Capitolo 1- Ultimatum

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La folla attorno a me urlava incitando i giocatori a vincere sulla squadra avversaria. Senza esitazioni mi unii ai cori e quando l'arbitro suonò il fischio che segnò la fine dei giochi, urla di giubilo si sollevarono da parte dei genitori presenti nelle tribune per il successo raggiunto dai loro figli. Si alzarono e io con loro per potermi godere le esultazioni della squadra. I ragazzi si radunarono attorno al loro allenatore che si congratulò con loro soddisfatto, per poi dirigersi verso gli spogliatoi.

Scesi la scalinata non riuscendo a evitare le domande e i saluti che mi venivano rivolti da alcuni genitori e quando riuscii a raggiungere il campo, m'incamminai all'interno dell'edificio senza che mi fosse sfuggita l'occhiata che l'allenatore della squadra mi aveva rivolto. Lo ignorai e mi diressi verso la mia aula. 

«A domani, professoressa» mi salutò una mia alunna. Ricambiai il saluto, prima di proseguire. Raccolsi le mie cose, visto che avrei dovuto già essere da un'altra parte. Uscii dall'edificio e raggiunsi il parcheggio.

«Vivienne!»

Strinsi le chiavi tra le mani, inspirai a fondo e mi voltai. «Professor Spencer», dissi, senza abbandonare le formalità. Poi lasciai vagare il mio sguardo sul piazzale, davanti alla scuola, per assicurarmi che non ci fossero occhi indiscreti ad assistere al nostro scambio di battute. 

«Andiamo, Vivienne.»

Incastrammo i nostri sguardi. Seguì un momento di stasi, poi feci due passi indietro con tutta l'intenzione di andarmene per evitare di dar vita a una conversazione inappropriata. Sembrò capire l'antifona e provò a moderare i toni. «Grazie per il tifo di poco fa.»

«Qualunque cosa per la scuola, signor Spencer. Complimenti.» Notai alcuni alunni uscire dall'edificio.

«Senti, Vivienne.» Mi si fece vicino. Il tono della sua voce scese di tono. «Ho casa libera questo weekend...»

«Non è il luogo adatto» lo rimproverai e lo sguardo che mi lanciò mi fece sentire in colpa per l'asprezza con cui mi ero espressa. Sospirai. «Avevamo già detto che l'ultima volta sarebbe stata l'ultima, Patrick.»

«Oh, lo è stata. E lo sarà.» Gli occhi gli brillarono furbi. 

Non riuscii a non sorridere. «Non mi pare. Non complichiamo ancora di più la situazione, per favore» parlai decisa.

«Allenatore Spencer?» lo chiamò il preside dell'istituto. Mi tesi e ne approfittai per prendere le distanze dall'allenatore in questione. «Ben fatto! Abbiamo dato l'anima oggi, gli allenamenti aggiuntivi hanno dato il loro frutto.»

Salutai con un gesto sbrigativo entrambi e mi avviai verso la mia auto pronta a fuggire, avvertendo però su di me il suo sguardo insistente.

Mi sarebbe piaciuto convincermi che fosse stato tutto un immenso errore ma non lo era stato affatto, perché entrambi eravamo consapevoli di aver dato vita a una relazione azzardata e pericolosa. Sia per la posizione che entrambi occupavamo all'interno dell'istituto sia per il fatto che lui era impegnato e non di certo con la sottoscritta.

Guidai fino a casa dei miei genitori e una volta arrivata, parcheggiai e mi avviai lungo il vialetto. Suonai e mia madre venne ad aprirmi con il solito sorriso dolce sul viso. Ricambia ed entrai. Indossava il grembiule, così intuii che dovesse aver passato tutto il pomeriggio in cucina a preparare per la festa di compleanno di suo figlio. Salutai mio padre, poi mi lasciai convincere da mia madre ad aiutarla a finire di cucinare.

Quando fu tutto pronto, ci sedemmo e aspettammo l'arrivo di mio fratello. Un'attesa che si rivelò più lunga del previsto. Non amavo fare la guastafeste ma si stavano illudendo ancora una volta che Arthur sarebbe venuto. Guardai la torta al centro della tavola, alzai lo sguardo sui miei genitori e notai che il buon umore non gli aveva ancora abbandonati.

A volte mi chiedevo se vivessero in un'altra realtà. Forse migliore di quella che, in realtà, era. Ci avevo provato, ce l'avevo messa tutta per fare finta di niente ma, alla fine, mi alzai. «Non si ripeterà di nuovo, mamma.»

«Vivienne, verrà quando se la sentirà.» 

«Non verrà, mamma» insistetti. Abbassò lo sguardo e mi pentii dei miei modi.

Arthur era mio fratello e per questo gli volevo bene, ma molte volte non lo capivo: non saranno stati i migliori genitori del mondo ma ci tenevano e parecchio ai loro figli, forse troppo. E proprio per questo non li meritavamo, nessuno dei due.

Non sapevo che momento stesse attraversando, avevo preso un po' le distanze da tutto e tutti nell'ultimo periodo; e probabilmente era stato un altro errore. Lasciare Arthur da solo voleva dire solo una cosa: guai.

Rimasi a far loro compagnia, poi me ne andai quando ormai il sole era calato e mi diressi verso casa. Lungo il tragitto provai a chiamarlo ma partì la segreteria: forse aveva litigato con la ragazza di turno e si era preso un periodo da eremita. Era l'unico modo che conosceva per voltare pagina così, alla fine, decisi di non preoccuparmene e in tal caso sarei andata a trovarlo l'indomani.

Parcheggiai l'auto e, rovistando nella borsa alla ricerca delle chiavi, m'incamminai verso la mia abitazione. Quando finalmente le trovai, un'ombra si riflesse davanti a me e mi voltai spaventata, per poi ritrovarmi alle spalle Patrick. Lo trucidai con lo sguardo per la paura che mi aveva fatto prendere e lui, in risposta, mi sorrise. Semplicemente mi sorrise e mi rabbonii, perché in fondo era una delle cose che più mi piacevano di lui. «Che ci fai qui? Credevo di essere già stata chiara.»

«Non molto, in realtà.» Ci guardammo un attimo negli occhi e lessi quello che temevo: il desiderio di superare ogni limite. «Mi fai entrare? Così parliamo.»

«Non credo sia proprio il caso.»

«Ti giuro che non ti toccherò neanche con un dito» mi promise e, notando la serietà della sua espressione, gli credetti. «Almeno che non sia tu a volerlo...»

Spalancai la bocca esasperata. «Sei impossibile.» Mi voltai per aprire la porta e una volta fatto, lo lasciai entrare chiudendomi dietro la porta. Mi tolsi la giacca e l'appoggiai nell'appendiabiti mentre lui mi imitò poco dopo. «Ti offrirei qualcosa, ma non ho niente purtroppo.»

«Dell'acqua andrà benissimo», disse. «Stai ristrutturando?»

Ci avviammo verso la cucina. Mi voltai verso di lui confusa, poi mi ricordai dei sacchi che tenevo all'ingresso. «Diciamo di sì. Voglio far impermeabilizzare il seminterrato.» Aprii la credenza e presi il necessario per entrambi.

«Conosco qualcuno nel settore, se t'interessa.»

«Lo terrò a mente, grazie.» Gli sorrisi riconoscente. Iniziò a servirsi con quanto gli avevo offerto mentre io non potei evitare di pensare alla conversazione avuta quella mattina e mi tesi al pensiero che qualcuno avesse potuto fraintendere. «Non dovresti essere qui...» Alzò gli occhi su di me. «E non dovresti starmi addosso a scuola perché primo o poi se ne accorgeranno e possiamo dire addio al nostro posto di lavoro.»

Lessi lo scetticismo nei suoi occhi, a differenza mia era stato sempre quello più ottimista. Fin troppo. «Mi sembra che esageri.»

«Per niente e lo sai anche tu.»

Mi raggiunse e provò a parlarmi in tutta sincerità. «Vivienne, possiamo...»

Capii che eravamo andati oltre. Lui era andato oltre. «No, non possiamo. Sei sposato, Patrick! E per di più con un figlio.»

«Non te l'ho mai nascosto e tu non ti sei mai posta nessun problema. Allora spiegami: perché farlo ora?»

Inspirai a fondo, poi gli chiesi: «Avresti dovuto essere con loro questo weekend, giusto?» Esitò e capii di averci visto giusto. «E invece sei qui. Dovresti essere con tua moglie e tuo figlio, è quello il tuo posto, non con me.»

La delusione non la nascose. Si prese un attimo prima di affermare: «Non è un capriccio il mio, Vivienne. Non è per la noia o per qualsiasi altra stupidaggine da uomo sposato. Io tengo davvero molto a te e, credimi, non me lo so spiegare bene nemmeno io il perché stia mettendo tutto a rischio, ma sono qui.»

Distolsi lo sguardo dal suo, perché troppo intenso da sopportare. Mi appoggiai al bancone alle mie spalle. «Non è stata una buona idea farti entrare.»

Mi si fece vicino. «Ti puoi fermare un secondo a pensare solo a te e a me senza tutto il resto.» Che assurdità! E lo era proprio perché non era possibile. «Io ho bisogno di te» sussurrò. «Stiamo bene io e te insieme, no?», chiese, e non potei negare. Si posizionò tra le mie gambe. «Non può essere sbagliato: è qualcosa che è nato piano piano, non possiamo incolparci per questo.» Non seppi che cosa dire, perché era tutto inaspettato. Se qualche mese fa avessi pensato che sarei finita all'interno di questo casino, forse avrei scelto diversamente, ma ormai il danno era fatto e non si poteva più tornare indietro a cambiare il corso degli eventi. «Stare al tuo fianco mi rende migliore.» Appoggiò le mani sulle mie gambe e rimase fermo, sfiorandole adagio. «Ho giurato prima su quella porta...»

Mi guardò in un modo a cui non ero abituata. La mia reticenza svanì vittima delle sue parole e del suo trasporto. «Beh, sei fortunato che non lo abbia fatto anche io» sussurrai. Il sorriso che gli comparve sulle labbra mi abbagliò. Carpì le mie in una danza coinvolgente. Nel buio di casa mia mi lasciai andare, lontano dai giudizi altrui e soffocando qualsiasi tipo di senso di colpa potesse affiorare. E quando capii che stavamo oltrepassando la soglia da cui non vi era ritorno, lo fermai premendo le mani sul suo torace perché mi ascoltasse. «L'ultimo weekend, Patrick.» Ancora con il respiro spezzato mi fissò esitante. «L'ultima volta. Poi ognuno ritorna alla sua vita come se niente fosse successo, chiaro?» Non si mosse e mi studiò per poi annuire tristemente. Provò a riavvicinarsi, ma lo tenni a distanza. Non volevo fraintendimenti. «Voglio che sia chiaro.»

«Lo sei stata.» Il tono amaro con cui lo disse fu ben presto sostituito da uno insolente. «E, ora, fai silenzio.» Riprese da dove lo avevo interrotto e con abilità mi sollevò dirigendosi a tentoni verso la camera da letto. Ci scappò qualche risata ma, alla fine, riuscimmo ad arrivare incolumi a destinazione e, dopo avermi adagiato sul materasso, mi seguii determinato a coronare una notte indimenticabile grazie alla sua dolcezza e a un pizzico di pura passionalità. Tra le sue braccia, per un attimo, non mi sembrò un errore e l'ultimatum che avevo imposto poco prima mi aveva permesso di dettare un termine di scadenza a questa inaspettata follia. 

***

Mi svegliai non trovando Patrick al mio fianco. Scesi dal letto e, indossando la vestaglia, mi avviai verso la cucina pensando di essere sola e invece lo trovai in cucina intento a prepararmi la colazione. Sorrisi nel notare con quanta attenzione si stava impegnando. Non si era accorto della mia presenza, così mi avvicinai a lui avvolgendogli le mie braccia da dietro. Sussultò, poi si volto verso di me con un sorriso sulle labbra che si trasformò subito in uno sensuale nel notare il mio abbigliamento o meglio il mio non abbigliamento. «Vivienne, sei talmente bella che mi farai impazzire.»

«Forse, Professore, gli servono degli occhiali nuovi.»

Rise. «Non fingere di non sapere che effetto hai sugli uomini, o su di me.»

«E che effetto ho?» domandai, con un'innocenza che non mi caratterizzava.

«Non posso spiegarglielo a parole, signorina Cataldi.»

Un fremito mi colse. Sorrisi e, dopo averlo spinto scherzosamente verso i fornelli perché terminasse quello che stava preparando, mi allontanai andando a sedermi al bancone in attesa di essere servita.

Non glielo dissi, ma mi sarei facilmente abituata ad averlo intorno: Patrick era una persona unica, era dotato di una dolcezza come pochi e di certo estranea alla sottoscritta. Forse facevo così fatica a tenerlo lontano proprio perché la sua presenza stava iniziando a crearmi dipendenza; ecco perché dovevo riacquistare il controllo e provare a sistemare questa situazione prima che implodesse in qualcosa di tragico. Per adesso però volevo godermi questo momento, ci avrei pensato l'indomani - al termine del fine settimana - quando lo avrei costretto a ritornare dalla sua famiglia visto che con me, lo sapevo io e in fondo anche lui, non c'era futuro.

Quando mi servii le crepes, le gustai affamata e, golosa com'ero, ne presi un'altra sotto il suo sguardo soddisfatto. Mentre consumava il suo piatto, non potei fare a meno di fermarmi un secondo a guardarlo e mi chiesi cosa avrei fatto in un'altra situazione.

Probabilmente sarebbe stato il compagno ideale: mi trovavo bene in sua compagnia ed era proprio questo il problema. Non sarebbe stato facile chiudere, soprattutto quando si era costretti a vedersi quasi tutti i giorni al lavoro ma contavo che, essendo adulti, un comportamento maturo fosse di dovere, anche se gli ultimi eventi facevano intuire il contrario.

«Cosa vuoi fare oggi?» mi sorprese. 

Non ero abituata a condividere il mio tempo con qualcuno, non amavo dover parlare di me e non avevo voglia di fingere qualcosa che doveva essere già finito da molto ma poi, guardando la sua espressione speranzosa, non riuscii a far valere le mie ragioni. «Cosa avevi in mente?» Mi alzai per mettere via le stoviglie e una volta raggiunto il lavello, lo sentii abbracciarmi da dietro e appoggiare la testa sulla mia spalla. 

«Qualsiasi cosa andrà bene, basta che siamo insieme» confessò. Mi sciolsi sentendo le sue parole e non era da me, non amavo provare emozioni: preferivo barricare il mondo fuori senza lasciarmi andare. «Ti ricordi come ci siamo conosciuti?»

Ci riflettei qualche secondo perché dovevo ritornare indietro nel tempo. «Ero in aula professori e tu mi hai posto una domanda a cui ho gentilmente risposto.» Un incontro molto romantico, ma per lui lo era qualsiasi cosa. 

«Io non me lo ricordo così, ti ho fatto una domanda e tu mi hai letteralmente mangiato la faccia. E se non mi sbaglio dopo...»

«Ok. Forse...» Lo interruppi. Rise e cercai di voltarmi liberandomi così dalla sua presa. Mi osservò perplesso dal mio allontanamento, poi decise di sorvolare: non era mai invadente e sapeva essere così buono con me da mettermi in soggezione, mi portava a sentirmi quasi inadeguata al suo confronto. «Non sono una persona molto socievole, ti chiedo scusa in ritardo per il mio comportamento di allora.»

«Non c'è niente di cui scusarsi, perché è stato proprio in quel momento che qualcosa è scattato in me.»

«E il merito va alle imprecazioni che ho tirato?» mi presi gioco di lui.

«No» rise, poi tornò a fissarmi serio. «È stato per quello che ho letto nei tuoi occhi.»

M'irrigidii e cercai di non dar peso alla sua allusione. «Non mi conosci, Pat.» Non disse nulla, mi guardò solo confuso, o forse deluso. «Mi vado a vestire, tu fai pure come se fossi a casa tua.» M'incamminai verso la mia camera da letto, riflettendo su quello che aveva detto.

«Vivienne» mi chiamò.

Mi chiusi in camera. Mi appoggiai alla porta e, guardandomi attorno, sospirai ricomponendomi.

Dopo essermi vestita, ritornai da lui con il sorriso sulle labbra. Non volevo assolutamente mostrarmi vulnerabile o dargli modo di investigare maggiormente.

Come speravo non fece domande e optammo per una passeggiata: sentivo di aver bisogno di respirare un po' d'aria. Ora più che mai.

Nel mio quartiere vi era un enorme parco e fu proprio lì che lo portai. Passeggiamo per un bel po', lui mi parlò dei suoi progetti della squadra e io di quelli che avevo in mente per i miei alunni.
Mentalmente lo ringraziai per non essersi addentrato in tematiche più complesse e così la conversazione divenne piacevole, trasmettendomi una buona dose di serenità. Non riuscì a trattenersi dal fare qualche battuta, facendomi sorridere e appena ne ebbe l'occasione mi avvolse le spalle con il suo braccio. Gli sorrisi e lui ricambiò stringendomi a sé senza mai smettere di camminare e di certo non volevo che lo facesse. Avevo bisogno di andare avanti e di non pensare.

La vita era una strada che si era costretti a percorrere, spettava a noi decidere la direzione o dove fermarci e speravo con tutta me stessa di riuscire presto a capirlo. Di una cosa, però, ero certa: non mi sarei fermata, avrei percorso la mia strada fino alla fine per vedere che cosa mi sarebbe spettato una volta raggiunto il traguardo.

Ci fermammo a pranzare in un posto tranquillo, perdendoci ancora a chiacchierare. Patrick mi ascoltava senza lasciarsi scappare neanche una parola che usciva dalla mia bocca. Non mi sfuggii la sua curiosità, probabilmente perché voleva sapere di più su di me, ma ero sempre stata molto brava a distogliere l'attenzione dalla sottoscritta e a dirigerla altrove.

Ero io a decidere cosa rivelare senza mai lasciarmi scappare nulla di personale. Non volevo dipendere da nessuno e, aprendomi, inevitabilmente lo avrei fatto.

«Oggi pomeriggio ho un impegno», dissi.

«È un modo gentile per liberarti di me?»

«Lo credo difficile, Professor Spencer.» Rise. Sorrisi. «Ma per farmi perdonare ho intenzione di invitarla stasera a cena.» Alzò gli occhi su di me sorpreso dalla mia proposta. «Se non la disturba, naturalmente.»

«Per quanto la sua proposta mi disturbi, non mancherei per nessuna ragione al mondo.» Sorridemmo in contemporanea, complici. Lo guardai e non potei fare a meno di pensare che fosse un amico. Il mio unico e migliore amico: come lui non avrei più trovato nessuno e non fu difficile ammetterlo con me stessa.

Una volta finito di pranzare, ritornammo insieme verso casa mia visto che Patrick doveva tornare a prendere la sua auto. Si divertì a prendermi in giro lungo il cammino, solo per il gusto di sentirmi ridere e quando arrivai a destinazione, lo salutai lasciandogli un leggero bacio sulla guancia, poi m'incamminai verso la mia auto. Non riuscii a trattenere il sorriso che comparve sulle mie labbra per l'espressione imbambolata con cui ci era rimasto. 

Salii in auto e lo guardai mentre si allontanava verso la sua, gettando ogni tanto un'occhiata verso la sottoscritta. Scossi la testa divertita e lo salutai di nuovo prima di ingranare la marcia e muovermi verso la direzione opposta alla sua.

Il sorriso scomparve dal mio volto non appena raggiunsi l'edificio dove abitava mio fratello. Sospirai cercando di trovare le forze di affrontarlo, poi suonai. Non rispose e allora decisi di entrare con la copia delle chiavi che una volta mi aveva dato. Salii le scale per non prendere l'ascensore: odiavo i posti chiusi. 

Davanti alla sua porta infilai la chiave nella serratura ed entrai. «Arthur?» mi aggirai per la casa, guardandomi in giro, ma di lui non c'era traccia. Mi diressi verso la camera e vi entrai notando i suoi vestiti lanciati sul letto, qualcosa stonava, così mi avvicinai. Afferrai i vestiti e sbarrai gli occhi alla vista del sangue che li imbrattava. La preoccupazione salì alle stelle e a passo rapido corsi fuori dalla stanza. «Arthur?» urlai. Appena svoltai l'angolo, mi scontrai contro un corpo caldo e gridai dallo spavento. Mi fissò stranito e sentii la mia ansia trasformarsi in rabbia. «Ma perché cavolo non rispondi?»

Mi trucidò con lo sguardo. «Non urlare.» Si avvicinò una mano alla tempia. «Che ci fai in casa mia?»

Lo guardai e mi accorsi degli ematomi che aveva sul corpo e sul volto, sentii il sangue ribollirmi nelle vene. «Hai ricominciato?» domandai. Mi sorpassò. «Hai ricominciato con gli incontri clandestini? Ma che cavolo fai?» Non rispose, dandomi le spalle. «Sei un agente, Arthur! Se ti scoprono ti sbattono dentro.»

«Non sono affari tuoi. E ora lasciami in pace.»

«Da quanto va avanti? Mi avevi detto di aver smesso.» Ero delusa, l'ultima volta che aveva ripreso era quasi finito all'ospedale. Non mi rispose ancora una volta. «Lo sai che giorno era ieri?»

Alzò gli occhi su di me esasperato. «Era un cavolo di compleanno, Vivienne. Non potevo di certo presentarmi così da nostra madre», sbottò. 

Gli gettai un'occhiataccia. «Per loro è importante e lo sai. Potevi avvertirli...»

«Non metterti in mezzo, non lo fare» mi interruppe. Ci rimasi male e mi zittii. «Non tutti possono essere perfetti come te, sorellina.»

Mi irrigidii. «Sei un bastardo.»

Rise e mi guardò con un sorriso di scherno. «Mai quanto te», mi disse.

Ci misi qualche secondo per realizzare quello che aveva detto e non riuscii a fare altro che restare ferma a guardarlo ferita. Si rese conto di cosa avesse detto e immerse gli occhi nei miei cercando di scusarsi, ma non glielo lasciai fare, non volevo sentire nient'altro, così decisi di andarmene da quella casa prima di dire qualcosa d'imperdonabile.

«Vivienne...» Ero quasi arrivata alla porta quando percepii la sua presenza dietro di me. «Vivienne. Mi dispiace.» Non mi voltai e afferrai la maniglia, ma lui mi trattenne parandosi davanti alla porta. «Non era mia intenzione, mi hai preso un brutto momento. Scusami» mi supplicò. «Resta un po' con me, per favore.» Lo guardai e tornai indietro nel tempo a quando eravamo piccoli e lui era solito chiedermi la stessa cosa. Finiva sempre così: l'aveva vinta lui. «Ho bisogno di dormire, sono a pezzi. Mi fai un po' di compagnia? Non mi va di stare solo.» 

Sospirai e annuii. Mi sorrise cercando di farsi perdonare e lo seguii dopo aver preso del ghiaccio. Si sdraiò sul letto. M'indicò il posto vicino al suo e lo accontentai sdraiandomi al suo fianco. Mi strinse a sé, sforzandosi, siccome era ancora dolorante. «Perdonami, Vita.» 

Il soprannome che era solito darmi tanto tempo fa, mi riscaldò il cuore: era il vero significato del mio nome e una volta che lo aveva scoperto, non c'era stato modo di impedirgli di giocarci sopra.

Sentii il suo respiro farsi pesante e alzai il volto verso di lui per accorgermi che si fosse addormentato. La sua presa però mi teneva ancora salda a lui, come ad assicurarsi che non scappassi via. Sarebbe stato inevitabile, ma prima mi beai del calore che il corpo di mio fratello era sempre riuscito a trasmettermi. Mi strinsi forte a lui e visto che non poteva vedermi, scoppiai in un pianto liberatorio e silenzioso. Non sapevo con precisione per cosa stessi piangendo, probabilmente era la paura per qualcosa che mi aveva costretta a riportare a galla: odiavo perdere il controllo della mia vita e soprattutto delle mie emozioni.

Me ne andai dopo qualche ora e vagai per la città senza meta, persa nei miei pensieri. Mi ritrovai seduta sul molo a guardare il fiume che attraversava la città senza neanche sapere come ci fossi arrivata. E rimasi lì per un bel po' finché non sentii alzarsi un vento freddo e allora me ne ritornai suoi miei passi.

Arrivata a casa, mi feci un bagno caldo per ritornare in forze e una volta finito, nel momento esatto in cui mi stavo rivestendo, suonarono alla porta.

Quando andai ad aprire e mi ritrovai davanti Patrick, m'immobilizzai a guardarlo perché mi ero completamente dimenticata di averlo invitato. Il suo sguardo si fece confuso a causa del mio comportamento, ma non sapevo che cosa fare: una parte di me voleva mandarlo via e un'altra parte di me sentii che avevo bisogno di lui questa sera.

Mi sarei davvero ridotta così in basso? Sì, il vuoto che sentivo dentro non faceva altro che espandersi a ogni minuto che passava, così credetti che lui potesse colmarlo.

Lo lasciai entrare e senza neanche permettergli di dirgli una parola mi fiondai sulle sue labbra, cogliendolo di sorpresa. Ricambiò il bacio ma quando iniziai a spingerlo verso la camera, si staccò. «Che succede, Vivienne?»

«Ti prego, Pat.» Colse la mia supplica. Mi fissò negli occhi, già incollati ai suoi, alla ricerca di una risposta ma non l'avrebbe trovata perché era ben nascosta dentro di me. Si arrese e, sospirando quasi sulle mie labbra, mi accontentò.

Non lo meritava e mi sentii ancora di più uno schifo ma ci avrei pensato l'indomani all'ennesimo errore che non riuscivo a fare a meno di commettere, soprattutto con l'unica persona che non volevo perdere.

Di questo passo però, probabilmente, era proprio quello che sarebbe successo e non avrei fatto nulla per impedirlo perché non si meritava una come me.

Nessuno lo meritava.

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