tempia al mento. La mia finestra sul mondo, il mio mondo era lui. Lasciai cadere l'oggetto e mi avvolsi il mantello sulle spalle. Il bruciore alla schiena era ancora vivido.

«Quando ve lo dirò... voi dovrete scappare», scossi la testa, lo avrei fatto solo se anche lui fosse venuto con me. Si sentì un rumore e poi dei passi. Qualcuno stava venendo verso di noi. «Acqua... vi prego».

«Come dite?», doveva essere Bianco, venuto a controllarci. «Non posso nella maniera più imperativa».

«Vi prego, portate dell'acqua per la ragazza», dalle dita di Keith brillò qualcosa. Era una moneta d'oro e la lanciò verso Bianco. «Non lo dirò né al signor Hermann né al vostro amico...».

«Se la mettete così, d'accordo», accettò e corse di sopra. Il potere dei soldi, come faceva a fidarsi? Tornò poco dopo, incredibilmente. «Ecco qui», fece scattare la chiave, aprì la cella e si avvicinò a Keith. Lui allungò il braccio per prendere il calice, ma afferrò il polso di Bianco e lo scaraventò a terra.

«Adesso!», tentai di alzarmi e lui mi aiutò, poi chiuse le sbarre. Si rivestì da Rosa Nera, mi prese in braccio e cercò l'uscita. Credei passasse dal giardino, invece percorse i corridoi interni, scontrandosi con Rosso, che chiamò subito Hermann. Keith aprì una porta e si infilò dentro per schivare una pallottola. Inspiegabilmente su un tavolo c'era un sacchetto pieno di monete, lo prese e si calò giù dalla finestra principale, con altri colpi di pistola alle spalle. Recuperò il nostro bagaglio e cavalcò un destriero che aveva l'aria di aspettarci. Aveva pianificato già dapprima la fuga. Galoppammo nella notte il più lontano possibile, gemendo dal dolore delle ferite aperte.

Quando aprii gli occhi vidi le prime luci del mattino. Ero ancora rannicchiata su me stessa, mentre tenevo stretto il vestito al petto. Controllai dove fossimo, ma non ne avevo idea, probabilmente sulla riva del Danubio. Keith giaceva appoggiato al tronco di un albero e strisciai per raggiungerlo.

«Svegliatevi», lo scossi delicatamente. Keith aprì gli occhi e quando realizzò mi prese il viso e scontrò la sua fronte con la mia. «Avete cavalcato tutta la notte? Siete andato oltre i vostri limiti».

«Vi chiedo scusa per quanto accaduto», mi strinse le spalle. Era ancora molto assonnato.

«Continuate a riposare, volevo solo assicurarmi steste bene», lo sospinsi di nuovo contro il tronco e mi appoggiai a lui. Fece una smorfia di sofferenza, ma quando provai ad alzarmi mi cinse le spalle.

«Non lo dovete più fare», dichiarò serio. «Dovete tornare alla vostra vita e lasciarmi andare».

«E dimenticare tutto? No, mai», mi sentii offesa. Come poteva solo pensare una cosa del genere?

«Guardatevi, se non fosse stato per me...», lo bloccai.

«Sarei stata infelice come vostra madre», si sorprese delle mie parole. «Ho capito una cosa grazie a questo», estrassi il caleidoscopio. «Rappresenta la libertà, l'avventura, la vita al di fuori. Beh, io voglio vivere queste emozioni, non voglio restare in casa a fissare l'orizzonte dalla finestra. Io voglio esplorare il mondo e solo con voi la sensazione di essere a casa non potrebbe mai disperdersi, perché il vostro valore è pari a un focolare stabile, ma anche a strade inesplorate. Voi non rinuncereste mai alla vostra maschera, proprio come io non rinuncerei mai a voi. Rosa Nera deve continuare ad esistere, ma è anch'egli un essere umano. Concedetevi una pausa e io farò altrettanto. Mettetevi in marcia e io sarò al vostro fianco», tentò di parlare, ma fu il mio turno a silenziarlo con il dito. Non riuscii a trovare altre parole e lasciai che fu un bacio ad esprimersi al mio posto.

«Ho già sperimentato la vostra testardaggine»,parve rassegnarsi. «Se è ciò che volete rimettiamoci in sesto». Annuii convintae mi sollevai dal terreno ciottolato.

Il cavallo stava bevendo dalla riva del fiume, mi accostai per pulirmi il viso.

Keith mi imitò. «Abbassatevi», mi disse. Io mi trovavo già in ginocchio, però chinai la schiena maggiormente, fino a specchiarmi nell'acqua. Con le mani a coppa prese un po' del liquido e lo fece cadere sulle mie ferite. Il contatto mi suscitò diverse reazioni contemporaneamente, finché non provai sollievo.

«Permettetemi di fare la stessa cosa». Mi sollevai, decisa delle mie azioni. Lui aveva sofferto di più e aveva bisogno di cure maggiori. Ma Keith si era già tolto la giacca e si stava sbottonando la camicia. Arrossii, ma non come la prima volta e quando spostai lo sguardo, il biondo aveva già preso il mio posto. Raccolsi l'acqua con le mani e gli rinfrescai la schiena nuda. Esitai per un istante, le lacerazioni erano molto evidenti, il sangue si era seccato tutt'intorno. Al suo contrario, io avrei dovuto avere dei semplici graffi, perché non riuscii a immaginare il dolore che stesse provando. I suoi muscoli si contraevano man mano che sentivano il freddo, ma la sua pelle arrossata avrebbe avuto bisogno di medicazioni.

«State bene?», mi domandò. Accidentalmente avevo bagnato i suoi vestiti e per questo mi bloccai. In realtà non riuscivo a sopportare più la vista delle sue ferite. Non per il sangue, ma per il dolore. Nella mia testa vedevo ancora Hermann con la frusta e sentivo le urla di Keith.

«Sì», tirai su con il naso e mi asciugai gli occhi.

Keith si alzò e io abbassai lo sguardo. Subito dopo si voltò e si tolse i pantaloni, senza lasciarmi il tempo di capire. Entrò nel fiume e continuò a camminare. Si immerse completamente con un tuffo e risalì oscillando i capelli. Poi avanzò verso di me, finché il livello dell'acqua gli arrivò ai fianchi e allora mi tese un braccio.

Il mio respiro si era alterato insieme al mio cuore. Avevo davanti la sua versione più voluttuosa. Avrebbe dovuto essere impazzito. Io mi sentivo pazza, di lui, di ciò che stava succedendo. Girò la testa di lato e chiuse gli occhi, mentre la sua mano era ancora aperta.

Se avessi ragionato avrei trovato fin troppi motivi per cui tutto quello fosse sbagliato. Ma cercai di zittire la mente pudica e mi feci scivolare il vestito di dosso. A piccoli passi entrai, rabbrividendo dalla freddezza del Danubio. Con un braccio mi coprii il petto, l'altro raggiunse Keith e afferrai la sua mano. Camminò al mio fianco, poi mi fece continuare da sola e si fermò alle mie spalle. Mi gettò altra acqua sulla pelle ed ebbi uno spasmo, rannicchiandomi contro me stessa.

«Per prima cosa voi dovreste medicarvi», puntualizzai.

«Lo faremo da mio padre, quando gli restituirò il denaro».

Mi voltai di scatto e lo guardai incredula. Sorrisi quando constatai che i suoi occhi erano luminosi. Credei di non vederli risplendere mai più.

«Se non fosse chiaro sto chiedendo la vostra mano», confessò. A causa della circostanza non si mosse, non mi fece il baciamano, né mi toccò. Fui io ad abbracciarlo, stringendolo senza fargli male, mentre perdevo le mie funzioni vitali. «Sarebbe un sì?», rise debolmente.

A quel punto indietreggiai velocemente, creando più spazio rispetto a quello che c'era prima. «Scusatemi», mi imbarazzai, ma poi la mia felicità non si trattenne. «Non desidero altro, Milord».

«Ne sono onorato, Lady Rosamund», lentamente avvicinò una mano alla mia guancia. Un gesto moderato per permettermi di allontanarmi in qualsiasi momento, se lo avessi ritenuto inappropriato. Ma lasciai che mi toccasse e posasse un bacio sulla mia fronte. «Mi preoccupate, la vostra pelle è sempre rossa, ma la vostra temperatura è corretta», come il giorno del nostro pic-nic. Risi, nascondendo il volto con i capelli.

«Sarà meglio uscire», avanzai per prima e una volta a riva mi asciugai con il mio abito da ballo.

«Ve ne comprerò un altro», dietro di me sentivo Keith armeggiare con il bagaglio, ma non osai guardare.

«No, lo aggiusterò io», non si trattava solo del regalo, ma era l'oggetto delle nostre avventure. Il significato di tutta quella stoffa rappresentava la nostra unione, sia i momenti belli che i momenti brutti e non lo avrei sostituito con nessun altro al mondo. Esattamente come Keith. L'unica Rosa Nera nel mio giardino segreto.

Ci cambiammo, raccogliemmo le nostre cose epartimmo in sella al cavallo verso nuove avventure.  

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