CAPITOLO 73

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Aprii gli occhi, corrugando le sopracciglia per il forte mal di testa. Non appena riuscii a mettere a fuoco dove mi trovassi, il mio cuore ebbe un sussulto.

Il pavimento freddo, la luce minima, lo spazio limitato, le pareti spoglie, le sbarre in ferro.
Ero in prigione.

Con un rapido flashback, che non fece altro che aumentare la morsa che mi stringeva la testa, ricordai come, nell'acqua, quei Rasseln mi avessero tramortita. Erano gli stessi che avevo visto addentrarsi nell'oceano quando ero arrivata a Chaot. Erano ritornati e io, a mia insaputa, mi ero gettata nelle loro braccia. Il terrore che quest'isola mi aveva procurato mi aveva privata della mia razionalità. Mi ero lanciata fuori dal portale principale non appena ne avevo avuto occasione, senza riflettere o guardarmi in torno.

Volevo solo andarmene. Ed adesso, quel mio stesso desiderio, mi era diventato fatale.

Improvvisamente un Rasseln si avvinghiò alle sbarre, facendomi sussultare.

«Porto i miei omaggi, Principessa.» Strascicò l'ultima parola, caricandola di sarcasmo e disprezzo.

«Non temete. Un luogo simile non è adatto a voi. Vi scorteremo subito a palazzo»

Il Rasseln si allontanò con un ghigno, lasciandomi in balia dei fremiti. Avrei preferito vivere in quella cella per tutto il resto della mia vita, se questo fosse significato stare lontano da Markus.

Rimasi rannicchiata a terra, ripiegata nella stessa posizione per ore, con la medesima angoscia che consuma un condannato a morte il momento prima della sua esecuzione. Poi, dei passi pesanti, mi annunciarono il ritorno del Rasseln che, con flemma, aprì la porta cigolante della cella. In quell'istante capii che era arrivata la mia, di esecuzione.

Iniziai a strusciare i talloni per terra, in un disperato tentativo di allontanarmi da quell'essere, scuotendo ripetutamente la testa.

«Vattene! Non mi toccare!»

La paura stava prendendo il sopravvento, annientando ogni spiraglio di razionalità. Il solo pensiero di poter ritornare a palazzo mi immobilizzò del tutto: non ricordavo più come combattere.

Il Rasseln non si lasciò scomporre e, presto, mi raggiunse nell'angolo nel quale avevo cercato riparo. Vidi la sua mano callosa allungarsi verso di me, per poi afferrarmi per il collo della maglia. Sgranai gli occhi, sempre più in preda al terrore. Iniziai, in modo irregolare, a scalciare alla cieca, mentre con le unghie graffiavo vanamente l'epidermide del Rasseln.

«Basta...» Il suo tono rimase annoiato ed apatico anche quando mi colpì con un calcio nelle costole.

Fu così forte che anche lui perse la presa sulla maglietta, che si strappò in parte, facendomi sbattere con forza al suolo.

«Ops. Non ho controllato bene la forza. Colpa mia.»

Questa volta, con lo sguardo rivolto verso il pavimento, non mi accorsi della mano che, nuovamente, cercò di afferrarmi. La realizzazione arrivò contemporaneamente ad una stretta lancinante alla testa. A corto di fiato e con il labbro sgocciolante di sangue, tentai di oppormi alla dolorosa presa che aveva iniziato a farmi lacrimare gli occhi.

«Vostro fratello vi aveva sopravvalutato. Non vi aveva definito così mansueta.»

Indifferente alle mie sofferenze, iniziò a trascinarmi verso l'uscita della cella, tirandomi per il capelli, quando un improvviso rumore attirò la nostra attenzione.

«Che succede?» Urlò il Rasseln ai compagni, bloccandosi.

«Un nuovo prigioniero.» Rispose uno in lontananza.

Sentii l'essere dell'Altro Sole sbruffare, dopo di che, scocciato, lasciò di colpo la presa, facendomi sbattere la tempia contro la parete. Questa volta il dolore mi fece fischiare le orecchie, immobilizzandomi per qualche secondo.

«Aspettate qui, Principessa.»

Chiuse la porta cigolante alle sue spalle e si allontanò a passo sostenuto. Nonostante fossi ancora in cella, riuscii a ritrovare un attimo di pace tra quelle mura gelide.

Se solo quella porta non si fosse riaperta mai più...

Rimasi con lo sguardo vacuo fisso oltre le sbarre, con tutto il busto ancora abbandonato al muro e gli arti immobili. Dovevo ancora riprendermi dal combattimento con l'altro Rasseln e i muscoli non avevano smesso un attimo di bruciare. Anche la trachea era dolorante.

Un improvviso rumore metallico iniziò ad avvicinarsi alla cella. Pochi attimi dopo passarono due guardie, che reggevano ognuna un braccio di un uomo. Doveva trattarsi dell'altro prigioniero di cui parlavano. Doveva essere svenuto, poiché veniva trascinato come un cadavere. Aveva le mani a penzoloni e il volto basso, così pieno di lividi e tumefazioni da nascondergli quasi completamente i tratti somatici.

Ma qualcosa, in quel corpo, attirò la mia attenzione: quel ciuffo castano era dolorosamente familiare.

Fu allora che, con un tuffo al cuore, lo riconobbi. Quello non era un prigioniero qualsiasi, quello era Rubyo.

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