Capitolo 2- Scelte Amare

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Era da una buona decina di minuti che ci eravamo svegliati ma nessuno dei due aveva avuto ancora il coraggio di abbandonare il letto. Mi scostò i capelli dal volto sistemandomeli dietro l'orecchio. Poi si chinò a lasciarmi un dolce bacio di buongiorno. Sorrise sulle labbra.

Si vedeva che era felice al mio fianco: mi guardava come se fossi l'unica per lui e questo mi disorientava. Perché non poteva essere lo stesso per me? Avevo imparato a respingere le emozioni da così tanto tempo da non riuscire più a sapere cosa volesse dire provare qualcosa.

«A cosa pensi?» mi chiese. Fui salvata dal suono del campanello che mi permise di evitare di rispondere. «Non andare.» Cercò di trattenermi ancora sotto le lenzuola e stavo per desistere, quando sentii il mio nome gridato a gran voce. Mi alzai e indossai una vestaglia. «Resta qui, per favore.» Mi guardò confuso. Lo chiusi all'interno della stanza, per poi avviarmi verso la porta. La aprii con un'espressione tutt'altro che magnanima. «Ti rendi conto che stai urlando, vero?»

Sentii la porta della camera aprirsi e imprecai mentalmente ma, anche se la tentazione fu forte, mantenni il mio sguardo su Arthur. «Non era mia intenzione disturbarti, ma dovevo vedere se stavi bene.»

«Beh, come puoi vedere sto bene.»

«Sì, lo vedo.» Diresse lo sguardo verso Patrick e mi sentii esposta: avevo il terrore che dicesse qualcosa che non volevo che quest'ultimo assolutamente sentisse. «Non mi fai neanche entrare?» mi fissò, chiedendomi un permesso che non gli avrei concesso. 

«Non è un buon momento», dissi a bassa voce.

«Lo è invece, ho bisogno di parlarti.» Sospirai e stavo per dirgli di andarsene, quando lui si rivolse all'uomo alle mie spalle. «Scusami? Problemi di famiglia, è necessario che tu te ne vada. Tanto hai già finito, no?»

Gli gettai un'occhiataccia, poi sentii Patrick avvicinarsi e avvolgermi le spalle con un braccio. «Da quello che ho capito sembra che sia tu quello che deve andarsene.»

«Patrick» lo ammonì di non intromettersi. 

Arthur lo osservò glaciale. Poi abbassò gli occhi su di me. «Vivienne, per favore.»

Non lo capivo, mi sforzavo, ma non lo comprendevo quando si comportava così. Mi tolsi dall'abbraccio di Patrick per avvicinarmi a mio fratello. «Ti prometto che parliamo, ma non adesso. Ora, per favore, va via.»

Mi mossi per rientrare. Arthur mi afferrò per un braccio e notai Patrick avanzare ma gli impedii di intervenire con uno sguardo. Mi fissò nervoso, poi mi accontentò malvolentieri mentre riportò lo sguardo su Arthur per capirne le intenzioni. «Se è per ieri, ti ho già chiesto scusa» insistette.

Scossi la testa, negando, perché per il momento era l'unica cosa che potevo fare. Non avevo altra scelta. «Non ce l'ho con te ma, ora, smettiamola di dare spettacolo.»

Rise amaramente, lasciando la presa da me. Poi puntò gli occhi sull'uomo alle mie spalle. «Benvenuto nel teatrino di Vivienne, caro Patrick. Tu che ti diverti a fare il gradasso, tra poco non sarai più nessuno. Ti lascerà sulla porta proprio come il sottoscritto», disse, lasciandomi basita.

«Ok, adesso basta» sbottai.

Si prese un attimo. Prima di infierire con altra cattiveria. «Non ti sei mai chiesto perché le va bene che sei sposato?»

Ci guardammo per un lungo attimo. Io delusa. Lui indifferente quanto vendicativo e solo per un mio rifiuto. Gli chiusi la porta in faccia, mi voltai e trovai Patrick intento a osservarmi con uno sguardo accusatore: il suo silenzio non fu per niente rassicurante. Lo sorpassai, mi diressi verso la cucina e lui mi seguì poco dopo.

«Chi era, Vivienne?»

«Mio fratello» sussurrai. 

«Tuo fratello?»

«Sì, esatto.» La sua espressione indagatrice m'innervosì. «È un bravo ragazzo, Patrick.»

«Non ho detto niente. Mi chiedo solo perché tu non mi abbia mai parlato di lui.»

Alzai gli occhi su di lui sentendomi vittima di un interrogatorio indesiderato e allora finii per tirare fuori il peggio di me. «Cambia qualcosa?»

«Come?»

Fingendomi indaffarata, glielo richiesi: «Cambia qualcosa se ho un fratello, Pat?» 

«No, ma...»

«Perfetto, discorso chiuso allora.» Mi diressi verso la credenza circondata solo da un silenzio teso.

«Non chiudiamo un bel niente invece.» Lo guardai stupita dallo scoprire che fosse davvero intenzionato a imboccare questa strada minata. «Cosa voleva dire?» domandò. Mi girai per fronteggiarlo e lui ne approfittò per pararmisi davanti. «Cosa intendeva, Vivienne?»

Sapevo che di tutto quello che era stato detto quella sarebbe stata l'unica frase che gli sarebbe rimasta in testa. 

«Patrick» sospirai. «Arthur molte volte tende a parlare a vanvera, non si può dare credito a tutto quello che dice.»

«Ah sì?» si prese gioco di me.

La mia sopportazione arrivò al limite. «Non voleva dire niente, Patrick. Era solo un modo per provocarti» provai a distrarlo dai suoi propositi, ma dal modo in cui mi fissava, capii che non mi credeva minimamente.

«Perché, Vivienne?» insistette. Intuii così che non avrebbe mollato, non con la tenacia che sapevo lo caratterizzava. «Che ti è successo? Non sono un idiota: li so cogliere i segnali ma lo stesso ho preferito non chiederti mai nulla. Adesso però...»

M'irrigidii e, sentendomi sotto pressione, dissi l'unica cosa che sapevo mi avrebbe liberato da questa tortura a cui non volevo sottopormi: «Voglio che tu te ne vada. Questo non era nei patti, non lo era.» Ci rimase male. «Non sopporto chi vuole curiosare nella mia vita privata e questo lo sai. Perché, cito tue testuali parole, non te l'ho mai nascosto.» Gl'indicai l'uscita, ma lui non si mosse.

«E cos'era nei patti?» 

«Il weekend è finito: ecco cos'era nei patti» risposi. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi deluso da me e dalla mia distanza, o forse si stava rendendo conto lui stesso che eravamo arrivati al capolinea. «È finita, Patrick. Torna dalla tua famiglia.» Mi sedetti, aspettando che se ne andasse ma, ancora una volta, non lo fece.

«Come ti riesce?» domandò. «Sembra quasi che non provi niente, come se non avesse significato niente.» Aprii la bocca, ma alzò la voce, sorprendendomi, perché era riuscito a prevedere quali sarebbero state le mie parole. «Non azzardarti a dirlo.» Distolsi lo sguardo colpevole per qualcosa che non me la sentii di negare o contestare perché, alla fine dei conti, era la verità. Mi si avvicinò, alzai lo sguardo su di lui mentre si chinò su di me e mi sentii in trappola sotto quello sguardo così innocente. «Ascoltami, Vivienne, per favore.» Mi concentrai come mi aveva chiesto, calamitata dal tono che aveva usato. «Siamo una bella squadra io e te.» Sorrisi per la sua allusione sportiva e lui lo prese come un incentivo a continuare. «Non m'interessa nient'altro. Mio figlio lo amo e forse è l'unica cosa che mi farebbe desistere dal prendere questa decisione ma... se sei tu a chiedermelo lascio mia moglie seduta stante. Quello che provo per lei non è minimamente paragonabile a quello che provo per te.»

Le sue parole per quanto sentite non riuscii a farle diventare mie. Qualcosa stonava e, anche se mi scocciò parecchio rifiutare la sua proposta, sentivo che fosse l'unica soluzione. 

La tentazione di accettare mi attraversò perché probabilmente, al suo fianco, sarebbe stata una realtà da tanto desiderata, senza più la sola solitudine ad accompagnarmi. Ma sapevo che non sarebbe stata altro che una favola. Una favola dallo sfondo amaro e malinconico per colpa di quella che in realtà ero.

«Rimani con tua moglie e tuo figlio. Quello che possono darti loro non è minimamente paragonabile a quello che invece potrei darti io. Finirei per rovinare tutto», dissi, fredda. La ragione vinse sulle emozioni.

«L'hai appena fatto.» Sentii un nodo stringermi la gola ma non fiatai, non potendo che dargli ragione. Un velo scese sui suoi occhi e mi sentii ancora di più uno schifo, poi mi sorrise, ma non era uno dei suoi soliti sorrisi caldi e rassicuranti: era pieno di tristezza per un rifiuto che non potevo fare a meno di dargli. Si avviò verso l'ingresso prendendo la sua giacca e mi alzai, per poi fermarmi a distanza a guardarlo. «Stai commettendo un errore, ti avrei resa felice.» Alzò un attimo gli occhi su di me prima di uscire dalla porta, abbandonandomi nel mio silenzio.

Non appena se ne fu andato, la solitudine mi piombò addosso. Una solitudine che mi ero scelta. Nel realizzare di averlo perso, il vuoto si propagò nel mio petto indisturbato tanto ormai sapeva che non avrei fatto nulla per colmarlo: era molto meglio non provare niente che essere feriti. Indossai così l'indifferenza con cui ero solita farmi accompagnare, l'unica mia vera alleata in questo tortuoso cammino.

***

Passai il resto della domenica a tenermi impegnata: corressi dei compiti e pianificai il piano di studi di questa settimana. Ordinai un po' la casa pur di non pensare, ma non riuscivo a togliermi dalla testa la sua espressione o il modo in cui mi aveva guardata. Lo avevo ferito e, di sicuro, ne avrei portato il peso nei giorni a venire. Volevo convincermi del contrario ma non sarebbe stato così: Patrick era riuscito a entrarmi dentro, lasciando il segno e difficilmente sarei riuscita a cancellarlo dalla mia memoria; ma probabilmente nemmeno lo avrei voluto. Sentivo che era la cosa giusta non tanto per me, ma soprattutto per lui, perché con il tempo ero più che sicura che avrei finito per rovinare la sensibilità che lo caratterizzava.

Un po' lo invidiavo, a dire il vero: era un uomo così pieno di vita da provare intensamente un milione di emozioni diverse mentre io, al contrario, facevo fatica a provare qualsiasi cosa. E la causa era una sola, solo che come per tutto il resto preferivo non preoccuparmene.

Quella sera quando andai a letto, abbracciai il cuscino e mi addormentai con il solo pensiero che domani ci saremmo rivisti, fingendo di essere due perfetti estranei.

Sapevo di potermi fidare di me stessa, ero brava nel mascherare qualsiasi cosa mi passasse per la testa ma avevo dei dubbi sul suo di comportamento.

Chiusi gli occhi annullando il mondo al di fuori, sognando di una realtà diversa, così come di una Vivienne diversa da quella che in realtà mostravo agli altri con così tanta disinvoltura.

***

Al risveglio feci colazione e mi vestii. Mi truccai leggermente, per poi prendere l'auto e avviarmi verso l'istituto.

Appena entrai in portineria, mi avvertirono di un'assemblea straordinaria dei docenti e non potei fare a meno di imprecare tra me perché era l'ultima cosa di cui avevo voglia in questo momento. Mi diressi verso l'aula destinata ad ospitarci e una volta arrivata, mi accorsi che la maggior parte delle persone era già seduta in attesa del preside dell'istituto. Mi guardai attorno per scegliere il posto dove sedermi e una volta individuato, mi mossi in quella direzione nell'esatto momento in cui Patrick entrò nella stanza e si accomodò sulla sedia a cui stavo puntando. Alzai gli occhi al cielo prima di sedermi nell'unico posto rimasto. Feci caso, in ritardo, che aveva indossato gli occhiali e, ripensando alla nostra conversazione di ieri l'altro, mi venne da sorridere e lui purtroppo mi notò. Mi guardò perplesso, poi sembrò rivivere i miei stessi pensieri e un sorriso comparve anche sul suo viso. Non riuscii a fare a meno di ampliare il mio quando se li tolse. 

Fu una situazione assurda: sembrava che non fosse cambiato niente e forse era proprio questo che voleva farmi capire. Riconobbi di averlo sottovalutato, probabilmente era più coraggioso di me nel lottare per quello in cui credeva. Io non lo avevo fatto, né credevo che ci sarei mai riuscita.

Distolsi lo sguardo all'arrivo del preside e non lo riportai più su di lui per evitare di dare vita a malelingue che, di sicuro, mi avrebbero condotta al patibolo.

Ad assemblea finita, raccolsi i miei fogli e mi fermai a parlare con un'altra docente sul programma scolastico finendo per essere una delle ultime ad uscire. Camminai lungo il corridoio e mi trovai a fermarmi alla vista di una scena che finì per scatenarmi emozioni contrastanti: Patrick teneva in braccio suo figlio e sua moglie era al loro fianco. Un velo di amarezza mi colse ma non potei fare a meno di sorridere nel vederlo così felice con il bambino che era già la sua copia sputata.

Era quello il suo posto e confidavo che lo avrebbe capito anche lui.

M'incamminai verso la mia aula. Non riuscii, però, a resistere dal gettare un'ultima volta un'occhiata nella loro direzione, come invidiosa di qualcosa che probabilmente non avrei mai avuto. Patrick fece scendere suo figlio dalle braccia e sua moglie gli parlò, dicendogli qualcosa, ma presto il suo viso si rabbuiò e una morsa mi strinse lo stomaco nel comprendere che non fossi l'unica attrice qui dentro: la sua bontà aveva prevalso e ancora una volta aveva pensato a me.

Aveva voluto rassicurarmi, farmi credere che non avesse avuto peso quello che ci eravamo detti ieri a casa mia ma, in realtà, il suo sorriso era stato tutta una finzione, perché appena uscito da quell'aula aveva tolto la maschera. Ora, però, dovetti riconoscere tra me che un peso ce lo aveva avuto eccome e la colpa era sola mia.

Scappai dietro la mia cattedra sapendo di essere al sicuro dal fare qualsiasi stupidaggine e, dopo aver salutato i miei studenti, iniziai la lezione. Una lezione che si rivelò disastrosa, non tanto per i miei alunni che pendevano dalle mie labbra ma per il fatto che avevo la testa altrove.

Mi apprezzavano perché mi ero dedicata ad applicare un metodo interattivo: mi piaceva coinvolgerli e renderli partecipi di una lezione alla pari. La letteratura faceva da padrone e il confronto era d'obbligo. Non ero soddisfatta finché non aprivano i loro pensieri e opinioni sui testi letti.

Quando avevo terminato gli studi non credevo che un giorno sarei riuscita a raggiungere questo piccolo successo: amavo la letteratura e speravo di essere riuscita a trasmetterglielo anche a loro. Volevo che una volta usciti da quest'aula si portassero con loro qualcosa, qualcosa con cui crescere. In fondo c'era molto da imparare dai grandi del passato, la storia non faceva altro che ripetersi e con essi i pensieri contrastanti che caratterizzavano la mente dell'uomo.

Aprii la mia cartellina e tirai fuori un compito, percependo la loro attenzione. Scelsi quello che era di mio interesse senza rivelare l'identità dello studente in questione e alzando lo sguardo gli trovai intenti a fissarmi curiosi.

Abbassai gli occhi sul foglio pronta a iniziare a leggere proprio nel momento in cui la porta si aprì e il Professor Spencer entrò andando ad accomodarsi in uno dei posti in prima fila. Mi tesi ma lui con tranquillità, come se fosse un'abitudine normale, mi guardò sfidandomi a dire qualsiasi cosa. Notai alcuni studenti salutarlo contenti di averlo in aula, così decisi di soprassedere e, dopo aver preso un respiro silenzioso, mi concentrai sulla lettura:

Anch'io un tempo amavo dondolarmi fra le betulle.
E così vorrei ancora tornare indietro a farlo.
Quando son stanco di considerare, e la vita
Mi pare troppo simile ad un bosco non segnato da
Sentieri, e la faccia t'arde e si solletica con le ragnatele
Strappate passandovi contro, e gli occhi
Ti lacrimano, per i ramoscelli che ti feriscono.
Vorrei andar via dal Mondo, e poi
Tornare indietro, e ricominciare.
Che il Destino non mi disconosca e almeno un poco
Mi conceda quel che voglio e non mi strappi di mano
La possibilità di ritornare. La terra è il giusto posto per amare:
non so affatto come potrebbe migliorare.
Vorrei andarmene scalando una betulla, e
Salire rami scuri lungo un tronco innevato, verso il cielo,
fin dove l'albero non potrebbe condurmi,
ma fosse pronto a piegare la cima e riportarmi giù.
Sarebbe bello andare ed al contempo ritornare.

Si potrebbe far di peggio che dondolarsi fra le betulle.

Come mi avevano fatto effetto appena le avevo lette a casa, sul mio divano, così mi fecero effetto anche qui in aula. Cercai di non lasciar trapelare nessuna emozione ma era talmente bella da annodarmi lo stomaco. Alzai lo sguardo, incrociando quello dello studente che aveva citato questa parte della poesia nel suo testo che ricambiò timido. Poi mi accorsi degli occhi di Patrick su di me: mi fissava serio, concentrato, e non potei fare a meno di sentirmi in soggezione.

Cercai di ricompormi e chiesi cosa ne pensassero. Seguii con attenzione le loro teorie sul significato che nascondeva fino a quando una mano inaspettata non si alzò chiedendo di essere ascoltata. Alcuni alunni si voltarono verso di lui curiosi ed esitai indecisa. Provai a vedere se ci fosse qualcun altro che volesse parlare ma erano tutti troppo presi dalle parole che avrebbe detto il loro Professore così, sospirando silenziosamente, gli diedi la parola.

«Si percepisce una volontà di essere parte dell'umanità ma al contempo di volerne rimanere al di fuori, preferendo osservarla da lontano.» Lo ascoltai sorpresa e nervosa perché mi sentii chiamata in causa. «C'è però un'oscurità di sottofondo, un senso di inquietudine serpeggiante, un po' come se la natura sotto il suo aspetto amichevole e poetico nascondesse un'anima selvaggia ed estranea, un'energia aliena ed incontenibile, in sé né buona né cattiva, che a un tratto emerge. Quando lo fa rompe un equilibrio, per un attimo fa risuonare qualcosa nell'animo di chi guarda, lo scuote e lo attira verso qualcosa di oscuro ma estremamente affascinante poi, però, prima di andarsene qualcosa lo richiama indietro» pronunciò le stesse parole che avevo annotato sul quaderno a casa mia e mi sentii esposta. In aula non volava una mosca, erano rimasti tutti in silenzio rapiti dalle sue parole. Abbassai gli occhi, fingendomi impegnata a studiare i fogli che tenevo sulla cattedra, poi la sua voce risuonò nuovamente. «Posso farle una domanda?» chiese. Mi sentii in trappola. «Cos'è che lo richiama indietro? Cos'è che lo fa restare?»

Ci guardammo dritto in faccia, non capii le sue intenzioni visto che doveva già essere a conoscenza di cosa ne pensassi, avendo letto il mio scritto. I suoi occhi rimasero incastrati ai miei incoraggiandomi a trovare la forza dentro di me per non lasciarmi confondere.

Voleva giocare qui davanti a tutti? E allora va bene: giochiamo.

«Forse dovrebbe chiederlo a Robert Frost.» Qualche alunno rise del mio sarcasmo e un piccolo ghigno comparve sulle labbra di Patrick divertito dalla mia presa in giro, poi decisi di assecondare lievemente questa follia. «Probabilmente il richiamo della natura da un lato e quello delle promesse dall'altro. Quello della caducità delle cose belle e dell'inflessibilità del tempo. Vi è una percezione della natura come entità primordiale che, come tale, non può essere domata, né davvero compresa dall'uomo: a volte lo sorprende con la sua grazia, altre apre le porte su domande che possono essere tremende» mi riferii a me stessa senza volere. «Domina fino alla fine una lotta continua tra ragione e istinto: accettare con grazia la fine di qualcosa, che sia un rapporto o un'età della nostra vita, non è facile, anzi anche questo può causare una sorta di contrasto tra istinto e ragione, con il cervello che capisce quando è ora di lasciar perdere, ma il cuore non può fare a meno di sentirlo come un tradimento.»

Era un azzardo portarla sul personale ma, in fondo, era qui per questo no? 

«Non ha risposto alla mia domanda, però» mi fece notare.

Gli gettai un'occhiata eloquente, ma sembrò non curarsene. Sentii troppi sguardi su di me e mi ribollì il sangue nelle vene tanto che non riuscii a contenere il mio tono acceso: «È soggettivo, Professore. Ognuno di noi, nel profondo, desidera andarsene, poi ritornare e ricominciare dagli inizi ma, come saprà benissimo anche lei, non è possibile. Si è costretti a restare, questo però non vuol dire che sia un sacrificio, anzi tutt'altro.» Si portò una mano al volto, riflettendo sulle mie parole. «Andarsene o restare? Credo sia la domanda che non smettiamo mai di porci e credo anche che non dipenda nemmeno da noi stessi», dissi. «Non crede?»

Sorrise senza dare una risposta e sinceramente lo preferii dato che non è che desiderassi di addentrarmi in un campo minato: avevo evitato di rispondere alla sua domanda e non gli era sfuggito.

La campanella suonò annunciando il termine della lezione: gli alunni esitarono qualche secondo di troppo presi dal siparietto che avevamo alzato prima di raccogliere le loro cose e andarsene. Alcuni mi passarono davanti per salutarmi, altri erano già pronti a mischiarsi nella folla di studenti diretti alla prossima lezione.

Raccolsi le mie cose e, mettendomi la borsa in spalla, li seguii senza più degnare Patrick di uno sguardo.

Aveva oltrepassato il limite esponendosi così e per di più durante una mia lezione!

Mi avviai verso le scale per poter raggiungere il piano superiore, quando la sua voce irruppe alle mie spalle. «Vivienne.»

Mi voltai verso di lui seccata, non prima però di aver controllato in giro. Per il momento nessuno stava assistendo alla scena ma ero stanca di vivere con il terrore che qualcuno ci beccasse. «Che intenzioni hai?» chiesi. «Lasciami in pace.»

Mi voltai per proseguire la mia scalata ma mi afferrò delicatamente per il braccio. «Dobbiamo parlare.»

«No, invece.» Mi liberai dalla sua presa e avanzai accorgendomi in ritardo del preside in cima alle scale intento a guardarci. Cercai di comportarmi come al solito e continuai a salire, per poi salutarlo velocemente prima di proseguire, o almeno ci provai. Mi richiamò, spiazzandomi. «Signorina Cataldi, venga nel mio ufficio. Subito, per favore.» Mi voltai e sentii due occhi bruciarmi addosso, anche se non vi badai. Lo seguii. 

Una volta nel suo ufficio chiuse la porta dietro di sé e mi invitò ad accomodarmi. Lasciai che fosse lui a parlare. «È una risorsa preziosa per questo istituto, così come il Professor Spencer» iniziò. «I suoi alunni l'adorano, posso non trovarmi d'accordo con alcuni suoi metodi ma i risultati non mentono. È una brava insegnante e mi dispiacerebbe doverla perdere. Capisce?» Non reagii, provando vergogna nel sentirmi smascherata. «L'istituto è molto severo in proposito: non vogliamo problemi né da voi né dai genitori, quindi...»

«Ho capito, signore. Non serve che dica nient'altro.»

Mi fissò serio, poi annuì convinto. «Me lo auguro, non dovrei trovarmi costretto a fare qualcosa di spiacevole», disse, prima di cambiare argomento e informarmi di alcune note della riunione di quella mattina. Mi congedò poco dopo e uscii da quello studio parecchio scombussolata, sentendo di essere sull'orlo del baratro. Non potevo rischiare di perdere quello per cui avevo lavorato con tanta fatica: era questa la mia vita e non me la sarei lasciata portare via, da nessuno.

Evitai Patrick per il resto del tempo anche se, in realtà, evitai chiunque e a giornata finita mi avviai verso casa sfinita.

Mentre stavo guidando, notai un furgone parcheggiato lungo la via che attirò la mia attenzione. Parcheggiai la mia auto e mi avviai verso la porta, trovando nella mia buchetta della posta un volantino di un'agenzia di ristrutturazioni, ripensai al mio seminterrato e mi voltai per guardarmi attorno. Mi accorsi così dell'uomo che gli aveva distribuiti avvicinarsi al suo furgone e lo raggiunsi prima che se ne andasse. Richiamai la sua attenzione e il soggetto in questione si voltò verso di me. Gli esposi il mio problema e lui mi fece qualche domanda sul tipo di lavoro a cui ero interessata. Glielo spiegai in pochi minuti e quando ebbi finito, si propose di occuparsene personalmente. Accettai e, dopo avermi lasciato il suo numero, se ne andò assicurandomi che sarebbe passato a dare un'occhiata nei giorni a venire.

Quando rientrai in casa, mi ritenni soddisfatta di essere riuscita almeno a risolvere questo mio problema. Uno dei molti a dire il vero che stavano sorgendo in quest'ultimo periodo senza che io potessi fare qualcosa per evitarlo.

Sgranocchiai qualcosa per cena e mi preparai un calice di vino, mi sedetti sul divano a sorseggiarlo davanti alla televisione, anche se non riuscii a godermi nessun programma perché dopo poco il mio telefono squillò e il numero di Arthur comparve sul display. Rifiutai la chiamata e lanciai il cellulare a distanza dopo averlo silenziato. Forse me ne sarei pentita ma per il momento non volevo pensare più a niente.

A dispetto di quanto potevano pensare, non avevo bisogno di nessuno e glielo avrei dimostrato in ogni modo: potevo benissimo cavarmela da sola, in fondo era proprio quello che avevo fatto fino ad oggi.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro